ORDINANZA N. 86
ANNO 2013
Commento alla decisione di
Gugliemo Leo
(per gentile concessione della Rivista telematica Diritto penale contemporaneo)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo
Maria NAPOLITANO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale
degli articoli 34, comma 2, e 36, comma 1, lettera g), e comma 3, del codice di procedura penale promosso dal Giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo nel procedimento penale a
carico di L.P.C. ed altri con ordinanza del 25 febbraio 2013, iscritta al n. 57
del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti l’atto di costituzione di D.G.T., nonché
l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7 maggio 2013
il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi l’avvocato Giovanni Castronovo per
D.G.T. e l’avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio
dei ministri.
Ritenuto che, con ordinanza del 25 febbraio 2013 (r.o. n. 57
del 2013), il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo ha
sollevato: a) in riferimento agli articoli 3, 24, 25, 101 e 111 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 36, comma
1, lettera g), del codice di
procedura penale, «nella lettura in combinato disposto con l’articolo 34» dello
stesso codice, «nella parte in cui prevede che, nel caso in cui vi sia
"incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento”, il
giudice debba formalizzare richiesta di astensione in luogo dell’attivazione di
automatismi di tipo tabellare preordinati dall’ufficio»; b) in riferimento agli
articoli 3, 24, 25, 101 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’articolo
36, comma 3, cod. proc. pen., «nella lettura in combinato disposto con
l’articolo 34» dello stesso codice, «nella parte in cui prevede che, nel caso
in cui vi sia "incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel
procedimento”, il Presidente del Tribunale possa "decidere” discrezionalmente
sull’astensione imponendo al giudice del rito abbreviato la prosecuzione del
giudizio nel caso in cui lo stesso abbia definito l’udienza preliminare con il
rinvio a giudizio di co-imputati per un reato associativo e/o plurisoggettivo»;
c) in riferimento agli articoli 3, 24, 25 e 111 Cost., questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 36 [recte 34], comma 2, cod. proc. pen., «nella lettura in
combinato disposto con l’articolo 34» [recte 36] dello stesso codice, «nella parte in cui le parole
"Non può partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento
conclusivo dell’udienza preliminare” siano interpretate nel senso di attribuire
al giudice – che ha deciso l’udienza preliminare con il rinvio a giudizio di
imputati per un reato associativo e/o plurisoggettivo – la possibilità di decidere anche il giudizio
abbreviato nei confronti degli altri imputati per la stessa rubrica, essendo
questi ultimi privati della possibile formula assolutoria "perché il fatto non
sussiste”»; d) in riferimento agli articoli 3, 24, 25 e 111 Cost., questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 36 [recte 34], comma 2, cod. proc.
pen., «nella lettura in combinato disposto con l’articolo 34» [recte 36] dello
stesso codice, «nella parte in cui le parole ”Non può partecipare al giudizio
il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare”
siano interpretate nel senso di permettere, comunque, la partecipazione al
giudizio abbreviato da parte dello stesso giudice dell’udienza preliminare, che
aveva già prima deciso, con il rinvio a giudizio e nei confronti di altri
co-imputati, il processo relativo alla imputazione per reato associativo,
plurisoggettivo e/o a partecipazione necessaria»;
che il giudice rimettente premette in
punto di fatto che:
a) è stato investito della richiesta di
rinvio a giudizio nei confronti di trenta persone imputate del delitto di
associazione di tipo mafioso, del delitto di cui all’art. 74 del decreto del Presidente della
Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo
unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza) e di altri delitti (la maggior parte dei quali in concorso
tra varie persone) e, nel corso dell’udienza preliminare, undici imputati
avevano formulato richiesta di definizione del processo con il giudizio
abbreviato, mentre per gli altri diciannove era stato disposto il rinvio a
giudizio; b) egli sta procedendo, in sede di giudizio abbreviato, per il
delitto di cui all’art. 416-bis del
codice penale (capo A), per due episodi di tentata estorsione pluriaggravata
(capi B e C), per i delitti di cui all’art. 74 (capo D) e 73 (capo E) del d.P.R. n. 309 del 1990, per alcune imputazioni di rapina
(capi I ed N), di lesioni (capi L ed O), di furto pluriaggravato (capo M), di
riciclaggio (capi R ed S) e di favoreggiamento (capo T); c) le imputazioni di
cui ai capi A, B, C, D, E, R ed S erano state originariamente formulate anche
nei confronti delle persone già rinviate a giudizio; d) aveva presentato
dichiarazione di astensione a norma dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. e
anche per gravi ragioni di convenienza ai sensi dell’art. 36, comma 1, lettera h), cod. proc. pen., allo scopo di
prevenire la possibile ricusazione dei difensori e, comunque, «il sospetto di
una imparzialità nel giudizio connessa alla decisione interlocutoria già
emanata nei confronti di altri soggetti uniti, su uguale rubrica, per un
delitto a tipologia plurisoggettiva piena»; e) con provvedimento del 26
settembre 2012, il Presidente del Tribunale di Palermo, richiamando la sentenza
della Corte di cassazione, seconda sezione penale, 12 febbraio 2009, n. 8613,
non aveva accolto la dichiarazione di astensione; f) lo stesso Presidente del
Tribunale, pochi giorni prima e in una situazione identica in diritto, aveva
accolto la domanda di astensione, ritenendo l’incompatibilità del giudice a
proseguire il giudizio; g) una volta iniziato il giudizio abbreviato, i
difensori degli imputati avevano preannunciato una dichiarazione di ricusazione
ma successivamente avevano eccepito l’illegittimità costituzionale: 1) in
riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117 Cost. in relazione all’art.
