SENTENZA N. 18
ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Prof. Giuliano VASSALLI, Presidente
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
- Dott. Franco BILE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 7, commi 1 e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), e degli artt. 2-bis, comma 2, e 3 del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, nella legge 30 novembre 1994, n. 656, promossi con ordinanze emesse il 17 aprile 1998 dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti, il 4 maggio 1998 dalla Commissione tributaria provinciale di Torino e il 22 gennaio 1999 dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti, rispettivamente iscritte ai numeri 826 e 850 del registro ordinanze 1998 ed al numero 223 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 45 e 47, prima serie speciale, dell’anno 1998 e numero 16, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visto l’atto di costituzione della Emme Emme di De Francesco Maria & C. s.n.c., nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 23 novembre 1999 e nella camera di consiglio del 24 novembre 1999 il Giudice relatore Annibale Marini;
uditi l’avvocato Lucio V. Moscarini per la Emme Emme di De Francesco Maria & C. s.n.c. e l’Avvocato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - La Commissione tributaria provinciale di Chieti, con ordinanza emessa il 17 aprile 1998, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) e, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 2-bis, comma 2, e 3 del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, nella legge 30 novembre 1994, n. 656.
1.1. - Affermata pregiudizialmente la giurisdizione del giudice tributario nella controversia de qua - avente ad oggetto l’impugnativa proposta da un contribuente avverso il provvedimento con il quale l’Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Vasto aveva annullato una propria precedente proposta di accertamento con adesione per l’anno d’imposta 1991 e tutti gli atti a questa conseguenti - la Commissione rimettente deduce, in ordine alla rilevanza della prima questione, che ai fini della decisione é necessario accertare in fatto se, alla data di perfezionamento dell’accertamento con adesione, l’ufficio fosse o meno già a conoscenza di quei fatti penalmente rilevanti - costituenti, ai sensi degli artt. 2-bis, comma 2, e 3 del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564, cause ostative dell’accertamento con adesione per gli anni pregressi (c.d. concordato di massa) - in considerazione dei quali risulta adottato il provvedimento di annullamento dell’accertamento stesso impugnato dal contribuente. La prova testimoniale si renderebbe indispensabile in quanto, pur essendovi prova documentale della data di ricezione della nota da cui emergerebbe la notizia di reato, sull’amministrazione finanziaria graverebbe l’onere di dimostrare altresì la data in cui la nota stessa sarebbe stata esaminata e valutata nella sua rilevanza penale da un proprio funzionario.
L’ammissione di tale mezzo istruttorio é peraltro preclusa dall’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, che espressamente esclude l’ammissibilità della prova testimoniale nel processo tributario.
Della legittimità costituzionale di detta norma il rimettente dubita, in riferimento, in primo luogo, ai parametri di cui agli artt. 3 e 24 della Costituzione. Il divieto di prova testimoniale determinerebbe infatti, nel giudizio a quo, una ingiustificata disparità di trattamento tra le parti, "essendo inibito all’intimato di addurre l’unico mezzo istruttorio con cui provare la suindicata circostanza", e comprometterebbe quindi il diritto di difesa dell’amministrazione finanziaria, "per essere la stessa impossibilitata a dimostrare la causa ostativa del concordato di massa".
Sotto un diverso e consequenziale profilo risulterebbe altresì violato il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., in quanto dalla suddetta inibizione istruttoria discenderebbe l’inevitabile soccombenza dell’amministrazione, con conseguente diminuzione del gettito tributario.
1.2. - Gli artt. 2-bis, comma 2, e 3 del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564, sarebbero invece in contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione nella parte in cui non prevedono "che le cause di inammissibilità del concordato di massa ivi contemplate vengano meno quando il procedimento penale a carico del contribuente interessato (per i reati di cui agli artt. da 1 a 4 del D.L. 429/82 conv. in L. 516/82) - già pendente ovvero promosso a seguito (a) della denunzia di cui al primo periodo del co. 2 cit. oppure (b) della presentazione del rapporto da parte della Guardia di Finanza di cui al secondo periodo, prima proposizione, della norma stessa - venga archiviato oppure si definisca con sentenza di proscioglimento o di assoluzione".
Rileva a tale riguardo la Commissione rimettente che il soggetto sottoposto a procedimento penale, in veste di indagato o di imputato, gode, ex art. 27, secondo comma, Cost. della presunzione di innocenza "sino alla condanna definitiva" e che pertanto la mera assunzione della suddetta qualità di indagato o imputato "non può definitivamente precludergli la fruizione della definizione agevolata del rapporto d’imposta prevista dalla suindicata normativa fiscale", qualora ad essa non consegua una sentenza irrevocabile di condanna.
Ne discenderebbe, diversamente, una ingiustificata disparità di trattamento tra i contribuenti ingiustamente assoggettati a procedimento penale e successivamente assolti ed i contribuenti non sottoposti affatto a procedimento penale.
