SENTENZA N. 209
ANNO 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2, comma 1; 3, comma 1, e 4, commi 2 e 4, della legge della Regione Basilicata 13 luglio 2012, n. 12 (Norme per orientare e sostenere il consumo dei prodotti agricoli di origine regionale a chilometri zero), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 10-13 settembre 2012, depositato in cancelleria il 12 settembre 2012 ed iscritto al n. 121 del registro ricorsi 2012.
Udito nell’udienza pubblica del 23 aprile 2013 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;
udito l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato a mezzo del servizio postale il 10 settembre 2012 e depositato il successivo 12 settembre, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’articolo 117, primo e secondo comma, lettera e), della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale in via principale degli articoli 2, comma 1; 3, comma 1, e 4, commi 2 e 4, della legge della Regione Basilicata 13 luglio 2012, n. 12 (Norme per orientare e sostenere il consumo dei prodotti agricoli di origine regionale a chilometri zero).
Il ricorrente premette che la legge reg. n. 12 del 2012 persegue l’obiettivo, enunciato dal suo art. 1, di valorizzare le produzioni agricole regionali, favorendo il consumo e la commercializzazione dei prodotti provenienti dalle aziende agricole ubicate nel territorio lucano, garantendo ai consumatori una maggiore trasparenza dei prezzi e assicurando un’adeguata informazione sull’origine e le specificità di tali prodotti.
In particolare, per quanto riguarda le disposizioni impugnate, l’art. 2, comma 1, della legge regionale prevede che «Negli appalti pubblici di servizi o di forniture di derrate alimentari ed agroalimentari destinati alla ristorazione collettiva costituisce titolo preferenziale per l’aggiudicazione, l’utilizzo di prodotti agricoli di origine regionale».
Il successivo art. 3, stabilisce, al comma 1, che «I comuni riservano agli imprenditori agricoli esercenti la vendita diretta di prodotti agricoli lucani, ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, almeno il 20 per cento del totale dei posteggi nei mercati al dettaglio in aree pubbliche. I comuni, anche in deroga a quanto previsto dalla legge regionale 30 settembre 2008, n. 23 “Modifiche ed integrazioni alla L.R. 20 luglio 1999, n. 19 concernente la disciplina del commercio al dettaglio su aree private in sede fissa e su aree pubbliche”, sono autorizzati all’istituzione di nuovi posteggi, fino al raggiungimento di tale percentuale».
Infine, l’art. 4 della legge regionale impugnata dispone, al comma 2, che «Alle imprese esercenti attività di ristorazione o di vendita al pubblico ed operanti nel territorio regionale che, nell’ambito degli acquisti di prodotti agricoli effettuati nel corso dell’anno, si approvvigionino per almeno il 30 per cento, in termini di valore, di prodotti agricoli di origine regionale, a chilometri zero, viene assegnato, al fine di pubblicizzarne l’attività, un contrassegno con lo stemma della Regione le cui caratteristiche sono determinate con apposita delibera della Giunta regionale da collocare all’esterno dell’esercizio e utilizzabile nell’attività promozionale». Il comma 4, a sua volta, prevede che dette imprese siano «inserite in un circuito regionale veicolato nell’ambito delle attività promozionali della Regione Basilicata», stabilendo, altresì, che la Giunta regionale, entro centottanta giorni dalla pubblicazione della legge impugnata, «produrrà il regolamento di utilizzo del marchio e il programma di valorizzazione del circuito, comprendente anche eventuali sgravi fiscali e specifici contributi o premialità nell’ambito dei bandi di finanziamento del settore».
Ad avviso del ricorrente, le menzionate disposizioni si porrebbero in contrasto con l’art. 117 Cost., tanto in relazione alla previsione del primo comma, violando i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario; quanto in relazione alla previsione del secondo comma, lettera e), ledendo la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza».
La legge regionale non mira, infatti, a promuovere tutte le merci il cui luogo di produzione si trovi ad una limitata distanza dal luogo di consumo – caratteristica individuata peraltro in modo assai vago, tramite la non meglio definita locuzione «a chilometri zero» – ma esclusivamente i prodotti lucani rientranti in tale categoria.