6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata e resa
esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848), dell’art. 34 cod. proc. pen.
nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a giudicare del giudice
dell’udienza preliminare che ha emesso il decreto che dispone il giudizio nei
confronti degli imputati dello stesso procedimento; 2) in riferimento agli
artt. 3, 24, 25 e 111 Cost., dello stesso art. 34 cod. proc. pen., nella parte
in cui non prevede l’incompatibilità alla trattazione del giudizio abbreviato
del giudice che, per reati associativi, abbia pronunciato, all’esito
dell’udienza preliminare, il decreto che dispone il giudizio nei confronti di
alcuni coimputati per i medesimi reati;
che il giudice rimettente osserva, in
punto di diritto, che le due eccezioni proposte dalla difesa tendono alla
declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 34 cod. proc. pen. per
non aver previsto l’"inabilità” del giudice che ha già deciso l’esito
dell’udienza preliminare a proseguire il giudizio nei confronti degli altri
coimputati che hanno scelto il rito alternativo;
che, secondo il rimettente, è «evidente
che il giudice (id est), con il
rinvio a giudizio (lo dice la stessa parola), ha giudicato ed ha, quindi,
espresso valutazioni di merito sull’accusa», e «tuttavia, non basta questa
ragionevole constatazione a dare tutta la forza necessaria all’eccezione di
(il)legittimità costituzionale per la semplice ragione che il codice di
procedura penale – al suo articolo 34, comma 2 – ben prevede l’incompatibilità
già in modo espresso: non si può chiedere, infatti, la declaratoria di
incostituzionalità di qualcosa che si assume non prevista allorché essa è,
invece, prevista»;
che, osserva ancora il rimettente, se
l’art. 34 cod. proc. pen. prevede esplicitamente l’incompatibilità («Non può
partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo
dell’udienza preliminare»), sorge l’interrogativo su come sia stato possibile
giungere, nel giudizio a quo, ad una
situazione contraria a quella stabilita dalla norma;
che una prima risposta a tale
interrogativo sarebbe individuabile nella tesi secondo cui il riferimento
contenuto nell’art. 34 cod. proc. pen. al «giudizio» sarebbe relativo a «quello dibattimentale e che, quindi,
l’impossibilità colpirebbe solo l’ipotesi che a giudicare il rinviato a
giudizio sia lo stesso giudice che ha deciso il rinvio»;
che una diversa impostazione condurrebbe
a connotare la norma in ragione dei soggetti del processo e delle singole
posizioni processuali, sicché «lo stralcio processuale - generatosi dalla
scelta di un rito alternativo - creerebbe una scissione anche in ordine alla (im)possibile partecipazione al giudizio»;
che da questa impostazione sarebbe
derivata la ricerca della scindibilità o inscindibilità delle posizioni
processuali e dei reati contestati, sulla base di una distinzione artificiosa e
complessa;
che sarebbe, infatti, chiaro che il
legislatore (in particolare quello del "giusto processo”) avrebbe affermato
«ciò che dalla norma è esplicitamente previsto», ossia che «il giudice che ha
deciso l’esito del processo (processo nella sua globalità) preliminare (e senza
alcuna distinzione di imputati e di imputazioni) non possa essere lo stesso che
poi darà la sua decisione finale nel merito delle accuse (senza alcuna
distinzione correlata alla tipologia di esito e, quindi, sia che essa decisione
sia assunta attraverso un rito abbreviato o attraverso un vaglio di tipo
dibattimentale)»;
che da questa impostazione discenderebbe
la facoltà concessa al giudice di «scegliersi e autogiudicarsi compatibile o
meno», magari rischiando la ricusazione, ma restando sempre dominus del rito e della sua
celebrazione;
che, restando al giudice il solo
strumento dell’astensione, in caso di rigetto della relativa dichiarazione, lo
stesso dovrebbe procedere nonostante la sua stessa volontà contraria;
che il duplice paradosso riguardante
«un’impossibilità che diventa dovere» e che «fa, di una facoltà concessa, una
coazione» rappresenterebbe una «patologia» al cui superamento sarebbe
indirizzata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal
rimettente;
che, ricostruita l’evoluzione della
giurisprudenza costituzionale e richiamata, in particolare, l’ordinanza n. 20 del
2004, il rimettente ne sottolinea le affermazioni secondo cui l’udienza
preliminare sarebbe giudizio ad ogni effetto e solo il giudice potrebbe dire se
sussista l’incompatibilità, rimarcando che «è l’astensione del giudice lo
strumento attraverso cui il principio dell’incompatibilità (…) trova la sua
naturale regolazione e, così, garanzia di giusto processo»;
che l’ordinanza n. 347
del 2010 della Corte costituzionale sembrerebbe rappresentare un’ulteriore
evoluzione delineando «un’incompatibilità assoluta e non discrezionale del
giudice», tale da essere destinata ad operare in casi, come quello in esame nel
giudizio principale, in cui l’avere già affermato attraverso un decreto che
dispone il giudizio la sussistenza di un fatto riguardante un reato commesso
con la partecipazione di almeno tre persone, di cui due già chiamate a
rispondere davanti al giudice dibattimentale (sicché il coimputato vedrebbe