2. - E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità o comunque di non fondatezza delle questioni.
2.1. - Circa la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, la parte pubblica ne eccepisce preliminarmente l’irrilevanza, in quanto nel giudizio a quo non vi sarebbe stata una rituale richiesta di prova testimoniale, ex art. 244 del codice di procedura civile, ma la mera sollecitazione all’"audizione" di persona edotta dei fatti da dimostrare.
La questione stessa, ad avviso dell’Avvocatura, sarebbe comunque infondata nel merito, in riferimento a tutti i parametri evocati. La norma denunciata, infatti, non contrasterebbe con il principio di eguaglianza, non alterando la "parità delle armi" tra le parti del processo; non sarebbe lesiva del diritto di difesa, poichè - secondo l’insegnamento della stessa Corte - "il solo fatto dell’esclusione di un mezzo di prova come quello della testimonianza non costituisce di per sè violazione del diritto di difesa"; non potrebbe ritenersi infine in contrasto con il principio della capacità contributiva, di cui all’art. 53 Cost., riguardando tale principio la disciplina sostanziale del sistema tributario e non la disciplina del processo.
2.2. - Anche la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2-bis, comma 2, e 3 del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564, sarebbe - ad avviso dell’Avvocatura - priva di rilevanza nel giudizio a quo, non essendovi traccia di una archiviazione del procedimento penale o di una sua definizione con sentenza di proscioglimento o di assoluzione.
La questione stessa sarebbe, comunque, infondata nel merito, in relazione ad entrambi i parametri evocati. Rileva, infatti, l’Avvocatura che la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost. "é ordinata a subordinare l’attuazione della pretesa punitiva statuale alla pronuncia della condanna definitiva: ed in questo senso attiene allo svolgimento del processo ed agli effetti della sentenza penale", cosicchè non può assumere alcun rilievo in riferimento ad una disciplina che preveda - a tutt’altri fini - le condizioni per l’ammissione ad un determinato regime di favore, accordato in deroga alla disciplina ordinaria.
Eventuali disparità di trattamento conseguenti "alla maggiore o minore ponderatezza di valutazioni degli organi inquirenti" non potrebbero d’altro canto in alcun caso ascriversi a vizio di legittimità della norma, in relazione all’art. 3 Cost.
3. - Si é costituita in giudizio la Emme Emme di De Francesco Maria & C. s.n.c., ricorrente nel giudizio a quo, concludendo, in via principale, per la declaratoria di inammissibilità di entrambe le questioni; in via subordinata, per il rigetto della questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, e l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale degli artt. 2-bis, comma 2, e 3 del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564.
3.1. - Secondo la parte privata, entrambe le questioni sono irrilevanti nel giudizio a quo: la prima, in quanto già risulterebbe dagli atti che, alla data di perfezionamento del concordato con adesione, l’ufficio non era a conoscenza di alcun elemento di rilevanza penale e dunque non vi sarebbe nessuna necessità di espletare una prova testimoniale sul punto; la seconda, perchè - in conseguenza della suddetta circostanza - il ricorso da essa proposto non potrà che essere accolto, restando perciò priva di rilievo ogni ulteriore considerazione connessa all’esito del procedimento penale.
3.2. - Nel merito, la parte privata ritiene che l’esclusione della prova testimoniale nel processo tributario sia in linea con la natura del processo stesso, in quanto processo sul rapporto tributario, ed altresì in armonia con i principi costituzionali.
Poichè, infatti, "il rapporto tributario é cristallizzato nel provvedimento conclusivo del procedimento che ha condotto a quel determinato accertamento", ne discenderebbe "che non possono trovare ingresso nel processo tributario fatti e circostanze che non siano quelli già considerati nell’ambito del procedimento amministrativo e che siano desumibili dai singoli atti amministrativi formativi di quel determinato provvedimento impositivo". Il bisogno di acquisire una prova testimoniale a sostegno dell’atto di accertamento starebbe d’altro canto ad indicare, di per sè, che l’atto stesso é stato emesso dall’amministrazione in difetto di prova certa dei fatti sui quali esso si fonda.
3.3. - La medesima parte privata ritiene invece, sia pure in via subordinata, che il dubbio di legittimità costituzionale degli artt. 2-bis, comma 2, e 3 del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564, sia fondato, per le considerazioni tutte esposte nell’ordinanza di rimessione.
4. - La Commissione tributaria provinciale di Torino, con ordinanza emessa il 4 maggio 1998, ha a sua volta sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
4.1. - La Commissione rimettente, circa la rilevanza della questione, deduce che nel giudizio a quo - avente ad oggetto il ricorso proposto da un contribuente avverso un avviso di accertamento emesso dal Comune di Torino per imposta di pubblicità relativa all’anno 1995 - é controversa esclusivamente la circostanza di fatto rappresentata dalla data di rimozione dell’insegna pubblicitaria cui l’imposta si riferisce. Ai fini della decisione occorrerebbe pertanto consentire, così come richiesto dal ricorrente, prove testimoniali sul punto, che risultano tuttavia precluse dall’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546.
