ONLINE
SENTENZA N. 127
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Alfio FINOCCHIARO "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 7, lettera c), 44 e 46 della legge della Regione Umbria 13 maggio 2009, n. 11 (Norme per la gestione integrata dei rifiuti e la bonifica delle aree inquinate), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 10-15 luglio 2009, depositato in cancelleria il 20 luglio 2009 ed iscritto al n. 49 del registro ricorsi 2009.
Udito nell’udienza pubblica del 24 febbraio 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;
udito l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto1. – Con ricorso, notificato alla Regione Umbria il 10-15 luglio 2009, e depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale il 20 luglio 2009 (reg. ric. n. 49 del 2009), il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto a questa Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 7, lettera c), 44 e 46 della legge della Regione Umbria 13 maggio 2009, n. 11 (Norme per la gestione integrata dei rifiuti e la bonifica delle aree inquinate), per violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), Cost.
Secondo il ricorrente la suddetta legge regionale, nel disciplinare la bonifica delle aree inquinate e la gestione integrata dei rifiuti, presenterebbe vari aspetti di contrasto con la normativa nazionale e comunitaria relativa alla disciplina dei rifiuti e alla valutazione dell’impatto ambientale.
1.1. – In particolare, l’art. 7, lettera c), delle citata legge regionale n. 11 del 2009 prevede che il Comune abbia il compito di rilasciare, rinnovare e modificare l’autorizzazione alla gestione dei centri di raccolta.
La disciplina nazionale di settore, costituita dal decreto ministeriale 8 aprile 2008 (Disciplina dei centri di raccolta dei rifiuti urbani raccolti in modo differenziato, come previsto dall’articolo 183, comma 1, lettera cc, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modifiche), prevede che il soggetto che gestisce il centro di raccolta debba soltanto essere iscritto all’Albo nazionale dei gestori ambientali e che la sola realizzazione dei citati centri, e non anche la gestione di essi, sia approvata dal Comune territorialmente competente ai sensi della normativa vigente (art. 2, commi 1 e 4). Pertanto subordinare la gestione di tali centri al preventivo rilascio dell’autorizzazione da parte del Comune, così come disposto nella legge regionale in esame, si porrebbe in contrasto con la citata normativa nazionale, espressione della competenza statale in materia di tutela dell’ambiente di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
1.2. – La norma contenuta nell’art. 44 della stessa legge regionale esclude poi dal proprio campo di applicazione, tra l’altro, «i sedimenti derivanti da attività connesse alla gestione dei corpi idrici superficiali, alla prevenzione di inondazioni, alla riduzione degli effetti di inondazioni o siccità, al ripristino dei suoli, qualora sia stato accertato che i materiali non risultino contaminati in misura superiore ai limiti stabiliti dalle norme vigenti».
Con tale previsione la Regione opererebbe una illegittima esclusione dalla nozione di “rifiuto” di materiali che rientrano nel campo di applicazione della vigente normativa comunitaria e nazionale di riferimento.
Infatti, la definizione comunitaria, recata dall’art. 1 della direttiva 5 aprile 2006, n. 2006/12/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti), recepita nell’ordinamento nazionale dall’articolo 183, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), stabilisce che è rifiuto qualsiasi sostanza o oggetto di cui il detentore si disfi o abbia intenzione o l’obbligo di disfarsi. Sulla base dei principi del diritto comunitario e della consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia UE, non è allora possibile adottare esclusioni generalizzate o presunzioni assolute di esclusione dal campo di applicazione della normativa in materia di rifiuti, ma è necessario effettuare una valutazione, caso per caso, al fine di verificare se l’intenzione del detentore sia quella di disfarsi del bene o della sostanza stessi. Tale principio non può essere derogato dalla Regione, dato il vincolo del rispetto del diritto comunitario derivante dall’art. 117, primo comma, Cost., e, inoltre, secondo la giurisprudenza costituzionale, sono illegittime norme regionali che escludano da detta categoria taluni materiali.