venir meno, nel giudizio abbreviato, la pronuncia assolutoria "perché il fatto
non sussiste” a causa del rinvio a giudizio dei coimputati necessari), «deve –
e non dovrebbe – comportare l’abbandono automatico del processo da parte del
giudice con riassegnazione di natura tabellare e non in ragione di astensione»;
che, prosegue il rimettente, anche
interpretando restrittivamente la pronuncia della Corte costituzionale,
resterebbe il problema dell’astensione, che, da un lato, sarebbe espressione di
un dovere procedimentale mirato ad evitare il sospetto di qualsiasi interesse
nel processo, dovere rilevante in ambito disciplinare, mentre, dall’altro,
rappresenterebbe il punto nevralgico della volontà del giudice («del suo
sentirsi effettivamente terzo e serenamente lontano da ogni possibile o
residuale sospetto di condizionamento»), così collocandosi in seno alla
prerogativa costituzionale della soggezione del giudice soltanto alla legge
(art. 101 Cost.) ed atteggiandosi a strumento di coscienza e di libertà di
giudizio;
che, in questa seconda prospettiva, il
giudice rimettente si chiede se sia rispettosa della Costituzione quella norma
che – a fronte di un’incompatibilità dichiarata per effetto di legge
processuale e della conseguente astensione – «obbliga il giudice a trattare il
processo, contro la sua stessa volontà, rendendolo sospetto ex se e viziando, agli occhi delle
difese, quel ruolo per manifestato possibile pregiudizio»;
che la risposta all’interrogativo
dovrebbe essere nel senso dell’insussistenza di qualsiasi violazione
nell’imporre al giudice la prosecuzione del giudizio se la legge prevedesse
l’astensione e il suo rigetto, ma, sottolinea il rimettente, «nessuna norma
prevede la possibilità di rigetto dell’astensione» da parte del Presidente
della corte o del tribunale, posto che il riferimento al «decide» contenuto
nell’art. 36, comma 3, cod. proc. pen. «non per forza indica una facoltà di
reiezione», ma avrebbe collocazione nel quadro delle prese d’atto e non nel
contesto delle facoltà, soprattutto qualora l’astensione non si correli ad una
condizione personale del giudice, ma alla rigida osservanza della legge;
che «lontani da questa logica si
perviene al paradosso di un giudice che assume di non poter procedere per
evitare la violazione di una legge ed il suo superiore che lo obbliga assumendo
che quella legge non sarebbe, in realtà, violata», sicché, qualora l’astensione
derivi da un’incompatibilità prevista dalla legge, «non vi può essere discretività accoglitiva»;
che la violazione di questo principio
inciderebbe sul diritto di tutti i cittadini ad avere uguale trattamento ed un
giudice naturale precostituito per legge;
che due situazioni giuridicamente uguali
– come quelle oggetto dei difformi provvedimenti del Presidente del Tribunale
di Palermo – «devono essere trattate in modo uguale, altrimenti la facoltà può
agevolmente tracimare in un arbitrio senza controllo», determinando un effetto
finale di disparità;
che un aspetto della consolidata
interpretazione dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., mai vagliato dalla
giurisprudenza costituzionale, sarebbe rappresentato dal rilievo che i
coimputati di un reato plurisoggettivo che abbiano scelto il rito abbreviato
sarebbero privati della possibilità del proscioglimento "perché il fatto non
sussiste”, in quanto «se è vero che il giudice che ha definito l’udienza
preliminare può essere il giudice del rito abbreviato anche nei confronti dei
restanti imputati per il reato associativo, sarà vero – parimenti – che quel
giudice, attraverso l’emanazione del decreto che dispone il giudizio, avrà già
affermato che il fatto associativo sussiste», circostanza, questa, che sarebbe
processualmente certa per la mancata pronuncia di una sentenza di non luogo a
procedere con la formula, appunto, "perché il fatto non sussiste”;
che il decreto che dispone il giudizio
sarebbe l’interlocutoria, ma implicita, prova che per il giudice il fatto sussiste,
il che priverebbe, in fatto, un imputato di una formula assolutoria, così
creando una situazione di disparità di trattamento processuale integrante una
violazione della regola del giusto processo;
che il rilievo troverebbe ulteriore
riscontro nel caso di contestazione della circostanza aggravante del numero di
persone superiore a cinque ex art.
112, primo comma, numero 1), cod. pen.;
che, al riguardo, si chiede il
rimettente se possa dirsi terzo, imparziale e attore di un giusto processo il
giudice che, avendo deciso il rinvio a giudizio di tre su cinque imputati (così
implicitamente suffragando l’ipotesi della sussistenza della circostanza
aggravante indicata), proceda nel giudizio abbreviato richiesto dagli altri due
coimputati, avendo già affermato in sede preliminare la compartecipazione delle
cinque persone nel reato;
che la decisione della Corte
costituzionale sarebbe determinante al fine di stabilire se lo stesso giudice
dovrà continuare a trattare il rito abbreviato, pur avendo deciso il rinvio a
giudizio – sugli stessi capi d’imputazione e per reati associativi «pieni» –
nei confronti di altri coimputati dello stesso processo;
che, per quanto riguarda la non
manifesta infondatezza della questione, il primo periodo del comma 2 dell’art.
