ANNO 2005
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Piero Alberto CAPOTOSTI Presidente
- Fernanda CONTRI Giudice
- Guido NEPPI MODONA "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi terzo, quinto e sesto, del decreto-legge 29 luglio 1981, n. 402 (Contenimento della spesa previdenziale e adeguamento delle contribuzioni), convertito, con modificazioni, nella legge 26 settembre 1981, n. 537, promosso con ordinanza del 18 settembre 2003 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da Paolo Pollice contro l'INPS, iscritta al n. 45 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 2004.
Visti gli atti di costituzione di Paolo Pollice e dell'INPS nonché l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 7 giugno 2005 il Giudice relatore Paolo Maddalena;
uditi l'avvocato Paolo Boer per Paolo Pollice e l'avvocato dello Stato Francesco Lettera per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. ¾ Con ordinanza emessa il 18 settembre 2003, la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi terzo, quinto e sesto, del decreto-legge 29 luglio 1981, n. 402 (Contenimento della spesa previdenziale e adeguamento delle contribuzioni), convertito, con modificazioni, nella legge 26 settembre 1981, n. 537, «nella parte in cui, successivamente all'elevazione dei limiti della retribuzione pensionabile e all'entrata in vigore della normativa di cui all'art. 21 della legge 11 marzo 1988, n. 67, impedisce che, in sede di determinazione e aggiornamento periodico della retribuzione di riferimento per la prosecuzione contributiva volontaria, questa possa superare l'importo della retribuzione media corrispondente alla più elevata delle classi di contribuzione di cui alla tabella F allegata allo stesso decreto n. 402 del 1981 e il valore inerente al riferimento, nell'art. 2, comma quinto, al limite massimo di retribuzione pensionabile vigente nel periodo cui si riferisce il versamento».
La vicenda da cui trae origine il giudizio a quo, come evidenzia il remittente, riguarda un assicurato che, cessato dal rapporto di lavoro nel giugno del 1988, è stato ammesso dall'INPS alla prosecuzione volontaria della contribuzione per raggiungere il requisito contributivo richiesto per la pensione di anzianità. A tal fine la contribuzione volontaria è stata calcolata in base all'art. 2 denunciato, applicando il valore dell'ultima classe di contribuzione di cui alla relativa tabella F, allegata al decreto-legge n. 402 del 1981, convertito, con modificazioni, nella legge n. 537 del 1981. Sicché, tenuto conto dei versamenti volontari effettuati (anni 3 e mesi 9) per raggiungere 35 anni di contribuzione, la retribuzione pensionabile è risultata inferiore di oltre 30 milioni alla retribuzione effettivamente fruita nel corso del rapporto di lavoro dipendente e, di conseguenza, anche la pensione liquidata è risultata notevolmente inferiore a quella che sarebbe spettata in base alla retribuzione media rivalutata del quinquennio antecedente la cessazione del rapporto. Di qui, le domande giudiziali avanzate dall'assicurato nei confronti dell'INPS – respinte nei precedenti gradi di giudizio – per ottenere la riliquidazione della pensione di anzianità con riferimento alla retribuzione effettiva, senza i limiti del massimale di cui alla predetta tabella F, e la condanna dell'Istituto al risarcimento del danno in misura pari alla differenza tra la pensione spettante e quella già liquidata.
1.1. ¾ Nel sollevare la questione, la Corte di cassazione muove dalla premessa che non possa accogliersi la tesi sostenuta dal ricorrente nel giudizio principale e cioè di ritenere operativa, anche ai fini della contribuzione volontaria, l'eliminazione del c.d. tetto pensionistico determinata dall'art. 21, comma 6, della legge 11 marzo 1988, n. 67 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1988), il quale avrebbe, di conseguenza, abrogato tacitamente le disposizioni denunciate ovvero mutato la loro originaria funzione.
La disciplina dettata dall'art. 2 del decreto-legge 29 luglio 1981, n. 402, convertito con modificazioni dalla legge 26 settembre 1981, n. 537, prevede, al terzo comma, che «con decorrenza dal 1° aprile 1981 le aliquote a percentuale dei contributi volontari dovuti dai lavoratori già occupati alle dipendenze di terzi si applicano alle retribuzioni medie settimanali delle singole classi di retribuzioni di cui alla tabella F relativa alla contribuzione volontaria, allegata al presente decreto»; mentre il quinto comma dispone: «a decorrere dall'anno 1982 e con effetto dal 1° gennaio di ciascun anno le retribuzioni di cui al terzo comma sono aumentate nella stessa misura percentuale delle variazioni delle pensioni che si verificano in applicazione dell'art. 19 della legge 30 aprile 1969, n. 153, entro il limite massimo di retribuzione pensionabile vigente nel periodo cui si riferisce il versamento».