Ne consegue che la norma in esame, oltre che essere in contrasto con quanto disposto dagli articoli 183, comma 1, lettera a) e 185 del d.lgs. n. 152 del 2006, può esporre l’Italia ad una procedura d’infrazione per indebita restrizione del campo di applicazione della direttiva sui rifiuti.
1.3. – L’art. 46 della legge regionale in oggetto esclude dalla verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale (d’ora in avanti, VIA), di cui all’art. 20 del d.lgs. n. 152 del 2006, i progetti relativi agli impianti mobili per il recupero di rifiuti non pericolosi mediante operazioni di cui all’allegato C, lettera R5, della parte IV del d.lgs. n. 152, anche se rientranti nella tipologia di cui al punto 7, lettera zb), dell’allegato IV alla parte II del citato decreto legislativo, qualora trattino quantitativi medi giornalieri inferiori a duecento tonnellate e il tempo di permanenza degli stessi impianti sul sito predeterminato per lo svolgimento della campagna di attività non sia superiore a sessanta giorni.
Tale deroga risulterebbe in palese contrasto con la normativa statale da ultimo richiamata, che prevede la verifica di assoggettabilità per gli impianti di smaltimento di rifiuti non pericolosi, con capacità superiore a 10 t/giorno, mediante operazioni di cui all’allegato C, lettere da R1 a R9, della parte IV, senza specificare se si tratti di impianti mobili o meno. Peraltro, la Commissione europea, circa l’applicazione della direttiva 27 giugno 1985, n. 85/337/CEE (Direttiva del Consiglio concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati) relativamente agli impianti mobili di trattamento rifiuti, ha ribadito, con nota del 17 novembre 2004, prot. Env.D.3/LT/cro D(2004) 532306, che «il carattere mobile e temporaneo di tali impianti non costituisce di per sé motivo di esclusione dalle liste dei progetti elencati negli allegati della direttiva o di considerazione particolare ai fini della qualificazione di un progetto ai sensi della stessa. Pertanto, posto che essi abbiano le caratteristiche per essere considerati come progetti di cui agli allegati I e II, gli impianti mobili di trattamento rifiuti sono assoggettati alle prescrizioni e alle procedure previste dalla direttiva».
Ne conseguirebbe l’illegittimità della normativa regionale in oggetto, per contrasto con la normativa nazionale e comunitaria riguardante i rifiuti e la valutazione di impatto ambientale, con violazione dell’art. 117, commi primo e secondo, lett. s), Cost.
Non ha svolto attività difensiva in questa sede la Regione Umbria.
Considerato in diritto1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita della legittimità costituzionale dell’art. 7, lettera c) della legge della Regione Umbria 13 maggio 2009, n. 11 (Norme per la gestione integrata dei rifiuti e la bonifica delle aree inquinate), nella parte in cui prevede che il Comune abbia il compito di rilasciare, rinnovare e modificare l’autorizzazione alla gestione dei centri di raccolta, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in quanto porrebbe una disciplina contrastante con quella nazionale di settore, costituita dall’art. 2, commi 1 e 4, del decreto ministeriale 8 aprile 2008 (Disciplina dei centri di raccolta dei rifiuti urbani raccolti in modo differenziato, come previsto dall’articolo 183, comma 1, lettera cc, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modifiche), secondo cui il soggetto che gestisce il centro di raccolta deve solamente essere iscritto all’Albo nazionale dei gestori ambientali e la realizzazione dei citati centri, e non anche la gestione di essi, deve essere approvata dal Comune territorialmente competente ai sensi della normativa vigente.
1.1. – La questione è fondata.