34 cod. proc. pen., così come interpretato fino ad oggi e come sarebbe
dimostrato dagli accadimenti del processo principale, sarebbe in evidente
contrasto con l’art. 101 Cost. «perché, trasformando un dovere di legge in
facoltà, trasforma un giudice soggetto soltanto alla Legge in un giudice
sottomesso alla facoltà di un Capo dell’Ufficio condizionando la sua libertà di
giudizio e di coscienza»;
che non sarebbe conforme a Costituzione
un sistema in cui «un’impossibilità si trasforma in facoltà privando il giudice
di una prerogativa», né potrebbe ritenersi che il rispetto della legge «sia
quello di tipo militare o amministrativo ossia di un organo gerarchizzato che
si acquieta davanti alla scelta di un suo superiore anche se essa è
visibilmente contraria a quella suggerita dalla sua interpretazione delle norme
e dalla sua coscienza»;
che, diversamente interpretata, la norma
sull’astensione sarebbe contraria all’ispirazione della Carta fondamentale;
che ulteriori profili di illegittimità
costituzionale si riferirebbero agli artt. 3, 24, 25 e 111 Cost.;
che anche con riguardo all’uguaglianza
dei cittadini davanti alla legge, all’inviolabilità della difesa, al giudice
naturale e al giusto processo, l’interpretazione delineata avrebbe effetti
sistematici paradossali come dimostrato dal confronto tra i «due provvedimenti
resi dal Presidente del Tribunale, a soli pochi giorni l’uno dall’altro ed in
una identica situazione in diritto: in un processo il giudice era dichiarato
incompatibile, nell’altro, era obbligato al giudizio»;
che, ad ulteriore dimostrazione
dell’assunto, il rimettente sottolinea che la definizione dell’udienza
preliminare, con il rinvio a giudizio dei coimputati del reato plurisoggettivo,
avrebbe come effetto l’impossibilità di emettere una pronuncia "perché il fatto
non sussiste” nei confronti di chi abbia scelto il giudizio abbreviato, con
evidente effetto di disparità di trattamento;
che, osserva infine il rimettente, fuori
dalle certezze della libertà del giudice e dell’uguale trattamento di
situazioni giuridicamente uguali, qualsiasi facoltà potrebbe tracimare in
arbitrio;
che l’intervento della Corte
costituzionale sarebbe, quindi, necessario per ristabilire i princìpi
fondamentali in materia di prerogative del giudice e di giusta determinazione
delle regole che il giudice stesso deve amministrare;
che è intervenuto nel giudizio di
legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata;
che, anche nel caso di astensione
obbligatoria, il dirigente dell’ufficio non potrebbe limitarsi ad una passiva
ricezione e presa d’atto della dichiarazione del giudice, in quanto l’art. 36
cod. proc. pen. sarebbe ispirato alla necessità di contemperare i principi di
terzietà e di imparzialità con quello, di pari rilievo costituzionale, del
giudice naturale precostituito per legge, sicché sarebbe fondamentale
riconoscere al dirigente dell’ufficio la facoltà di valutare la sussistenza
delle circostanze dedotte a sostegno della dichiarazione stessa;
che la previsione normativa della
necessaria valutazione del dirigente dell’ufficio sarebbe diretta ad evitare
ingiustificate sottrazioni, da parte dei giudici, dalla trattazione di cause
loro assegnate;
che, pertanto, da un lato, andrebbe
escluso che il presidente del tribunale in relazione ad un motivo di astensione
obbligatoria possa decidere discrezionalmente se sostituire o meno il giudice
astenutosi, dall’altro, non potrebbe essergli legittimamente sottratto il
sindacato circa la sussistenza dei presupposti invocati nella dichiarazione di
astensione, proprio per scongiurare il pericolo di dichiarazioni non fondate e
pretestuose;
che, osserva ancora l’Avvocatura dello
Stato, anche il Consiglio superiore della magistratura ha precisato, in
relazione alla dichiarazione di astensione proposta nel corso di procedimenti
civili, che il presidente del tribunale ha il potere-dovere di verificare la
sussistenza del denunciato motivo di astensione e che sullo stesso dirigente
incombe ogni responsabilità in merito ad abusi eventualmente compiuti con le
sue valutazioni;
che, richiamando l’orientamento della
Corte di cassazione che riconosce natura amministrativa e non giurisdizionale
al decreto presidenziale che decide sulla dichiarazione di astensione nel
procedimento penale, l’Avvocatura dello Stato rileva che, in una decisione
sulla legittimità costituzionale dell’art. 51 del codice di procedura civile,
la Corte costituzionale ha escluso la natura giurisdizionale del procedimento a quo, dichiarando non ammissibile il
giudizio di legittimità costituzionale (ordinanza n. 35 del
1988);
che la motivazione dell’ordinanza di rimessione,
inoltre, farebbe trasparire il dubbio che il rimettente cerchi di utilizzare in
modo improprio e distorto l’incidente di costituzionalità al fine di ottenere
un inammissibile avallo interpretativo «finalizzato alla regolamentazione dei
propri rapporti con il Capo dell’ufficio»;
che, con gli altri due profili di
incostituzionalità erroneamente prospettati con riferimento all’art. 36, comma
2, cod. proc. pen., il rimettente sembrerebbe chiedere alla Corte
costituzionale un intervento additivo di ulteriori ipotesi di astensione
obbligatoria del giudice: nella sostanza, la questione sembrerebbe «diretta
all’affermazione di una ulteriore causa di incompatibilità alla funzione di
Giudice, il quale, dopo avere disposto il rinvio a giudizio di alcuni imputati,
sia chiamato nello stesso procedimento a decidere con le forme del rito
abbreviato nei confronti dei coimputati o degli altri imputati per il medesimo
reato associativo e/o plurisoggettivo»;
che, secondo l’Avvocatura dello Stato,
le questioni sarebbero inammissibili o comunque infondate, alla luce, in primo
luogo, della impropria sovrapposizione compiuta dal rimettente dei due istituti
dell’astensione e dell’incompatibilità, che, secondo la costante giurisprudenza
della Corte costituzionale, pur preordinati alla garanzia dell’imparzialità del
giudice, opererebbero su piani diversi: la prima a posteriori, in concreto e caso per caso; la seconda in astratto e
in via preventiva;
che, in secondo luogo, sarebbe decisivo
il rilievo che l’incompatibilità richiede il compimento delle precedenti
valutazioni, anche di merito, in fasi diverse dello stesso procedimento e non
nella stessa fase: nel caso di specie, invece, il giudice dell’udienza
preliminare esaminerebbe nella stessa fase il materiale probatorio a carico di
tutti gli imputati, disponendo il rinvio a giudizio per alcuni e decidendo nel
merito per chi ha chiesto di procedere con rito abbreviato;
che la questione sarebbe, pertanto,
inammissibile, in quanto l’ipotizzata violazione del principio di imparzialità
non sembrerebbe rientrare nella sfera di applicazione dell’art. 34 cod. proc.