Ritiene al riguardo il rimettente che il divieto di prova testimoniale nel processo tributario risulti, nel caso di specie, lesivo sia del principio di uguaglianza sia del diritto di difesa, in quanto l’attività difensiva del contribuente risulta limitata dall’impossibilità giuridica di apportare elementi probatori su circostanze di fatto rilevanti ai fini del decidere.
5. - Si é costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di manifesta infondatezza della questione sulla scorta di considerazioni analoghe a quelle svolte nell’altro giudizio.
6. - La Commissione tributaria provinciale di Chieti, con altra ordinanza emessa il 22 gennaio 1999, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, commi 1 e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, in riferimento, alternativamente, agli artt. 24 e 53 Cost., ovvero agli artt. 3 e 24 Cost.
6.1. - La Commissione rimettente deduce che, nel giudizio pendente dinanzi ad essa, avente ad oggetto l’impugnativa di un avviso di accertamento emesso dall’Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Chieti, i ricorrenti contestano la legittimità dell’accertamento stesso, in quanto fondato su dichiarazioni provenienti da soggetti estranei alla lite tributaria.
Il ricorso sarebbe - ad avviso della Commissione - meritevole di accoglimento, in quanto il divieto di prova testimoniale sancito dall’art. 7, comma 4, del decreto legislativo n. 546 del 1992, dovrebbe necessariamente precludere l’attribuzione di efficacia probatoria a dichiarazioni comunque provenienti da terzi. Il medesimo rimettente rileva tuttavia che la norma risulta in tal modo in contrasto con gli artt. 24 e 53 Cost., "in quanto l’Amministrazione finanziaria, istituzionalmente deputata a salvaguardare il principio della capacità contributiva e sulla quale grava l’onere probatorio di dimostrare i fatti costitutivi della pretesa tributaria, non può avvalersi delle dichiarazioni di terzi idonee a provare l’evasione fiscale".
Se poi si volesse interpretare la norma stessa nel senso della utilizzabilità in giudizio delle suddette dichiarazioni di terzi, essa contrasterebbe allora con gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto il contribuente non potrebbe, dal canto suo, addurre prova contraria "a mezzo di altre dichiarazioni scritte di soggetti estranei alla lite, eventualmente asseverate" e quando - come nella specie hanno fatto i ricorrenti - producesse in giudizio simili dichiarazioni, il giudicante non potrebbe comunque tenerne alcun conto.
7. - E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di infondatezza della questione sotto entrambi i profili ed in relazione a tutti i parametri evocati.
In aggiunta alle considerazioni già svolte negli atti di intervento relativi agli altri due procedimenti, l’Avvocatura osserva che "le dichiarazioni raccolte e verbalizzate nel corso della indagine tributaria non hanno la valenza propria della prova testimoniale, dovendo alle stesse riconoscersi piuttosto la rilevanza e l’efficacia di "informazioni" destinate a costituire dimostrazione non già immediata bensì, ed in concorso con altre risultanze ispettive, indiretta e logica dei fatti fiscalmente notevoli, epperò da apprezzarsi - secondo le regole proprie della prova presuntiva - con prudente discernimento del giudice".
Considerato in diritto
1. - La Commissione tributaria provinciale di Chieti, con entrambe le ordinanze, e la Commissione tributaria provinciale di Torino sollevano in via esclusiva o concorrente - e sia pure sotto profili diversi e con riferimento a parametri non del tutto coincidenti - questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui esclude l’ammissibilità della prova testimoniale nel processo tributario.
In ragione della parziale identità dell’oggetto i tre giudizi vanno dunque riuniti per essere decisi con unica sentenza.
2. - La questione sollevata, in termini sostanzialmente analoghi, dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti, con l’ordinanza del 17 aprile 1998, e dalla Commissione tributaria provinciale di Torino fa riferimento ai parametri di cui agli artt. 3 e 24 della Costituzione. Ad avviso dei rimettenti, infatti, l’esclusione della prova testimoniale nel processo tributario determinerebbe la lesione del principio di eguaglianza, e la conseguente violazione del diritto di difesa, in danno di quella tra le parti del processo che si venga a trovare nella necessità di avvalersi della prova testimoniale per dimostrare un fatto rilevante ai fini della decisione, non suscettibile di essere diversamente provato.
La Commissione tributaria di Chieti, con l’ordinanza di cui sopra, evoca altresì il parametro di cui all’art. 53 Cost., in quanto l’impossibilità per l’amministrazione finanziaria di avvalersi anche della prova testimoniale nel processo tributario, impedendo od ostacolando la prova delle pretese dell’Amministrazione, comporterebbe al tempo stesso una riduzione del gettito fiscale ed una lesione del principio di capacità contributiva.