Ad avviso del remittente, la predetta interpretazione sarebbe, dunque, contrastata irrimediabilmente dalla richiamata normativa, giacché essa si avvale di un sistema tabellare per l'individuazione della retribuzione media settimanale da utilizzare per il calcolo dei contributi e della retribuzione pensionabile e la prevista tabella F reca un numero limitato di classi di contribuzione, di cui l'ultima correla una determinata retribuzione “media” di riferimento a tutte le retribuzioni superiori a un determinato importo. Una tale conclusione verrebbe, poi, rafforzata dal fatto che il quinto comma dell'art. 2 censurato pone un limite alla rivalutazione annuale delle retribuzioni di cui al terzo comma del medesimo art. 2, confermando con ciò «l'intenzione del legislatore dell'epoca di assumere il c.d. tetto pensionistico in vigore come limite della contribuzione volontaria». Né, del resto, potrebbe indurre a diverso avviso la «corrispondenza, non casuale, tra i valori della quarantasettesima e ultima classe di detta tabella e quelli del c.d. tetto pensionistico».
Peraltro, il giudice a quo sostiene che la disciplina di cui al denunciato art. 2 del decreto-legge n. 402 del 1981 sarebbe rimasta operativa sino all'entrata in vigore del decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 184 (Attuazione della delega conferita dall'articolo 1, comma 39, della legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di ricongiunzione, di riscatto e di prosecuzione volontaria ai fini pensionistici), il cui art. 7, pur abbandonando il sistema tabellare anche ai fini del versamento dei contributi volontari, ha previsto, con disposizione transitoria (comma 8), la facoltà dei soggetti assegnatari dell'ultima classe vigente pro tempore di chiedere, entro un anno, l'assegnazione della retribuzione corrispondente a quella media percepita in costanza di rapporto di lavoro nell'anno precedente la data di decorrenza dell'autorizzazione alla prosecuzione volontaria.
1.2. ¾ Tanto premesso, non vi sarebbero dubbi, secondo il remittente, sulla rilevanza della questione, che risulterebbe evidente in base alla domanda proposta dall'assicurato e al thema decidendum oggetto del giudizio principale, posto altresì che la normativa cui si correla la fondatezza o meno delle pretese del ricorrente è proprio quella di cui all'art. 2 del decreto-legge n. 402 del 1981, e non quella transitoria dettata dall'art. 7, comma 8, del d.lgs. n. 184 del 1997, intervenuta quando l'assicurato era già pensionato.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva, anzitutto, che la giustificazione di un tetto alla retribuzione di riferimento per la contribuzione volontaria, correlato ai limiti posti dalla legge alla retribuzione pensionabile, non va rinvenuta nell'intento di contenere la spesa previdenziale, bensì nella volontà del legislatore «di esonerare il lavoratore optante per la prosecuzione volontaria dal pagamento di contributi che, in relazione alla disciplina vigente, non avrebbero potuto arrecare alcun beneficio alla sua posizione assicurativa».
In particolare – argomenta ancora il remittente – è proprio di un sistema pensionistico di tipo retributivo che la misura della pensione, nel caso della contribuzione volontaria, viene a dipendere dalla retribuzione figurativa sulla cui base è fissato l'obbligo contributivo. Ne consegue che, a differenza del sistema contributivo nel quale vi è tendenziale corrispondenza tra versamenti e misura della pensione, in quello di tipo retributivo eventuali limiti quantitativi massimi specifici alla contribuzione volontaria incidono negativamente sulla misura della pensione nel caso in cui l'ultima retribuzione sia superiore a siffatti limiti.
Sicché, l'assenza di coordinamento tra la normativa sulla contribuzione volontaria e le successive disposizioni che hanno elevato il limite massimo della retribuzione pensionabile e, soprattutto, quelle che, pur non eliminando formalmente il tetto della retribuzione pensionabile, ne hanno modificato la portata, consentendo di computare anche la retribuzione eccedente (sia pure sulla base di tassi di rendimento inferiori), rende la disciplina sulla contribuzione volontaria “ampiamente irrazionale” e gravemente penalizzante per coloro che, avvalsisi della prosecuzione volontaria, negli ultimi anni della loro attività lavorativa, e in particolare nelle ultime 156 settimane, hanno fruito di una retribuzione superiore a quella media imponibile di cui all'ultima classe di contribuzione della tabella F allegata al decreto-legge n. 402 del 1981.