pen.;
che, osserva ancora l’Avvocatura dello
Stato, anche considerando il rito abbreviato chiesto da alcuni imputati come un
procedimento separato e diverso dall’udienza preliminare svolta nei confronti
dei coimputati, non vi sarebbe motivo di discostarsi dal costante indirizzo
della giurisprudenza costituzionale secondo cui la sfera di applicazione
dell’istituto dell’incompatibilità si riferisce a situazioni di pregiudizio per
l’imparzialità del giudice che si verificano all’interno del medesimo
procedimento, mentre, se il pregiudizio per l’imparzialità del giudice deriva
da attività compiute in un procedimento diverso, il principio del giusto
processo trova attuazione mediante i più duttili strumenti dell’astensione e
della ricusazione, anch’essi preordinati alla salvaguardia delle esigenze di
imparzialità della funzione giudicante, ma secondo una logica a posteriori e in concreto, senza oneri
preventivi di organizzazione delle attività processuali;
che è intervenuto nel giudizio di
legittimità costituzionale l’imputato nel giudizio principale D.G.T.,
chiedendo l’accoglimento delle questioni
sollevate dall’ordinanza di rimessione;
che, richiamato l’orientamento della
giurisprudenza costituzionale secondo cui la declaratoria di illegittimità
costituzionale presuppone l’impossibilità di dare della legge interpretazioni
conformi alla Costituzione, la difesa dell’imputato sottolinea che nel giudizio
principale tutti i meccanismi processuali sarebbero stati posti in essere allo
scopo di evitare il dubbio di costituzionalità, ma ciò non sarebbe stato
sufficiente a garantire il "giusto processo”, sicché sarebbe necessaria la
declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 36, comma 1, lettera g), e comma 3 cod. proc. pen. in
combinato disposto con l’art. 34 cod. proc. pen.;
che la difesa dell’imputato richiama
quindi le numerose declaratorie di illegittimità costituzionale dell’art. 34
cod. proc. pen. e l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo
cui le decisioni assunte nell’udienza preliminare devono essere annoverate tra
i "giudizi” idonei a pregiudicarne altri e tra quelli pregiudicati da altri
anteriori (sentenza
n. 335 del 2002), nonché gli indirizzi della Corte europea dei diritti
dell’uomo sull’art. 6 della CEDU;
che la giurisprudenza costituzionale
avrebbe precisato, per un verso e in termini generali, le situazioni che
rendono costituzionalmente necessaria la previsione dell’incompatibilità del
giudice (sentenza
n. 131 del 1996) e, per altro verso, l’effetto pregiudicante dell’attività
giurisdizionale svolta dal giudice nell’udienza preliminare;
che l’adesione alle conclusioni fatte
proprie dall’ordinanza di rimessione troverebbe fondamento nell’irragionevole
disuguaglianza derivante dall’attuale assetto normativo, in forza del quale le
parti, che denuncino l’incompatibilità del giudice, possono subire un diverso
trattamento, posto che ad esse è dato solo di attivare procedimenti incidentali
dall’esito discrezionale;
che sarebbe inoltre irragionevole
l’impossibilità, per il giudice che abbia disposto il rinvio a giudizio e che
ricopra anche la funzione di giudice del giudizio abbreviato, di emettere, nei
confronti del coimputato del delitto plurisoggettivo, una pronuncia assolutoria
per insussistenza del fatto;
che, in prossimità dell’udienza di
discussione, la difesa dell’imputato nel giudizio principale ha depositato una
memoria, contestando l’eccezione di inammissibilità proposta dall’Avvocatura
dello Stato, secondo la quale la questione sollevata non sarebbe aderente alle
problematiche sottese all’incidente di legittimità costituzionale e il
rimettente avrebbe omesso di considerare che la censura proposta sarebbe una
conseguenza necessaria di una realtà processuale impossibile da gestire secondo
l’attuale assetto del codice di procedura penale;
che la questione di legittimità
costituzionale avrebbe quale premessa necessaria la soggezione delle cause di
astensione al principio di tassatività, sicché, riguardando il controllo di
legittimità costituzionale il tema dell’incompatibilità di cui all’art. 34,
comma 2, cod. proc. pen., l’accoglimento della questione comporterebbe
l’inserimento nel codice di procedura penale della previsione
dell’incompatibilità del giudice dell’udienza preliminare che abbia rinviato a
giudizio alcuni imputati, trovandosi poi a dover emettere la sentenza di primo
grado nei confronti degli altri imputati, iscritti nel medesimo procedimento,
che abbiano chiesto il giudizio abbreviato;
che soltanto annoverando tale condizione