1.2. – L’art. 7 della legge regionale n. 11 del 2009, enumera le funzioni amministrative dei Comuni nella materia della gestione dei rifiuti urbani. Alla lettera c), oltre alla approvazione della realizzazione dei centri di raccolta o al loro adeguamento alle norme vigenti, sono previsti «rilascio, rinnovo e modifica dell’autorizzazione alla gestione degli stessi». Aggiunge che i centri di raccolta non sono soggetti alle disposizioni di cui all’articolo 208 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), che prevede l’autorizzazione unica regionale per gli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti.
La disciplina nazionale è costituita in primo luogo dall’art. 183, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, che, illustrando le definizioni impiegate dalla suddetta norma, alla lettera cc, dopo aver precisato che per “centro di raccolta” s’intende l’«area presidiata ed allestita, senza ulteriori oneri a carico della finanza pubblica, per l’attività di raccolta mediante raggruppamento differenziato dei rifiuti per frazioni omogenee conferiti dai detentori per il trasporto agli impianti di recupero e trattamento», aggiunge che «la disciplina dei centri di raccolta è data con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza unificata Stato-Regioni, città e autonomie locali, di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281». Questa disciplina è stata dettata dal d.m. 8 aprile 2008, che all’art. 1 contiene ulteriore definizione dei centri di raccolta, e all’art. 2 pone la disciplina amministrativa degli stessi.
La materia dei rifiuti attiene alla potestà legislativa esclusiva statale in materia di tutela ambientale (sentenze n. 10 e 314 del 2009, n. 62 del 2008), e, in tale materia, è consentito allo Stato emanare regolamenti, per esigenze di uniformità (sentenze n. 233 del 2009 e 411 del 2007).
L’art. 1 del d.m. 8 aprile 2008 definisce i centri di raccolta comunali e intercomunali, come «aree presidiate ed allestite ove si svolge unicamente attività di raccolta, mediante raggruppamento per frazioni omogenee per il trasporto agli impianti di recupero, trattamento e, per le frazioni non recuperabili, di smaltimento, dei rifiuti urbani e assimilati (…) conferiti in maniera differenziata rispettivamente dalle utenze domestiche e non domestiche, nonché dagli altri soggetti tenuti in base alle vigenti normative settoriali al ritiro di specifiche tipologie di rifiuti dalle utenze domestiche».
Nessuna autorizzazione è prevista dalla normativa statale per la gestione dei centri raccolta dei rifiuti urbani: l’art. 2 d.m. 8 aprile 2008, già intitolato «Autorizzazioni e iscrizioni» – e nel quale il termine “autorizzazioni” è stato sostituito con il termine “approvazioni” dal decreto ministeriale 13 maggio 2009 (Modifica del decreto 8 aprile 2008, recante la disciplina dei centri di raccolta dei rifiuti urbani raccolti in modo differenziato, come previsto dall’articolo 183, comma 1, lettera cc, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modifiche) – dispone che «la realizzazione dei centri di raccolta di cui all’art. 1 è approvata dal Comune territorialmente competente ai sensi della normativa vigente» (comma 1), e che «il soggetto che gestisce il centro di raccolta è iscritto all’Albo nazionale gestori ambientali di cui all’art. 212 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modifiche» (comma 4).
Occorre ricordare che in assenza di una disciplina chiara, per la semplice raccolta dei rifiuti urbani (in aree dette “ecopiazzole”), che tenesse conto delle peculiari differenze rispetto alle più complesse operazioni di smaltimento e di recupero, si discuteva in passato se fosse richiesta o meno un’autorizzazione.
L’auspicato chiarimento aveva luogo con la riformulazione dell’art. 183 del d.lgs. n. 152 del 2006, per effetto dell’art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale), e, a soli due mesi di distanza, con il citato d.m. 8 aprile 2008 del Ministro dell’ambiente. Dal complesso di queste norme deriva che riguardo all’attività di raccolta di rifiuti, finalmente distinta dallo smaltimento e dal recupero, solo la realizzazione dei centri di raccolta è “approvata” dal Comune, mentre non è necessaria l’autorizzazione per la gestione, richiedendosi solo l’iscrizione del gestore all’Albo nazionale dei gestori ambientali di cui all’art. 212 del d.lgs. n. 152 del 2006 (art. 2, comma 4, del citato decreto ministeriale).