Il giudice a quo sostiene, quindi, che una tale penalizzazione costituirebbe «effetto diretto, naturale e prevedibile dalla discrasia normativa già evidenziata» e si porrebbe in palese contrasto con l'art. 38 della Costituzione, giacché la funzione propria della contribuzione volontaria – come rilevato da questa Corte con la sentenza n. 307 del 1989 – è quella di «ovviare agli effetti negativi, ai fini previdenziali, della mancata prestazione di attività lavorativa» e «mira a far raggiungere i requisiti minimi di anzianità contributiva per il diritto a pensione» e a «mantenere costante e intangibile in capo al lavoratore, ai fini del pensionamento, il livello retributivo attinto in tutto l'arco della sua attività lavorativa». Del resto, rileva ancora il remittente, nella citata pronuncia si è anche affermato che la descritta funzione trova riscontro nell'art. 9, primo comma, del d.P.R. 31 dicembre 1971, n. 1432 (Riordinamento della prosecuzione volontaria dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti e per la tubercolosi), che opera la parificazione dei contributi volontari ai contributi obbligatori ai fini del diritto alle prestazioni, dell'anzianità contributiva e della determinazione della retribuzione annua pensionabile, precisandosi altresì che «tale funzione di salvaguardia dei contenuti economici della retribuzione pensionabile percepita in costanza di rapporto di lavoro è [...] evidentemente frustrata ove la contribuzione volontaria consegua l'effetto di farla decrescere, così vanificando le aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività».
Secondo la Corte di cassazione sarebbe ravvisabile, inoltre, la violazione dell'art. 3 della Costituzione, «sia per l'irrazionalità di una disciplina che contraddice la finalità della contribuzione volontaria, sia per l'ingiustificato operare di limiti alla retribuzione pensionabile non corrispondenti a quelli operanti in caso di prestazioni di attività lavorativa, sia, infine, per l'analogamente ingiustificata – nel quadro della disciplina all'epoca vigente – disparità di trattamento tra lavoratori con retribuzione inferiore a detti limiti, per i quali la prosecuzione volontaria è idonea a svolgere adeguatamente la sua funzione, e lavoratori con retribuzione superiore, per i quali, come si è visto, la prosecuzione volontaria, per ragioni strutturali, è prevalentemente inidonea a svolgere la sua funzione tipica».
1.3. ¾ Ad ulteriore sostegno delle ragioni di incostituzionalità, il remittente evidenzia che la fattispecie in esame si differenzia nettamente da quelle, già oggetto di scrutinio da parte di questa Corte (con la già richiamata sentenza n. 307 del 1989 e con le sentenze n. 428 del 1992, n. 264 del 1994, n. 388 del 1995 e n. 432 del 1999), riferibili ad ipotesi in cui il deterioramento della posizione contributiva è causato da versamenti volontari non necessari al fine del raggiungimento del periodo minimo di contribuzione. Nel caso all'esame viene in discussione, invece, la legittimità costituzionale delle norme sulla cui base è stato determinato l'importo della contribuzione volontaria. Pertanto, argomenta ancora il giudice a quo, l'affermazione contenuta nella sentenza n. 432 del 1999 – secondo cui non si rinvengono principi costituzionali che impongano in tutti i casi e a tutti gli effetti l'equiparazione della contribuzione volontaria a quella obbligatoria – non offrirebbe, nella sua genericità, parametri di valutazione pertinenti per smentire l'ipotizzato contrasto delle norme denunciate con gli artt. 3 e 38 della Costituzione.
Il giudice a quo ritiene, altresì, che alla fondatezza della questione non potrebbe opporsi l'argomento che fa leva sulla discrezionalità del legislatore di porre una diversa disciplina, giacché, così opinando, si abbandonerebbe il principio – valido nel sistema pensionistico di tipo retributivo – «che la misura della contribuzione volontaria deve tenere conto di tutta la retribuzione rilevante ai fini della misura della pensione». Ed ancora il remittente sostiene che un'eventuale accoglimento nei termini prospettati non creerebbe «un vuoto normativo, né richiederebbe ulteriori specificazioni ricadenti nell'ambito della discrezionalità del legislatore». Ciò in quanto il sistema tabellare utilizzato dal censurato art. 2 non poteva dirsi “essenziale”, in considerazione dell'esauriente tenore dell'art. 8, comma primo, del d.P.R. n. 1432 del 1971, tanto più in riferimento alle nuove richieste di autorizzazione alla contribuzione volontaria. Sulla medesima linea – prosegue il remittente – si porrebbe anche l'«abbandono del sistema tabellare da parte dell'art. 7 del decreto legislativo n. 184 del 1997, in un quadro normativo ai fini in esame non sostanzialmente modificato».