del giudice tra le cause di astensione il presidente della corte o del
tribunale sarebbe obbligato a pronunciarsi con decreto favorevole;
che la premessa sarebbe ancorata alla
configurabilità del decreto che dispone il giudizio come provvedimento
giudiziario che, al pari di una sentenza, rende il giudice che lo ha emesso
incompatibile a giudicare i coimputati nelle forme del giudizio abbreviato;
che, con riferimento alla più favorevole
formula assolutoria "perché il fatto non sussiste”, la difesa dell’imputato nel
giudizio principale osserva inoltre che, qualora il giudice dell’udienza
preliminare abbia ritenuto probabile l’esistenza dell’associazione mafiosa e
dei delitti-fine al punto di considerare possibile sostenere l’accusa in
giudizio, nel momento valutativo immediatamente successivo – la celebrazione
del giudizio abbreviato nei confronti degli altri coimputati – lo stesso
giudice non potrebbe rinnegare la fondatezza dell’accusa quanto alla
sussistenza del fatto;
che la pronuncia della sentenza da parte
dello stesso giudice dell’udienza preliminare porterebbe all’eliminazione
anticipata della formula assolutoria più favorevole, facendo soffrire
all’imputato un’inspiegabile diseguaglianza in violazione dell’art. 3 Cost.;
che anche l’Avvocatura Generale dello
Stato ha depositato, in prossimità dell’udienza di discussione, una memoria
illustrativa, insistendo nelle conclusioni di cui all’atto di intervento;
che, sottolineati alcuni profili della
normativa del codice di procedura penale sul giudice, l’Avvocatura dello Stato
richiama l’orientamento della giurisprudenza costituzionale che ha esteso la
previsione dell’incompatibilità del giudice che precedentemente abbia avuto
modo di delibare la responsabilità dell’indagato/imputato alle «funzioni di
giudice del dibattimento e di g.i.p./g.u.p.» chiamati a decidere sull’imputazione;
che, osserva ancora l’Avvocatura dello
Stato, tra la condizione, presunta pregiudicante, di avere emesso il decreto
che dispone il giudizio nei confronti di alcuni coimputati e quella, presunta
pregiudicata, di dover decidere il processo nei confronti di altri coimputati
allo stato degli atti, non vi potrebbe essere alcuna situazione di
incompatibilità;
che, infatti, nonostante l’ampliamento
dei poteri di iniziativa probatoria del giudice dell’udienza preliminare, la sua
giurisdizione resterebbe prevalentemente una giurisdizione di garanzia, di
controllo della fondatezza del materiale raccolto dal pubblico ministero
durante le indagini preliminari: la funzione dell’udienza preliminare sarebbe
sostanzialmente di filtro, al fine di evitare che vengano portati a giudizio
processi inutili e di bloccare richieste di rinvio a giudizio azzardate;
che, perciò, le decisioni adottabili dal
giudice dell’udienza preliminare difficilmente potrebbero considerarsi idonee a
determinare un pregiudizio in ordine al merito dell’imputazione in capo allo
stesso giudice, come confermerebbe la revocabilità della sentenza di non luogo
a procedere;
che non sarebbe rilevante la
considerazione secondo cui, emesso il decreto che dispone il giudizio e dovendo
il medesimo giudice decidere all’esito del giudizio abbreviato, si
priverebbero, nel rito speciale, gli imputati della formula assolutoria "perché
il fatto non sussiste”;
che astrattamente questa privazione non
sussisterebbe in quanto l’esito del giudizio abbreviato dipenderebbe dalla
reale consistenza del materiale raccolto nella fase delle indagini preliminari,
mentre la formula terminativa dipenderebbe, in concreto, dalla valutazione
probatoria compiuta dal giudice, una valutazione diversa e molto più
approfondita del sommario «filtro delle imputazioni azzardate» attivato
all’udienza preliminare;
che, osserva ancora l’Avvocatura dello
Stato, l’art. 36, comma 3, cod. proc. pen. non potrebbe considerarsi
incostituzionale, in quanto il controllo da parte del capo dell’ufficio sulle
ragioni dell’astensione sarebbe necessario alla luce della natura eccezionale
dell’astensione rispetto alla regola che prevede il dovere di giudicare, sicché
il potere di controllo del presidente del tribunale si manifesterebbe in un
atto amministrativo autoritativo sottratto ad ogni mezzo di impugnazione,
trattandosi di provvedimento meramente ordinatorio con effetti limitati
nell’ambito dell’ufficio;
che, infine, l’Avvocatura dello Stato
richiama l’ordinanza
n. 123 del 1999 della Corte costituzionale e osserva che dell’eventuale
ingiustizia del trattamento subìto con il decreto presidenziale non ci si
potrebbe dolere in sede di giudizio incidentale di costituzionalità.