Il requisito dell’origine lucana del prodotto risulterebbe, peraltro, eccentrico rispetto alle finalità tipiche della promozione dei prodotti cosiddetti «a chilometri zero», rappresentate dalla tutela dell’ambiente e dei consumatori, in ragione della riduzione delle operazioni di trasporto e di conservazione degli alimenti. Detto requisito sarebbe, di conseguenza, contrario al principio di proporzionalità, al quale, in base ai Trattati istitutivi dell’Unione europea, devono rispondere le restrizioni dirette o indirette alla libera circolazione delle merci, anche se giustificate dal perseguimento di ragioni imperative di interesse pubblico. Le caratteristiche che giustificano il «favor» per i prodotti «a chilometri zero» possono rinvenirsi, infatti, allo stesso modo – e persino in maggior misura, qualora il luogo di consumo sia situato nelle zone periferiche del territorio regionale – in prodotti ottenuti o realizzati al di fuori della Regione Basilicata.
Il requisito dell’origine regionale finirebbe, di conseguenza, per determinare «inammissibili effetti discriminatori».
In particolare, l’art. 2, comma 1, della legge regionale in esame, secondo il quale l’impiego dei prodotti lucani costituisce titolo preferenziale ai fini dell’aggiudicazione di appalti pubblici di servizi di ristorazione, ostacolerebbe gli scambi intracomunitari in contrasto con i principi stabiliti dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), falsando la concorrenza. Detta disposizione avvantaggerebbe, infatti, le aziende agricole locali, dalle quali i gestori dei servizi di ristorazione collettiva sarebbero indotti a rifornirsi per conseguire l’aggiudicazione dell’appalto.
La norma censurata sarebbe, dunque, illegittima per ragioni analoghe a quelle enunciate da questa Corte nelle sentenze n. 191 e n. 86 del 2012, relative a leggi istitutive di marchi regionali con finalità di promozione della produzione locale: pronunce con le quali la Corte ha ricordato che gli articoli da 34 a 36 del TFUE vietano agli Stati di porre in essere restrizioni quantitative all’importazione e all’esportazione e qualsiasi misura di effetto equivalente, e che, in base alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, la «misura di effetto equivalente» deve essere intesa in senso ampio, tale da ricomprendere ogni normativa commerciale degli Stati che possa ostacolare, direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari.
Parimenti illegittimo sarebbe l’art. 3, comma 1, della legge regionale, il quale introdurrebbe una riserva di concessioni pubbliche in favore di chi commercia taluni prodotti agricoli, non giustificata da un effettivo interesse pubblico connesso alla tutela della salute e dell’ambiente, ma legata, nuovamente, alla loro origine lucana.
La disposizione, oltre a contrastare con il principio di non discriminazione garantito dal Trattato, violerebbe il diritto derivato dell’Unione europea, il quale consente simili riserve solo se giustificate da ragioni imperative di interesse pubblico e, comunque, proporzionate al perseguimento di tale obiettivo.
In particolare, la direttiva n. 2006/123/CE del 12 dicembre 2006, del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa ai servizi nel mercato interno (cosiddetta «direttiva servizi»), all’art. 12 stabilisce che ove il numero di «autorizzazioni» – quali definite dall’art. 4, numero 6, della direttiva stessa, tra le quali rientrerebbero pacificamente le concessioni di posteggi in aree pubbliche a fini commerciali – disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, nel rispetto del principio della libera concorrenza. Tale procedura dovrebbe offrire garanzie di trasparenza e di imparzialità e l’autorizzazione così rilasciata non dovrebbe avere una durata eccessiva, non dovrebbe poter essere rinnovata automaticamente né conferire vantaggi al beneficiario uscente.
La previsione è stata recepita nell’ordinamento italiano dal decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno), che all’art. 16 riproduce i precetti dianzi richiamati. Né principi diversi si rinvengono nel successivo art. 70, che si occupa specificamente del commercio su aree pubbliche, il quale si limita a prevedere, al comma 5, la possibilità di introdurre deroghe – sempre nel rispetto dei criteri stabiliti dall’art. 12, paragrafo 3, della direttiva – sulla base di intese «in sede di Conferenza unificata», allo stato non raggiunte.