Infine, la declaratoria di incostituzionalità del denunciato art. 2 non potrebbe essere pregiudicata, secondo la Corte di cassazione, dall'eventualità di una «non perfetta coerenza della disciplina transitoria di cui all'art. 7, comma 8, del decreto legislativo n. 184 del 1997 con l'assetto normativo conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale», giacché la disciplina censurata sarebbe riferibile solo ai periodi in cui operavano, in modo legittimo, limiti quantitativi alla contribuzione volontaria.
2. ¾ Si è costituita la parte privata ricorrente nel giudizio a quo, concludendo, in via principale, perché venga pronunciata una sentenza interpretativa di rigetto e, in subordine, per l'accoglimento della questione.
Dopo aver rammentato la vicenda che ha originato la controversia pendente dinanzi al remittente, la parte privata svolge ampie argomentazioni a sostegno della tesi secondo la quale l'art. 21, comma 6, della legge n. 67 del 1988 avrebbe «eliminato anche il massimale di retribuzione imponibile, fissato per la prosecuzione volontaria». Ciò in quanto il legislatore, nel sopprimere il massimale di retribuzione pensionabile, a partire dal 1° gennaio 1988, avrebbe utilizzato tale meccanismo «per assolvere una funzione completamente diversa, e cioè per fungere da strumento di individuazione della fascia retributiva a rendimento pieno, e conseguentemente, delle ulteriori fasce a rendimento ridotto, applicabile anche ai trattamenti già liquidati».
Nella memoria si osserva che una siffatta trasformazione di funzione avrebbe avuto immediato riflesso anche sulla funzione della 47a classe di retribuzione di cui alla tabella F allegata al decreto-legge n. 402 del 1981. Questa originariamente serviva, in sede di prosecuzione volontaria, da massimale imponibile e pensionabile, ma dal 1° gennaio 1988 si sarebbe trasformata «in spartiacque tra la fascia di retribuzione a rendimento pieno e le ulteriori fasce a rendimento progressivamente ridotto». A tal fine non sarebbe stato necessario che l'art. 21 dettasse disposizioni relative alla prosecuzione volontaria, giacché, anteriormente alla sua vigenza, «non esisteva una autonoma nozione di massimale pensionabile per la contribuzione versata in costanza di rapporto di lavoro (contribuzione obbligatoria) e la contribuzione versata dall'assicurato (contribuzione volontaria)». Del resto, anche successivamente alla vigenza dell'art. 21, la tabella F non avrebbe perso le sue residue funzioni, individuate dai commi 1 e 3 dell'art. 2 del decreto-legge n. 402 del 1981, rispettivamente disciplinanti la retribuzione base della contribuzione volontaria e il calcolo della contribuzione nel caso di retribuzione inferiore a quella base.
La difesa della parte privata sostiene, pertanto, che non occorrerebbe affermare la tacita abrogazione delle disposizioni denunciate da parte del citato art. 21, ma soltanto il mutamento di funzione delle norme oggetto di scrutinio. Interpretazione, questa, che non sarebbe contrastata da avverso “diritto vivente”, né dalla disciplina posta dall'art. 7 del decreto legislativo n. 184 del 1997, che ha demandato all'iniziativa del prosecutore volontario, per non aggravarlo di eccessivi oneri rispetto a quelli preventivati, la possibilità di adeguare la contribuzione alla retribuzione effettiva eccedente il massimale, senza per ciò negare il diritto di chi era ormai pensionato all'entrata in vigore di detta norma e non poteva quindi più proseguire la contribuzione volontaria.
Infine, quanto alla subordinata richiesta di declaratoria di incostituzionalità delle disposizioni denunciate, la parte privata costituita svolge argomentazioni aderenti a quelle dell'ordinanza di remissione.
3. ¾ Si è costituito l'INPS, anch'esso parte del giudizio a quo, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
L'INPS rammenta che la giurisprudenza costituzionale ha più volte affermato che, successivamente al perfezionamento del requisito contributivo minimo, l'ulteriore contribuzione obbligatoria, volontaria o figurativa, operando al fine di incrementare il livello già consolidato di pensione, non ne può mai compromettere la misura potenzialmente maturata sino a quel momento. E nel caso all'esame si tratta non già di contribuzione volontaria ulteriore al perfezionamento del requisito minimo, ma di contribuzione necessaria al suo perfezionamento in vista del conseguimento della pensione di anzianità. Ad avviso dell'INPS, non dovrebbe, quindi, valere in siffatta ipotesi l'assunto sopra richiamato, giacché, come evidenziato dalla sentenza n. 432 del 1999 di questa Corte, non si rinvengono principi costituzionali che impongano in ogni caso e a tutti gli effetti l'equiparazione della contribuzione volontaria a quella obbligatoria.