Considerato che il Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale di Palermo ha sollevato: a) in riferimento agli articoli 3, 24, 25,
101 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 36, comma 1, lettera g),
del codice di procedura penale, «nella lettura in combinato disposto con
l’articolo 34» dello stesso codice, «nella parte in cui prevede che, nel caso
in cui vi sia "incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel
procedimento”, il giudice debba formalizzare richiesta di astensione in luogo
dell’attivazione di automatismi di tipo tabellare preordinati dall’ufficio»; b)
in riferimento agli articoli 3, 24, 25, 101 e 111 Cost., questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 36, comma 3, cod. proc. pen., «nella
lettura in combinato disposto con l’articolo 34» dello stesso codice, «nella
parte in cui prevede che, nel caso in cui vi sia "incompatibilità del giudice
determinata da atti compiuti nel procedimento”, il Presidente del Tribunale
possa "decidere” discrezionalmente sull’astensione imponendo al giudice del
rito abbreviato la prosecuzione del giudizio nel caso in cui lo stesso abbia
definito l’udienza preliminare con il rinvio a giudizio di co-imputati per un
reato associativo e/o plurisoggettivo»; c) in riferimento agli articoli 3, 24,
25 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’articolo 36 [recte 34], comma
2, cod. proc. pen., «nella lettura in combinato disposto con l’articolo 34» [recte 36] dello
stesso codice, «nella parte in cui le parole "Non può partecipare al giudizio
il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare”
siano interpretate nel senso di attribuire al giudice – che ha deciso l’udienza
preliminare con il rinvio a giudizio di imputati per un reato associativo e/o
plurisoggettivo – la possibilità di
decidere anche il giudizio abbreviato nei confronti degli altri imputati per la
stessa rubrica, essendo questi ultimi privati della possibile formula
assolutoria "perché il fatto non sussiste”»; d) in riferimento agli articoli 3,
24, 25 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’articolo 36 [recte 34], comma
2, cod. proc. pen., «nella lettura in combinato disposto con l’articolo 34» [recte 36] dello
stesso codice, «nella parte in cui le parole ”Non può partecipare al giudizio
il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare”
siano interpretate nel senso di permettere, comunque, la partecipazione al
giudizio abbreviato da parte dello stesso giudice dell’udienza preliminare, che
aveva già prima deciso, con il rinvio a giudizio e nei confronti di altri
co-imputati, il processo relativo alla imputazione per reato associativo,
plurisoggettivo e/o a partecipazione necessaria»;
che nell’enunciare la terza e la quarta
questione l’ordinanza di rimessione ha fatto riferimento per errore all’art.
36, comma 2, cod. proc. pen., anziché all’art. 34, comma 2, cod. proc. pen.
(nonché, subito dopo, all’art. 34 anziché all’art. 36 cod. proc. pen.): infatti
l’art. 36, comma 2, disciplina fattispecie del tutto estranee alle questioni in
esame, mentre il periodo testualmente riportato dal rimettente è contenuto nel
comma 2 dell’art. 34 cod. proc. pen., sicché, anche alla luce della motivazione
dell’ordinanza, tali questioni devono intendersi riferite al «combinato
disposto» degli artt. 34, comma 2, e 36 cod. proc. pen.;
che il giudice rimettente, dopo essere
stato investito della richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di trenta
persone, imputate del delitto di associazione di tipo mafioso, del delitto di
cui all’art. 74 del decreto del
Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di
disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) e di altri delitti (la
maggior parte dei quali in concorso tra varie persone), ha disposto il rinvio a
giudizio di diciannove imputati e ha separato i procedimenti relativi agli
altri undici coimputati che avevano chiesto il giudizio abbreviato;
che rispetto a questi procedimenti il
giudice rimettente aveva presentato dichiarazione di astensione, a norma
dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. e anche per gravi ragioni di convenienza
a norma dell’art. 36, comma 1, lettera h), cod. proc. pen., e il Presidente del
Tribunale di Palermo, richiamando la sentenza della Corte di cassazione,
seconda sezione penale, 12 febbraio 2009, n. 8613, non aveva accolto tale
dichiarazione;
che in seguito a ciò il giudice
rimettente ha sollevato, in relazione alla normativa sull’astensione, le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 36 cod. proc. pen., riportate
sotto le lettere a) e b), sul presupposto che l’art. 34, comma 2, cod. proc.
pen., con le parole «Non può partecipare al giudizio il giudice che ha emesso
il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare», preveda
«esplicitamente», rispetto al giudizio abbreviato, l’incompatibilità del
giudice che, all’esito dell’udienza preliminare, ha disposto il rinvio a giudizio
dei coimputati;
che, per l’eventualità in cui si ritenga
invece che questo caso di incompatibilità non sia già previsto, il giudice
rimettente ha sollevato le altre due questioni riportate sotto le lettere c) e
d);
che l’Avvocatura dello Stato ha eccepito
l’inammissibilità di tutte le questioni, in quanto sarebbero state sollevate in
un procedimento non giurisdizionale, come sarebbe confermato dall’orientamento
giurisprudenziale che attribuisce natura amministrativa al provvedimento del
dirigente dell’ufficio giudiziario che decide sulla dichiarazione di astensione
del giudice penale;
che l’eccezione non è fondata;
che, infatti, poiché le questioni sono
state sollevate nel corso del giudizio penale dallo stesso giudice che procede,
la natura giuridica del provvedimento del dirigente dell’ufficio che decide
sulla dichiarazione di astensione, quale che essa sia, non assume alcun
rilievo;
che la prima e la seconda delle
questioni di legittimità costituzionale sollevate con l’ordinanza di rimessione
devono essere dichiarate manifestamente inammissibili per un’altra ragione;
che tali questioni investono profili
procedimentali della disciplina dell’astensione e sono volte a dedurre la
lesione dei princìpi costituzionali, evocati dal rimettente, che deriverebbe
dal carattere non vincolato, ossia non legato ad «automatismi» o a
provvedimenti non discrezionali del dirigente dell’ufficio, della sostituzione
del giudice che versi in una situazione di incompatibilità;
che la rilevanza della questione è
legata al presupposto interpretativo dal quale muove il rimettente, secondo cui
il legislatore avrebbe stabilito «ciò
che dalla norma è esplicitamente previsto», ossia che «il giudice che ha deciso
l’esito del processo (processo nella sua globalità) preliminare (e senza alcuna
distinzione di imputati e di imputazioni) non possa essere lo stesso che poi
darà la sua decisione finale nel merito delle accuse (senza alcuna distinzione
correlata alla tipologia di esito e, quindi, sia che essa decisione sia assunta
attraverso un rito abbreviato o attraverso un vaglio di tipo dibattimentale)»;
che tale presupposto è erroneo;
che, fuori dalla specifica ipotesi
introdotta dalla sentenza
di questa Corte n. 371 del 1996 (la cui esistenza non è stata dedotta dal
giudice rimettente e non risulta dalla motivazione dell’ordinanza di
rimessione), l’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., come in genere l’istituto
dell’incompatibilità, si riferisce a situazioni di pregiudizio per
l’imparzialità del giudice che si verificano all’interno del medesimo
procedimento (sentenze n. 283 e n. 113 del 2000
e ordinanza n.