Per le analoghe ragioni, sarebbero infine illegittime anche le disposizioni di cui all’art. 4, commi 2 e 4, della legge censurata, che assegnano alle imprese di ristorazione o di vendita al pubblico che utilizzino per almeno il trenta per cento prodotti agricoli «a chilometri zero», ma di origine lucana, un contrassegno con lo stemma della Regione, da collocare all’esterno dell’esercizio ed utilizzabile nell’attività promozionale.
Anche le menzionate disposizioni avrebbero, infatti, l’effetto di indurre le imprese a privilegiare l’acquisto di prodotti locali a discapito degli altri, al fine di fregiarsi del contrassegno, da considerare, alla luce delle citate sentenze n. 191 e n. 86 del 2012, come un «marchio illegittimo», sia pure inerente, non a prodotti, ma a servizi di ristorazione e di commercializzazione di alimenti.
I dedotti profili di contrasto con il diritto dell’Unione europea non potrebbero ritenersi elisi, d’altronde, dalla previsione di cui all’art. 7 della legge regionale, la quale subordina gli effetti dell’intera legge all’acquisizione dell’assenso della Commissione europea ai sensi degli artt. 107 e 108 del TFUE. Il procedimento richiamato – che riguarda la materia degli aiuti di Stato – non sarebbe, infatti, pertinente alla disciplina in esame, che non prevederebbe l’attribuzione di risorse pubbliche, con la conseguenza che la notifica della legge ai sensi delle richiamate disposizioni del TFUE rimarrebbe priva di effetti.
2.– La Regione Basilicata non si è costituita.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale in via principale degli articoli 2, comma 1; 3, comma 1, e 4, commi 2 e 4, della legge della Regione Basilicata 13 luglio 2012, n. 12 (Norme per orientare e sostenere il consumo dei prodotti agricoli di origine regionale a chilometri zero).
Ad avviso del ricorrente, le disposizioni impugnate – favorendo la commercializzazione dei prodotti regionali ed avvantaggiando le aziende agricole locali – violerebbero tanto il primo comma dell’art. 117 della Costituzione, per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di libera circolazione delle merci; quanto il secondo comma, lettera e), del medesimo articolo, ledendo la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza».
In particolare, l’art. 2, comma 1, della legge regionale censurata – nel prevedere che l’utilizzo di prodotti agricoli di origine lucana costituisca titolo preferenziale per l’aggiudicazione negli appalti pubblici di servizi o di forniture di prodotti alimentari ed agroalimentari destinati alla ristorazione collettiva – indurrebbe i gestori dei servizi di ristorazione collettiva a rifornirsi dalle aziende agricole locali, con ciò ostacolando gli scambi intracomunitari e falsando la concorrenza.
Il successivo art. 3, comma 1 – con l’imporre ai comuni di riservare agli imprenditori agricoli esercenti la vendita diretta di prodotti di origine regionale almeno il venti per cento del totale dei posteggi nei mercati al dettaglio in aree pubbliche – introdurrebbe, a sua volta, una riserva di concessioni pubbliche non giustificata da ragioni imperative di interesse pubblico o, comunque, non proporzionata al perseguimento di tale obiettivo.
Infine, i commi 2 e 4 dell’art. 4 – nel prevedere l’assegnazione di un contrassegno con lo stemma della Regione, da collocare all’esterno dell’esercizio e utilizzabile nell’attività promozionale, a favore delle imprese esercenti attività di ristorazione o di vendita al pubblico operanti sul territorio regionale che utilizzino in misura almeno del trenta per cento prodotti agricoli di origine lucana «a chilometri zero» – indurrebbe dette imprese a privilegiare l’acquisto di prodotti locali, a discapito degli altri, al fine di fregiarsi del contrassegno, da considerare alla stregua di «un vero e proprio marchio illegittimo».
2.– In via preliminare, va rilevato che non incide sull’ammissibilità del ricorso la previsione dell’art. 7 della legge regionale impugnata, in forza della quale gli effetti di detta legge «sono subordinati all’acquisizione del parere positivo di compatibilità da parte della Commissione europea ai sensi degli artt. 107 e 108 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea».