L'Istituto conclude, pertanto, sostenendo che la normativa denunciata non si porrebbe in contrasto con i parametri evocati e, in quanto rivolta al contenimento della spesa previdenziale, costituirebbe legittimo esercizio della discrezionalità legislativa nell'individuazione della retribuzione pensionabile nell'ambito della prosecuzione volontaria.
4. ¾ E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la manifesta inammissibilità ovvero per l'infondatezza della questione.
La difesa erariale osserva preliminarmente che non sarebbe condivisibile la ricostruzione, risultante dall'ordinanza di remissione, dei presupposti di diritto e del quadro normativo rilevante su cui si fonda la questione. Da un lato, non vi sarebbe infatti alcun provvedimento erroneo da parte dell'INPS nell'autorizzare l'assicurato alla prosecuzione volontaria nel giugno 1988; dall'altro, costui pretenderebbe che fossero accolte le sue pretese previa declaratoria di incostituzionalità dell'art. 7, comma 8, del decreto legislativo n. 184 del 1997, senza però che si sia avvalso dei benefici disposti dalla norma e senza che questa disposizione sia stata censurata dal giudice a quo. La questione sarebbe dunque, sotto tale specifico profilo, inammissibile.
Quanto al merito, l'Avvocatura dello Stato, nel contestare che, nel caso di specie, sussista un mancato coordinamento del sistema normativo, esclude che possa invocarsi, come norma di principio insuscettibile di successivi adeguamenti, quella di cui all'art. 9 del d.P.R. n. 1432 del 1971, sulla parificazione della contribuzione volontaria a quella obbligatoria. Sicché, ad avviso della parte pubblica intervenuta, le disposizioni denunciate non recherebbero alcun vulnus all'art. 38 della Costituzione, non essendovi principi costituzionali che impongano l'equiparazione ad ogni effetto della contribuzione volontaria a quella obbligatoria e, soprattutto, considerando che «il livello pensionistico assicurato […] è comunque adeguato», tanto più che, come affermato anche da questa Corte (ordinanza n. 133 del 2001), nei sistemi pensionistici retributivi la garanzia della proporzionalità ed adeguatezza del trattamento «non esige un intangibile rapporto di corrispondenza tra contributi versati e pensione» e, dunque, tra salario e pensione.
Né contrasterebbe con l'art. 3 Cost. la successione di diverse discipline in un arco di tempo prossimo al trentennio, considerato che lo stesso fluire del tempo è elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche.
L'Avvocatura generale dello Stato osserva, infine, che la questione proposta viene ad incidere nell'ambito della discrezionalità legislativa, in quanto esisterebbe, nella materia in discussione, il limite delle risorse disponibili, in considerazione delle esigenze fondamentali di politica economica. Dovrebbero, dunque, spettare al Parlamento eventuali modifiche alla legislazione di spesa, ove queste impongano la salvaguardia dell'equilibrio di bilancio ed il perseguimento degli obiettivi della programmazione finanziaria.
Considerato in diritto
1. ¾ La Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi terzo, quinto e sesto, del decreto-legge 29 luglio 1981, n. 402 (Contenimento della spesa previdenziale e adeguamento delle contribuzioni), convertito, con modificazioni, nella legge 26 settembre 1981, n. 537, «nella parte in cui, successivamente all'elevazione dei limiti della retribuzione pensionabile e all'entrata in vigore della normativa di cui all'art. 21 della legge 11 marzo 1988, n. 67, impedisce che, in sede di determinazione e aggiornamento periodico della retribuzione di riferimento per la prosecuzione contributiva volontaria, questa possa superare l'importo della retribuzione media corrispondente alla più elevata delle classi di contribuzione di cui alla tabella F allegata allo stesso decreto n. 402 del 1981 e il valore inerente al riferimento, nell'art. 2, comma quinto, al limite massimo di retribuzione pensionabile vigente nel periodo cui si riferisce il versamento».