490 del 2002) e concernono perciò la medesima regiudicanda
(sentenza n. 186
del 1992), sicché esso non comprende l’ipotesi del giudice che, dopo aver
disposto il rinvio a giudizio di alcuni imputati, procede con il rito
abbreviato nei confronti dei coimputati del medesimo reato;
che in questa ipotesi infatti ci si
trova in presenza di diversi procedimenti, destinati, dopo la separazione,
alcuni alla successiva definizione dibattimentale e altri alla trattazione
nelle forme del giudizio abbreviato;
che rispetto a questi ultimi, perciò,
non si determina una situazione di incompatibilità;
che l’erroneità del presupposto
interpretativo al quale è correlata, nell’ordinanza di rimessione, la rilevanza
delle prime due questioni comporta la manifesta inammissibilità delle stesse;
che le altre due questioni di
legittimità costituzionale sollevate dal rimettente sono invece manifestamente
infondate;
che, con ciascuna di tali questioni, il
giudice a quo assume che nella
disciplina dei casi di incompatibilità regolati dall’art. 34, comma 2, cod.
proc. pen. vi sarebbe una lacuna da
colmare attraverso una pronuncia additiva di questa Corte, perché non è
previsto il caso in cui il giudice che ha disposto il rinvio a giudizio di
alcuni imputati è chiamato a procedere con il rito abbreviato nei confronti dei
coimputati concorrenti negli stessi reati;
che il vulnus denunciato dal rimettente non sussiste perché, secondo il
consolidato orientamento di questa Corte, nel caso di concorso di persone nel
reato, «alla comunanza dell’imputazione fa riscontro una pluralità di condotte
distintamente ascrivibili a ciascuno dei concorrenti, tali da formare oggetto
di autonome valutazioni, scindibili l’una dall’altra, salve le ipotesi estreme,
prese in esame dalle sentenze n. 371 del 1996
e n. 241 del
1999 e precisate da successive decisioni (v., in particolare, la sentenza n. 113 del
2000), che giustificano l’operatività dell’istituto dell’incompatibilità
anche quando le funzioni pregiudicante e pregiudicata si collocano in
procedimenti diversi» (ordinanza n. 367
del 2002, che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 34 cod. proc. pen., nella parte in cui non
prevede l’incompatibilità a celebrare l’udienza preliminare del giudice che
abbia già valutato la posizione degli imputati in altro processo definito con
sentenza a seguito di giudizio abbreviato "nei confronti di coimputati
concorrenti necessari” nel medesimo reato);
che «pur non potendo escludersi che, per
il peculiare atteggiarsi delle singole fattispecie, l’attività che il giudice
abbia compiuto in un precedente procedimento possa determinare un pregiudizio
alla sua imparzialità nel successivo procedimento a carico di altro o di altri
concorrenti, in simili casi – al di là delle ipotesi particolari che hanno dato
luogo alle sentenze n. 371 del 1996
e n. 241 del
1999 – soccorre sia l’art. 36, comma 1, lettera h), cod. proc. pen., nell’interpretazione non restrittiva alla
quale vincola il principio del giusto processo (sentenza n. 113 del
2000), sia l’art. 37 cod. proc. pen., come risultante dalla sentenza n. 283 del
2000 di questa Corte, attribuendosi in tal modo ai più duttili strumenti
dell’astensione e della ricusazione il compito di realizzare il principio del
giusto processo attraverso valutazioni caso per caso e senza oneri preventivi
di organizzazione delle attività processuali» (ordinanza n. 441
del 2001, in una fattispecie analoga a quella del giudizio a quo), sicché, in ogni ipotesi, «lo
strumento di tutela contro l’eventuale pregiudizio all’imparzialità del giudice
– pregiudizio da accertarsi in concreto –, derivante da una sua precedente
attività compiuta in un separato procedimento nei confronti di coimputati del medesimo
fatto-reato, non può essere ravvisato in ulteriori pronunce sull’art. 34, comma
2, cod. proc. pen., ma deve essere ricercato nell’ambito degli istituti
dell’astensione e della ricusazione» (ordinanza n. 441
del 2001);
che, pertanto, «tenuto conto della
diversa sfera di operatività degli istituti dell’incompatibilità e
dell’astensione-ricusazione, egualmente preordinati alla piena tutela del
principio del giusto processo» (ordinanza n. 367
del 2002), la terza e la quarta questione sono manifestamente infondate.
Per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara
la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale
dell’articolo 36, comma 1, lettera g),
del codice di procedura penale, in combinato disposto con l’articolo 34 dello
stesso codice, e dell’articolo 36, comma 3, del codice di procedura penale, in
combinato disposto con l’articolo 34 dello stesso codice, sollevate, in
riferimento agli articoli 3, 24, 25, 101 e 111 della Costituzione, dal Giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo con l’ordinanza indicata in
epigrafe;
2) dichiara
la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale
dell’articolo 34, comma 2, del codice di procedura penale, in combinato
disposto con l’articolo 36 dello stesso codice, sollevate, in riferimento agli
articoli 3, 24, 25 e 111 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare
del Tribunale di Palermo con la medesima ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 maggio
2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2013.