A prescindere dalla considerazione che il richiamato parere di compatibilità si riferisce alle sole misure potenzialmente qualificabili come aiuti di Stato – misure che la legge in esame prefigura, e in termini di mera eventualità, solo all’esito della futura emanazione del regolamento concernente l’utilizzazione del marchio regionale previsto dall’art. 4 – questa Corte ha già avuto modo di precisare che «l’impugnativa da parte dello Stato delle leggi regionali è sottoposta, ai sensi dell’art. 127 della Costituzione, ad un termine tassativo riferito alla pubblicazione e non anche all’efficacia della legge stessa e, d’altra parte, la pubblicazione di una legge regionale, in asserita violazione del riparto costituzionale di competenze, è di per sé stessa lesiva della competenza statale, indipendentemente dalla produzione degli effetti concreti e dalla realizzazione delle conseguenze pratiche» (sentenze n. 407 del 2002 e n. 332 del 1998). Ne deriva che il differimento nel tempo dell’entrata in vigore di disposizioni regionali, condizionato al verificarsi di un evento o all’adozione di un atto, non produce l’inammissibilità del ricorso in via principale (sentenza n. 45 del 2011).
3.– Quanto al merito del ricorso, le censure del ricorrente relative all’asserita violazione del riparto interno, tra Stato e Regioni, delle competenze legislative – in specie, per avvenuta lesione della competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.) – assumono carattere pregiudiziale, sotto il profilo logico-giuridico, rispetto alle censure intese a denunciare la violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, che investono i contenuti delle scelte legislative concretamente operate (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2012, n. 120 e n. 67 del 2010).
In riferimento al citato art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., le questioni sono fondate.
Al riguardo, giova premettere che la legge della Regione Basilicata n. 12 del 2012 – stando al relativo titolo – è volta ad «orientare e sostenere il consumo dei prodotti agricoli di origine regionale a chilometri zero».
Nell’ambito delle disposizioni della legge regionale, tuttavia, la qualificazione «a chilometri zero» – formula che, nel lessico corrente, designa i prodotti consumati a breve distanza dal luogo di produzione, con connessi benefici in termini di tutela dell’ambiente e dei consumatori – rimane priva di ogni concreta valenza selettiva, distinta e ulteriore rispetto a quella insita nel predicato «di origine regionale».
La definizione della nozione di «prodotti a chilometri zero», offerta dall’art. 1, comma 1, della legge («prodotti agricoli ed agroalimentari destinati all’alimentazione umana, ottenuti e trasformati»), prima ancora che generica, si rivela, infatti, eccentrica rispetto al concetto definito, in quanto attinente alla sola natura del prodotto, e non già alla distanza tra luogo di produzione e luogo di consumo. Negli ulteriori commi dell’art. 1 e nelle successive disposizioni della legge è, per converso, costante la limitazione delle prefigurate misure di sostegno ai prodotti di provenienza lucana.
La legge regionale – e, in particolare, le disposizioni impugnate – risultano volte, dunque, ad incentivare il consumo dei soli prodotti di origine regionale come tali, indipendentemente dall’ubicazione del luogo di produzione o dalla presenza di particolari qualità, senza che la tutela si estenda a prodotti con caratteristiche analoghe, ancorché provenienti da aree poste a distanza uguale o minore dal luogo di consumo (come può avvenire, in specie, ove il consumo avvenga in zone limitrofe ad altre Regioni).
4.– Ciò puntualizzato, per quel che concerne il parametro costituzionale evocato, la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la nozione di «concorrenza», di cui al secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost., riflette quella operante in ambito comunitario. Essa comprende, pertanto, sia le misure legislative di tutela in senso proprio, intese a contrastare gli atti e i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati; sia le misure legislative di promozione, volte ad eliminare limiti e vincoli alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese (concorrenza “nel mercato”), ovvero a prefigurare procedure concorsuali di garanzia che assicurino la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici (concorrenza “per il mercato”) (ex plurimis, sentenze n. 291 e n. 200 del 2012, n. 45 del 2010). In questa seconda accezione, attraverso la «tutela della concorrenza», vengono perseguite finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (sentenze n. 299 del 2012 e n. 401 del 2007).