La disciplina censurata stabilisce, segnatamente al terzo comma dell'art. 2, che, con decorrenza dal 1° aprile 1981, «le aliquote a percentuale dei contributi volontari dovuti dai lavoratori già occupati alle dipendenze di terzi si applicano alle retribuzioni medie settimanali delle singole classi di retribuzioni di cui alla tabella F relativa alla contribuzione volontaria» (art. 2, comma terzo): tabella allegata al medesimo decreto-legge n. 402 del 1981, convertito, con modificazioni, nella legge n. 537 del 1981. Il successivo quinto comma dispone, a sua volta, che, a decorrere dall'anno 1982 e con effetto dal 1° gennaio di ciascun anno, «le retribuzioni di cui al terzo comma sono aumentate nella stessa misura percentuale delle variazioni delle pensioni che si verificano in applicazione dell'art. 19 della legge 30 aprile 1969, n. 153, entro il limite massimo di retribuzione pensionabile vigente nel periodo cui si riferisce il versamento». Infine, il comma 6 del medesimo articolo prevede che per il calcolo della retribuzione pensionabile si prenda in considerazione «la retribuzione media corrispondente alla classe di contribuzione assegnata, in vigore negli anni in cui risulta versata la contribuzione».
Secondo il remittente, le disposizioni denunciate contrasterebbero, anzitutto, con l'art. 38, secondo comma della Costituzione, in quanto avrebbero un effetto penalizzante sul trattamento pensionistico, in contraddizione con «la funzione propria della contribuzione volontaria», e cioè quella – al fine di «ovviare agli effetti negativi, ai fini previdenziali, della mancata prestazione di attività lavorativa» – di consentire il raggiungimento dei requisiti minimi di anzianità contributiva per il diritto a pensione e di «mantenere costante e intangibile in capo al lavoratore, ai fini del pensionamento, il livello retributivo attinto in tutto l'arco della sua attività lavorativa».
Sussisterebbe, inoltre, la violazione dell'art. 3, primo comma, della Costituzione. Sarebbe, infatti, irragionevole una disciplina che «contraddice la finalità della contribuzione volontaria» e che comporta ingiustificati limiti alla retribuzione pensionabile «non corrispondenti a quelli operanti in caso di prestazioni di attività lavorativa». Vi sarebbe, inoltre, una ingiustificata disparità di trattamento, nel quadro normativo all'epoca vigente, «tra lavoratori con retribuzione inferiore a detti limiti, per i quali la prosecuzione volontaria è idonea a svolgere adeguatamente la sua funzione, e lavoratori con retribuzione superiore, per i quali […] la prosecuzione volontaria, per ragioni strutturali, è prevalentemente inidonea a svolgere la sua funzione tipica».
2. – La questione non è fondata.
Deve, anzitutto, essere condivisa la premessa interpretativa da cui muove il giudice a quo e cioè che le disposizioni denunciate non sono state implicitamente abrogate, né, per altro verso, hanno assunto una funzione diversa da quella originaria, a seguito dell'eliminazione del c.d. tetto pensionistico disposta, nell'ambito dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, dall'art. 21, comma 6, della legge 11 marzo 1988, n. 67 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1988).
Come correttamente sostenuto nell'ordinanza di remissione, il diverso esito interpretativo è contrastato non solo dalla lettera dell'art. 21 citato, che si riferisce alla contribuzione obbligatoria e non già a quella volontaria, ma, segnatamente, dal fatto che la disciplina di cui alla legge n. 67 del 1988 nulla oppone all'utilizzazione di un sistema tabellare, al fine del calcolo dei contributi e della retribuzione pensionabile, come quello seguito per la contribuzione volontaria dal denunciato art. 2 del decreto-legge n. 402 del 1981, convertito, con modificazioni, nella legge n. 537 del 1981. E, inoltre, è significativo che tale sistema venga richiamato ancora dalla disciplina di riforma recata dal decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 184 (Attuazione della delega conferita dall'articolo 1, comma 39, della legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di ricongiunzione, di riscatto e di prosecuzione volontaria ai fini pensionistici). L'art. 7, pur disponendone il superamento per il futuro, ha infatti dettato (ai commi 7 e 8) una disciplina transitoria per gli assicurati autorizzati alla prosecuzione volontaria anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, facendo appunto riferimento alle classi di retribuzione precedentemente assegnate e, in particolare, proprio all'ultima classe vigente pro tempore, al fine di consentire anche a costoro la facoltà di scegliere, entro un anno, l'applicazione della nuova disciplina.
3. ¾ Ciò posto, le censure, che evocano il contrasto delle disposizioni impugnate con gli artt. 3 e 38 Cost., si fondano essenzialmente sulla asserita vanificazione, a seguito del mutato quadro normativo, della funzione propria della contribuzione volontaria, che sarebbe quella di consentire il raggiungimento del limite massimo di anzianità contributiva necessario per la concessione della pensione e di garantire il mantenimento della posizione retributiva raggiunta in tutto l'arco dell'attività lavorativa. Una funzione, questa, che, secondo il remittente, troverebbe conferma nell'art. 9 del d.P.R. 31 dicembre 1971, n. 1432 (Riordinamento della prosecuzione volontaria dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti e per la tubercolosi), il quale equipara appunto la contribuzione volontaria a quella obbligatoria.