L’approvazione comunale rappresenta un controllo di tipo urbanistico, che riguarda la realizzazione del centro di raccolta, come risulta chiarito dal nuovo testo dell’art. 2, comma 1, del d.m. 8 aprile 2008, come sostituito dal d.m. 13 maggio 2009: «la realizzazione o l’adeguamento dei centri di raccolta di cui all’articolo 1 è eseguito in conformità con la normativa vigente in materia urbanistica ed edilizia».
L’attribuzione al Comune dell’ulteriore competenza al rilascio, rinnovo e modifica dell’autorizzazione, come disposta dalla legge regionale impugnata (art. 7, lett. c), riguardando la gestione dei centri di raccolta, incide allora sulla disciplina dei rifiuti e si pone in contrasto con la normativa statale, che non la prevede.
È pur vero che la rubrica dell’art. 2 del d.m. 8 aprile 2008, intitolata «Autorizzazioni e iscrizioni», poteva ingenerare elementi di equivocità (il termine “autorizzazioni”, come detto, è stato sostituito con “approvazioni”). Il testo della norma, tuttavia, non contiene in alcuna parte il termine “autorizzazione”.
È vero anche che il comma 8 dell’art. 2 del decreto ministeriale, nel testo vigente all’epoca dell’emanazione della norma regionale censurata, consentiva ai centri di raccolta che, alla data di entrata in vigore del decreto, fossero autorizzati ai sensi degli articoli 208 o 210 del d.lgs. n. 152 del 2006, di continuare ad operare sulla base di tale autorizzazione sino alla scadenza della stessa: si trattava però dell’autorizzazione unica ambientale, di competenza regionale, che certo non avrebbe potuto legittimare l’imposizione dell’obbligo di un titolo ulteriore, di competenza comunale.
Il comma 7 dello stesso d.m. 8 aprile 2008, prima delle modifiche apportate dal d.m. 13 maggio 2009, consentiva che i centri di raccolta, i quali, alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, fossero operanti sulla base di disposizioni regionali o di enti locali, continuassero ad operare, conformandosi alle disposizioni tecniche entro il termine di sessanta giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana di una emananda delibera del Comitato nazionale dell’Albo dei gestori ambientali di cui al comma 5. La verifica in ordine all’esistenza, nella normativa regionale previgente in tema di gestione dei rifiuti – costituita dalla legge della Regione Umbria 31 luglio 2002, n. 14 (Norme per la gestione integrata dei rifiuti) – di una norma che subordinasse l’attività di gestione dei centri di raccolta ad autorizzazione comunale, è negativa, prevedendosi solo, fra i compiti della Provincia, il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio delle operazioni di smaltimento e di recupero dei rifiuti, anche pericolosi (poi disciplinata dall’art. 208 del d.lgs. n. 152 del 2006: lo stesso d.lgs. n. 152, all’art. 264, ha abrogato il d.lgs. n. 22 del 1997), in consonanza all’art. 19, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio).
Ancor prima, l’art. 5 della legge della Regione Umbria 24 agosto 1987, n. 44 (Piano regionale per la organizzazione dei servizi di smaltimento dei rifiuti, in attuazione del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915), prevedeva l’autorizzazione della Giunta regionale (non del Comune) alla installazione (non alla gestione) dei centri di raccolta, in conformità degli strumenti urbanistici.
In conclusione, nessun appiglio poteva trovare il legislatore regionale, nella disciplina statale sui centri di raccolta dei rifiuti urbani, per configurare un obbligo di autorizzazione alla gestione degli stessi.