Ove la suddetta materia, considerato il suo carattere finalistico e «trasversale», interferisse anche con materie attribuite alla competenza legislativa delle Regioni, queste ultime potrebbero dettare una disciplina con «effetti pro-concorrenziali», purché tali effetti siano indiretti e marginali e non si pongano in contrasto con gli obiettivi posti dalle norme statali che tutelano e promuovono la concorrenza (sentenze n. 43 del 2011 e n. 431 del 2007).
5.– Alla concorrenza “per il mercato” e, dunque, all’ambito materiale della «tutela della concorrenza» questa Corte ha, d’altro canto, già ascritto la disciplina delle procedure di selezione dei concorrenti e dei criteri di aggiudicazione degli appalti pubblici (tra le ultime, sentenze n. 52 del 2012, n. 339 e n. 184 del 2011).
Si colloca, pertanto, in tale ambito anche l’impugnato art. 2, comma 1, della legge regionale, il quale stabilisce che l’utilizzo dei prodotti agricoli di origine lucana costituisce titolo preferenziale per l’aggiudicazione di appalti pubblici di servizi o di forniture di prodotti alimentari ed agroalimentari destinati alla ristorazione collettiva.
In tal modo, viene imposto all’amministrazione appaltante un criterio di scelta del contraente diverso e ulteriore rispetto alle previsioni della legislazione statale e, in particolare, degli artt. 81 e seguenti del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE): criterio che non solo non favorisce la concorrenza, ma chiaramente la altera, risolvendosi in un favor per gli imprenditori che impiegano prodotti provenienti da una certa area territoriale (quella lucana), così da poter vantare il titolo preferenziale in questione.
6.– Parimenti lesivo del titolo competenziale invocato dal ricorrente si rivela l’art. 3, comma 1, della legge in esame, che impone ai comuni di riservare agli imprenditori agricoli esercenti la vendita diretta di prodotti agricoli lucani almeno il venti per cento del totale dei posteggi nei mercati al dettaglio in aree pubbliche, autorizzando, a tal fine, i comuni stessi «all’istituzione di nuovi posteggi», anche in deroga alle previsioni della legge reg. 30 settembre 2008, n. 23 (Modifiche ed integrazioni alla L.R. 20 luglio 1999, n. 19, concernente la disciplina del commercio al dettaglio su aree private in sede fissa e su aree pubbliche), «fino al raggiungimento [della suddetta] percentuale».
La disciplina regionale risulta, anche in questo caso, diversa e più restrittiva rispetto a quella stabilita dalla normativa statale. L’art. 28, comma 15, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), come modificato dal decreto-legge 9 settembre 2005, n. 182 (Interventi urgenti in agricoltura e per gli organismi pubblici del settore, nonché per contrastare andamenti anomali dei prezzi nelle filiere agroalimentari), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2005, n. 231, prevede, infatti, una riserva nell’assegnazione dei posteggi per l’esercizio del commercio su aree pubbliche a favore di tutti indistintamente gli «imprenditori agricoli che esercitano la vendita diretta ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228».
La norma regionale in esame determina dunque, di nuovo, effetti anticoncorrenziali, in danno degli imprenditori che non vendano derrate agricole di origine lucana. È evidente, infatti, che la previsione di restrizioni ulteriori alla possibilità di accesso degli operatori alle concessioni di posteggi su aree pubbliche, in un contesto nel quale l’esercizio del commercio è condizionato dalla disponibilità di spazi appositamente definiti, si risolve in un ostacolo alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale (al riguardo, sentenza n. 18 del 2012).
Né, d’altro canto, il dedotto profilo di illegittimità costituzionale può rimanere escluso dall’attinenza della norma impugnata anche alla materia del «commercio», riservata alla potestà legislativa residuale delle Regioni. Come chiarito, infatti, in più occasioni da questa Corte, «è illegittima una disciplina che, se pure in astratto riconducibile alla materia commercio di competenza legislativa delle Regioni, produca, in concreto, effetti che ostacolino la concorrenza, introducendo nuovi o ulteriori limiti o barriere all’accesso al mercato e alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale» (sentenze n. 18 del 2012 e n. 150 del 2011): ipotesi, per quanto detto, riscontrabile nel caso considerato.