Tuttavia, diversamente da quanto il giudice a quo sostiene, non può dirsi che la persistente vigenza del sistema previsto dall'art. 2 del decreto-legge n. 402 del 1981, convertito, con modificazioni, nella legge n. 537 del 1981, nonostante il sopravvenire della disciplina recata dall'art. 21, comma 6, della legge n. 67 del 1988, e cioè della sostanziale eliminazione del cd. tetto pensionistico nell'ambito della contribuzione obbligatoria, sia in contraddizione con la funzione propria della contribuzione volontaria o addirittura che l'abbia svuotata di contenuti.
3.1. ¾ A tal riguardo, va rammentato, in linea più generale, che la disciplina, succedutasi a partire dal d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488 (Aumento e nuovo sistema di calcolo delle pensioni a carico dell'assicurazione generale obbligatoria), riguardante il sistema di determinazione della retribuzione pensionabile si è ispirata a finalità diverse (semplificazione del sistema, garanzia di una più favorevole base di calcolo per la liquidazione della pensione o, al contrario, attenuazione del disavanzo del sistema previdenziale), che il legislatore ha perseguito in base a scelte rimesse alla sua discrezionalità politica e, dunque, soggette al sindacato di legittimità costituzionale «nella misura in cui esse diano luogo a risultati palesemente irrazionali o comunque contrari ai principi costituzionali che regolano la materia» (sentenza n. 264 del 1994).
Si è così escluso, in varie occasioni (sentenza n. 173 del 1986; ordinanze n. 147 del 1987 e n. 120 del 1989), che contrastassero con i principi di proporzionalità e di adeguatezza del trattamento pensionistico, di cui all'art. 38, comma secondo, Cost., quelle disposizioni (tra cui l'art. 5, comma quarto, del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488; l'art. 14 della legge 30 aprile 1969, n. 153; l'art. 27 della legge 3 giugno 1975, n. 160; l'art. 19 della legge 23 aprile 1981, n. 155) che, ai fini del calcolo delle pensioni di anzianità e vecchiaia degli iscritti all'assicurazione generale obbligatoria, escludevano la computabilità delle quote di retribuzione eccedenti il prefissato limite massimo e cioè il cd. tetto pensionistico.
Allorché, dunque, questa Corte (sentenze n. 37 del 1982 e n. 574 del 1987, quest'ultima richiamata anche dal remittente) ha affermato, ancor prima che intervenisse la modifica recata dall'art. 21, comma 6, della legge n. 67 del 1988, che la funzione della prosecuzione volontaria va individuata, tra l'altro, nella «esigenza di mantenere costante e intangibile in capo al lavoratore, ai fini del pensionamento, il livello retributivo attinto in tutto l'arco della sua attività lavorativa», è evidente che non intendeva certo riferirsi ad un livello effettivo di retribuzione tale da escludere la possibilità che vi fosse un limite massimo di retribuzione pensionabile.
Invero, quanto all'incidenza della contribuzione volontaria ai fini della determinazione della retribuzione pensionabile, la regola generale espressa dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 574 del 1987, n. 822 del 1988, n. 307 del 1989, n. 428 del 1992, n. 388 del 1995, n. 264 del 1994, n. 427 del 1997, n. 201 del 1999 e n. 432 del 1999), è che, dopo il perfezionamento del requisito minimo contributivo, l'ulteriore contribuzione (obbligatoria, volontaria o figurativa), mentre vale ad incrementare il livello di pensione già consolidato, non deve comunque compromettere la misura della prestazione potenzialmente maturata sino a quel momento. Ed è proprio l'effetto di un decremento del trattamento pensionistico, che verrebbe a determinarsi nelle ipotesi suddette, che frustra la precipua finalità della contribuzione volontaria di salvaguardia di contenuti economici della retribuzione percepita in costanza di rapporto di lavoro, come precisato dalla sentenza n. 307 del 1989, alla quale il giudice a quo specificamente si richiama.
In altre parole, il vulnus agli artt. 3 e 38 Cost. è ravvisabile soltanto ove sia assente, nella normativa implicata, una clausola di salvaguardia della posizione acquisita a seguito del raggiungimento dell'anzianità minima contributiva, che «segna un limite intrinseco alla discrezionalità del legislatore nella scelta, ad esso riservata, del criterio di individuazione del periodo di riferimento della retribuzione pensionabile» (così la sentenza n. 432 del 1999).
Non altrettanto è da reputarsi, però, nell'ipotesi di versamenti volontari necessari al raggiungimento dell'anzianità contributiva minima.