Ai Comuni non compete, in aggiunta all’approvazione dei centri di raccolta dei rifiuti urbani riguardo alla realizzazione di essi, l’autorizzazione alla gestione (sull’illegittimità di norme regionali in tema di rifiuti, configuranti competenze in contrasto con la disciplina statale, sentenza n. 378 del 2007). Pertanto, subordinare la gestione di tali centri al preventivo rilascio di un’autorizzazione da parte del Comune, così come disposto dall’art. 7, comma 1, lettera c), legge regionale n. 11 del 2009, si pone in contrasto con la normativa nazionale rappresentata dal d.m. 8 aprile 2008, emesso in attuazione dell’art. 183, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 152 del 2006, che è espressione della competenza statale in materia di tutela dell’ambiente di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
La norma regionale va quindi dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui attribuisce ai Comuni la funzione di «rilascio, rinnovo e modifica dell’autorizzazione alla gestione» dei centri di raccolta.
2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita poi della legittimità costituzionale dell’art. 44 della stessa legge della Regione Umbria, nella parte in cui esclude dal proprio campo di applicazione, tra l’altro, i sedimenti derivanti da attività connesse alla gestione dei corpi idrici superficiali, alla prevenzione di inondazioni, alla riduzione degli effetti di inondazioni o siccità, al ripristino dei suoli, qualora sia stato accertato che i materiali non risultino contaminati in misura superiore ai limiti stabiliti dalle norme vigenti, per violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), Cost., perchè porrebbe una disciplina contrastante con la definizione comunitaria di rifiuto recata dall’art. 1, lettera a), della direttiva 5 aprile 2006, n. 2006/12/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti), recepito nell’ordinamento nazionale dall’articolo 183, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 152 del 2006, secondo cui è rifiuto qualsiasi sostanza o oggetto di cui il detentore si disfi o abbia intenzione o l’obbligo di disfarsi; e contrasterebbe inoltre con la disciplina nazionale di settore, costituita dagli artt. 183, comma 1, lettera a) e 185 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.
2.1. – La questione è fondata.
2.2. – La disposizione censurata attiene alla nozione stessa di “rifiuto”, riguardante la materia della tutela ambientale affidata alla competenza esclusiva dello Stato.
Non sono consentite esclusioni da parte del legislatore regionale di particolari sostanze o materiali in astratto ricompresi nella nozione di “rifiuto” stabilita dalla legislazione statale in attuazione della direttiva comunitaria (sentenze nn. 61 e 315 del 2009). La norma in oggetto, sottraendo alla nozione di rifiuto taluni residui che, invece, corrispondono alla definizione sancita dall’art. 1, lettera a), della direttiva 2006/12/CE, come «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi», si pone in contrasto con la direttiva medesima, che funge da norma interposta per la valutazione di conformità della normativa regionale all’ordinamento comunitario (sentenza n. 62 del 2008).
Fra le sostanze escluse dal campo di applicazione della direttiva (e della normativa statale rappresentata dal d.lgs. n. 152 del 2006), vi sono le «acque di scarico, esclusi i rifiuti allo stato liquido» (art. 2, par. 1, lettera b-iv, della direttiva; art. 185, comma 1, lettera b, n. 1, del d.lgs. n. 152 del 2006), ma fra questi non possono essere ricompresi i sedimenti, indicati dalla disposizione regionale, che costituiscono residui semi-solidi, derivanti dal trattamento delle acque. Neppure rileva che l’esclusione sia limitata dalla norma regionale a quei sedimenti che non siano contaminati oltre misura: tale connotato può considerarsi ai fini della qualificazione della sostanza come pericolosa, non anche per l’esclusione di questa dalla categoria dei rifiuti. Sotto tale profilo non è consentito al legislatore regionale introdurre limiti quantitativi non previsti nella regolamentazione statale unitaria, ai fini di sottrarre un oggetto a una determinata disciplina (così, in tema di adempimenti connessi alla disciplina dei rifiuti pericolosi, la sentenza n. 315 del 2009), specie ove si tratti di ambiti tecnici per l’attuazione di livelli di tutela uniforme (sentenza n. 249 del 2009).