7.– La competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza» è lesa, infine, anche dalle disposizioni di cui all’art. 4, commi 2 e 4, della legge regionale.
Con dette disposizioni, la Regione Basilicata ha istituito un contrassegno con il proprio stemma, per le imprese di ristorazione o di vendita al pubblico operanti in Regione che, nell’ambito degli acquisti di prodotti agricoli effettuati nel corso dell’anno, si approvvigionino per almeno il trenta per cento, in termini di valore, di prodotti di origine regionale: contrassegno da collocare all’esterno dell’esercizio e utilizzabile nell’attività promozionale (comma 2 dell’art. 4). È previsto, inoltre, che le imprese in questione siano inserite «in un apposito circuito regionale veicolato nell’ambito delle attività promozionali della Regione Basilicata», mentre viene affidato alla Giunta regionale il compito di adottare, entro centottanta giorni dalla pubblicazione della legge, un regolamento recante la disciplina «di utilizzo del marchio e il programma di valorizzazione del circuito, comprendente anche eventuali sgravi fiscali e specifici contributi o premialità nell’ambito dei bandi di finanziamento del settore» (comma 4).
Come chiaramente si evince dal ricordato complesso di previsioni, l’intento è, dunque, quello di introdurre e di regolare un segno distintivo delle imprese che impieghino o commercino, in termini percentualmente significativi, prodotti agricoli lucani.
In proposito, questa Corte ha avuto modo di rilevare come il concetto di «segno distintivo», inteso in senso ampio, abbracci un complesso di istituti, qualificati con denominazioni eterogenee dalla legislazione vigente (quali, ad esempio, quelle di marchi di impresa, marchi collettivi, denominazioni di origine o denominazioni di provenienza) e destinati ad assolvere funzioni parzialmente diverse (ora, cioè, di prevalente di tutela dei produttori contro la concorrenza sleale, ora, invece, di certificazione della qualità del prodotto, a garanzia, almeno in via principale, del consumatore). Su tale premessa, la Corte ha rilevato, altresì, come la disciplina dei segni distintivi sia suscettibile di incidere su plurimi interessi (dei produttori, dei consumatori, della collettività al rispetto del principio di verità, del corretto svolgimento della concorrenza), interferendo, correlativamente, su una molteplicità di materie: interferenza che può essere, peraltro, composta facendo ricorso al criterio della prevalenza.
Al pari che in altri casi in precedenza scrutinati (sentenze n. 368 del 2008 e n. 175 del 2005), tale criterio porta a ricondurre anche le disposizioni oggi in esame alla materia, riservata alla legislazione dello Stato, della «tutela della concorrenza». A tale materia risulta, infatti, ascrivibile il nucleo essenziale della disciplina recata dalle norme in discussione, avuto riguardo al loro contenuto e alla loro ratio, che si identifica essenzialmente nell’intento di orientare la preferenza del mercato verso una determinata categoria di prodotti, qualificata dal mero territorio di provenienza.
8.– Alla luce delle considerazioni che precedono, gli articoli 2, comma 1; 3, comma 1, e 4, commi 2 e 4, della legge reg. n. 12 del 2012 vanno, dunque, dichiarati costituzionalmente illegittimi, rimanendo assorbite le ulteriori censure.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa, in via consequenziale, al comma 3 dell’art. 4, che detta una disposizione meramente strumentale a quella del comma 2 del medesimo articolo (ivi esplicitamente richiamato), stabilendo le modalità con le quali, ai fini dell’ottenimento del contrassegno regionale, deve essere documentato l’approvvigionamento dei prodotti di origine regionale nella percentuale richiesta (e, cioè, tramite indicazione, nelle fatture di acquisto, «dell’origine, natura, qualità e quantità dei prodotti acquistati»).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 2, comma 1; 3, comma 1, e 4, commi 2 e 4, della legge della Regione Basilicata 13 luglio 2012, n. 12 (Norme per orientare e sostenere il consumo dei prodotti agricoli di origine regionale a chilometri zero);
2) dichiara, in applicazione dell’articolo 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 3, della medesima legge della Regione Basilicata n. 12 del 2012.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2013.