L'individuazione del periodo di riferimento per la retribuzione pensionabile senza escludere da esso la contribuzione volontaria nel caso in cui la pensione d'anzianità venga a dover essere liquidata in misura inferiore a quella calcolata sulla base della sola contribuzione obbligatoria, è scelta che non travalica i limiti della discrezionalità legislativa. E ciò in quanto, come ancora evidenzia la sentenza n. 432 del 1999, «non si rinvengono, […], (tanto meno negli artt. 35, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, indicati dal rimettente), principi costituzionali che impongano in ogni caso e a tutti gli effetti l'equiparazione della contribuzione volontaria a quella obbligatoria».
3.2. ¾ Alla luce dei richiamati principi deve, quindi, escludersi la violazione dei parametri evocati dal remittente.
In primo luogo, quella dell'art. 38, secondo comma, Cost., giacché, come ricordato, per un verso, l'imposizione di limiti tabellari alla retribuzione pensionabile non contrasta, di per sé, con la garanzia previdenziale e, per altro verso, non è costituzionalmente imposto, ad ogni effetto, il principio di equiparazione tra contribuzione volontaria e obbligatoria, ciò valendo segnatamente nel caso, come quello in esame, in cui i versamenti volontari sono necessari al fine di perfezionare il requisito contributivo minimo.
E', dunque, fuor di luogo invocare il principio di parificazione dei contributi volontari a quelli obbligatori, non già per evitare una compromissione della prestazione pensionistica sino allora maturata, ma unicamente al fine di far valere un trattamento di maggior favore rispetto a quello conseguito sulla base della classe più alta di contribuzione (la 47a classe di cui alla tabella F allegata al decreto-legge n. 402 del 1981, convertito, con modificazioni, nella legge n. 537 del 1981).
Rimane, pertanto, nell'ambito della discrezionalità legislativa la scelta di un limite massimo alla retribuzione pensionabile per il prosecutore volontario, previsto dalle norme denunciate pur dopo il mutamento normativo recato, nell'ambito del sistema di contribuzione obbligatoria, dall'art. 21, comma 6, della legge n. 67 del 1988, senza che, per questo, venga alterata la funzione propria della contribuzione volontaria e siano vulnerate le finalità garantite dall'art. 38 Cost.
Peraltro, non può tacersi che il richiamo all'art. 38, secondo comma, della Costituzione in riferimento al pensionamento di anzianità, che viene in rilievo nella fattispecie, risulta inconferente, in quanto, come più volte affermato da questa Corte (tra le altre, ordinanza n. 278 del 2003 e sentenza n. 416 del 1999), «la garanzia posta dal citato parametro costituzionale, legata allo stato di bisogno, è riservata alle pensioni che trovano la loro causa nella cessazione della attività lavorativa per ragioni di età».
Né può ravvisarsi la violazione dell'art. 3 Cost. sotto i diversi profili prospettati dal remittente.
Posto, infatti, che la disciplina censurata non contraddice la finalità della contribuzione volontaria e, dunque, non può dirsi, per questo, irragionevole, deve escludersi che sia costituzionalmente illegittima l'apposizione di limiti alla retribuzione pensionabile non corrispondenti a quelli operanti in costanza di rapporto di lavoro. Il fatto che non può predicarsi una equiparazione a tutti gli effetti tra contribuzione volontaria e contribuzione obbligatoria si spiega anche in considerazione della diversità della posizione del lavoratore in attività rispetto a quella del lavoratore che, cessato dal servizio, non ha ancora raggiunto l'anzianità contributiva minima.
Non può infine reputarsi sussistente una ingiustificata disparità di trattamento tra lavoratori con retribuzione inferiore a detti limiti, per i quali la contribuzione volontaria sarebbe idonea a perseguire la sua funzione, e lavoratori con retribuzione superiore, i quali resterebbero invece penalizzati. Una volta escluso che, nella fattispecie in esame, possa ravvisarsi uno stravolgimento della funzione propria della contribuzione volontaria, quelle prospettate dal remittente sono soltanto mere conseguenze di fatto nell'applicazione delle norme denunciate che, come tali, non rilevano ai fini dello scrutinio di costituzionalità (cfr., ex plurimis, ordinanze n. 155 del 2005 e n. 121 del 2003).
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi terzo, quinto e sesto, del decreto-legge 29 luglio 1981, n. 402 (Contenimento della spesa previdenziale e adeguamento delle contribuzioni), convertito, con modificazioni, nella legge 26 settembre 1981, n. 537, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza in epigrafe indicata.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 luglio 2005.
Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente
Paolo MADDALENA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 27 luglio 2005.