Il dettato della disposizione censurata riproduce quasi letteralmente il testo dell’art. 2, par. 3, della direttiva 19 novembre 2008, n. 2008/98/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa ai rifiuti, che abroga precedenti direttive in materia). Questa non è stata ancora recepita da legge statale (termine di recepimento: 12 dicembre 2010). La norma comunitaria introduce una esclusione dall’ambito di applicazione della stessa direttiva, proprio relativamente ai «sedimenti spostati all’interno di acque superficiali ai fini della gestione delle acque e dei corsi d’acqua o della prevenzione di inondazioni o della riduzione degli effetti di inondazioni o siccità o ripristino dei suoli, se è provato che i sedimenti non sono pericolosi».
La circostanza non modifica i termini della questione, posto che la competenza per l’attuazione delle direttive comunitarie, nelle materie di legislazione esclusiva dello Stato, come la tutela dell’ambiente, in cui rientra la disciplina dei rifiuti, appartiene inequivocabilmente allo Stato (sentenza n. 233 del 2009), e non sono ammesse iniziative delle Regioni di regolamentare nel proprio ambito territoriale la materia, ispirandosi ad una direttiva non ancora recepita per i rifiuti.
L’art. 44 della legge regionale n. 11 del 2009, dunque, è illegittimo, nella parte in cui esclude dal campo di applicazione della legge stessa, «i sedimenti derivanti da attività connesse alla gestione dei corpi idrici superficiali, alla prevenzione di inondazioni, alla riduzione degli effetti di inondazioni o siccità, al ripristino dei suoli, qualora sia stato accertato che i materiali non risultino contaminati in misura superiore ai limiti stabiliti dalle norme vigenti».
3. – Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita, infine, della legittimità costituzionale dell’art. 46 della legge della Regione Umbria n. 11 del 2009, nella parte in cui esclude dalla verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale (VIA), di cui all’articolo 20 del d.lgs. n. 152 del 2006, i progetti relativi agli impianti mobili per il recupero di rifiuti non pericolosi mediante operazioni di cui all’allegato C, lettera R5, della parte IV, del d.lgs. n. 152, anche se rientranti nella tipologia di cui al punto 7, lettera zb), dell’allegato IV alla parte II del citato decreto, qualora trattino quantitativi medi giornalieri inferiori a duecento tonnellate e il tempo di permanenza degli stessi impianti sul sito predeterminato per lo svolgimento della campagna di attività non sia superiore a sessanta giorni, per violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), Cost., in quanto pone una disciplina contrastante con la normativa comunitaria di settore e con l’art. 20 del d.lgs. n. 152 del 2006, nonché con l’allegato IV alla parte II, punto 7, lettera zb) di tale decreto, secondo cui si fa luogo alla verifica di assoggettabilità per gli impianti di smaltimento di rifiuti non pericolosi, con capacità superiore a 10 t/giorno, mediante le operazioni di recupero di cui all’allegato C, lettere da R1 a R9, della parte IV, senza distinzione tra impianti mobili o meno.
3.1. – Anche tale questione è fondata.
3.2. – La necessità di esperire la procedura di VIA, è rimessa dalla normativa comunitaria, per i progetti per i quali si prevede un notevole impatto ambientale (direttiva 27 giugno 1985, n. 85/337/CEE, Direttiva del Consiglio concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati: art. 4, paragrafo 2), a valutazioni caso per caso o alla fissazione di soglie, pur nell’ambito del principio di inderogabilità, da parte del legislatore nazionale, dell’obbligo di VIA, la giurisprudenza comunitaria rimette alla normativa interna, per certe materie, l’individuazione delle soglie. Per effetto delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 4 del 2008, l’effettuazione della VIA è ora subordinata, anziché alla determinazione di soglie, allo svolgimento di un subprocedimento preventivo volto alla verifica dell’assoggettabilità dell’opera alla VIA medesima (art. 20 d.lgs. n. 152 del 2006).
Sicché, atteso il rinvio alla normativa nazionale, se non è dato ravvisare una violazione diretta della normativa comunitaria (la verifica delle regole di competenza interne, comunque, sarebbe preliminare al controllo del rispetto dei principi comunitari: sentenza n. 368 del 2008), per i progetti indicati dall’allegato IV al d.lgs. n. 152 del 2006, sottoposti alla verifica di assoggettabilità di competenza delle Regioni, non sembra che queste possano derogare all’obbligo di compiere la verifica, potendo solo limitarsi a stabilire le modalità con cui procedere alla valutazione preliminare alla VIA vera e propria.
L’obbligo di sottoporre il progetto alla procedura di VIA, o, nei casi previsti, alla preliminare verifica di assoggettabilità alla VIA, attiene al valore della tutela ambientale (sentenze n. 225 e n. 234 del 2009), che, nella disciplina statale, costituisce, anche in attuazione degli obblighi comunitari, livello di tutela uniforme e si impone sull’intero territorio nazionale. La disciplina statale uniforme non consente, per le ragioni sopra esaminate, di introdurre limiti quantitativi all’applicabilità della disciplina, anche se giustificati dalla ritenuta minor rilevanza dell’intervento configurato o dal carattere tecnico dello stesso (sentenze n. 315 e n. 249, sopra citate).
In conclusione, la norma regionale è illegittima, nella parte in cui esclude dalla verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale di cui all’articolo 20 del d.lgs. n. 152 del 2006 i progetti relativi agli impianti mobili per il recupero di rifiuti non pericolosi mediante operazioni di cui all’allegato C, lettera R5, della parte IV, del d.lgs. n. 152 del 2006, anche se rientranti, con riferimento alle capacità complessivamente trattate, nella «tipologia di cui al punto 7, lettera zb), dell’allegato IV alla parte II del d.lgs. 152/2006, qualora trattino quantitativi medi giornalieri inferiori a duecento tonnellate e il tempo di permanenza degli stessi impianti sul sito predeterminato per lo svolgimento della campagna di attività non sia superiore a sessanta giorni».
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera c), della legge della Regione Umbria 13 maggio 2009, n. 11 (Norme per la gestione integrata dei rifiuti e la bonifica delle aree inquinate), nella parte in cui attribuisce ai Comuni la funzione di rilascio, rinnovo e modifica dell’autorizzazione alla gestione dei centri di raccolta;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 44 della medesima legge della Regione Umbria n. 11 del 2009, nella parte in cui esclude dal campo di applicazione della legge stessa, «i sedimenti derivanti da attività connesse alla gestione dei corpi idrici superficiali, alla prevenzione di inondazioni, alla riduzione degli effetti di inondazioni o siccità, al ripristino dei suoli, qualora sia stato accertato che i materiali non risultino contaminati in misura superiore ai limiti stabiliti dalle norme vigenti»;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 46 della medesima legge della Regione Umbria n. 11 del 2009, nella parte in cui esclude dalla verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale di cui all’articolo 20 del d.lgs. n. 152 del 2006 i progetti relativi agli impianti mobili per il recupero di rifiuti non pericolosi mediante operazioni di cui all’allegato C, lettera R5, della parte IV del d.lgs. n. 152 del 2006, anche se rientranti, con riferimento alle capacità complessivamente trattate, nella «tipologia di cui al punto 7, lettera zb), dell’allegato IV alla parte II del d.lgs. 152/2006, qualora trattino quantitativi medi giornalieri inferiori a duecento tonnellate e il tempo di permanenza degli stessi impianti sul sito predeterminato per lo svolgimento della campagna di attività non sia superiore a sessanta giorni».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 marzo 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Alfio FINOCCHIARO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 aprile 2010.