La medesima Commissione tributaria, con la successiva ordinanza del 22 gennaio 1999, ha inoltre sollevato questione di legittimità costituzionale dei commi 1 e 4 del citato art. 7 del decreto legislativo n. 546 del 1992, con riferimento ancora ai parametri di cui agli artt. 24 e 53 Cost. ma sotto un profilo diverso. Assume infatti la Commissione rimettente che la norma denunciata, escludendo l’ammissibilità della prova testimoniale nel processo tributario, precluderebbe di conseguenza l’utilizzazione nel processo stesso - pena la violazione del principio di eguaglianza e del diritto di difesa del contribuente - delle dichiarazioni di terzi raccolte dalla amministrazione finanziaria nella fase procedimentale, così violando ancora una volta il diritto di difesa della stessa amministrazione nonchè, per i riflessi sostanziali, il principio di capacità contributiva.
3. - Con riferimento alla questione sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti con l’ordinanza del 17 aprile 1998 vanno preliminarmente esaminate le eccezioni di inammissibilità avanzate dall’Avvocatura generale dello Stato e dalla parte privata.
L’Avvocatura dello Stato deduce il difetto di rilevanza della questione in quanto, nel giudizio a quo, non vi sarebbe stata una rituale richiesta di prova testimoniale, ma una mera sollecitazione all’"audizione", da parte della Commissione, di persona informata dei fatti. La parte privata, dal canto suo, assume che la prova testimoniale in questione sarebbe comunque inammissibile, essendovi già in atti prova documentale della non veridicità del fatto che si vorrebbe dimostrare.
Entrambe le eccezioni vanno disattese essendo basate su circostanze di fatto - e precisamente sulla mancanza di una rituale richiesta di prova testimoniale e sulla sufficienza della prova documentale in atti - delle quali l’accertamento e la valutazione spettano al giudice rimettente (ex plurimis, sentenze n. 28 del 1996 e n. 268 del 1994).
4. - Nel merito, le questioni non sono fondate.
In riferimento al parametro di cui all’art. 3 della Costituzione va anzitutto escluso che il divieto di prova testimomiale, essendo formulato in termini generali ed astratti, possa collidere con il principio di "parità delle armi" che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, rappresenta l’espressione in campo processuale del principio di eguaglianza evocato dal rimettente (ex multis, sentenza n. 253 del 1994).
L’affermazione della incostituzionalità del divieto della prova testimoniale risulta peraltro infondata anche sotto il diverso profilo della comparazione con altri sistemi processuali evocato in base alla considerazione che, mentre in altri procedimenti giurisdizionali (civile, penale) la parte può normalmente ricorrere a prove testimoniali, il divieto assoluto della prova testimoniale sarebbe lesivo del principio di eguaglianza e del generale canone di ragionevolezza non essendo in alcun modo giustificabile tale previsione normativa a seconda del tipo di contenzioso instaurato.
In contrario, é possibile osservare che, come ricordato dalla stessa Commissione tributaria provinciale di Torino, nella giurisprudenza di questa Corte già si rinviene l’affermazione secondo la quale "non esiste affatto un principio (costituzionalmente rilevante) di necessaria uniformità di regole processuali tra i diversi tipi di processo". Rilevandosi conseguentemente che i diversi ordinamenti processuali ben possono differenziarsi "sulla base di una scelta razionale del legislatore, derivante dal tipo di configurazione del processo e dalle situazioni sostanziali dedotte in giudizio (...), anche in relazione all’epoca della disciplina e alle tradizioni storiche di ciascun procedimento ..." (sentenza n. 82 del 1996).
Ed é proprio muovendo da tale premessa che il divieto della prova testimoniale trova, nella specie, una sua non irragionevole giustificazione da un lato nella "spiccata specificità" del processo tributario rispetto a quello civile ed amministrativo, "correlata sia alla configurazione dell’organo decidente sia al rapporto sostanziale oggetto del giudizio" (sentenza n. 53 del 1998), dall’altro nella circostanza, pur essa sottolineata dalla giurisprudenza di questa Corte e dalla dottrina, che il processo tributario é ancora, specie sul piano istruttorio, in massima parte scritto e documentale (sentenza n. 141 del 1998).
Sotto un diverso e concorrente aspetto, la stessa natura della pretesa fatta valere dall’amministrazione finanziaria attraverso un procedimento di accertamento dell’obbligo del contribuente mal si concilia con la prova testimoniale. Considerazione questa che, mentre vale a spiegare come, prima dell’introduzione del divieto di prova testimoniale, l’utilizzo di tale mezzo di prova sia stato, nel processo tributario, del tutto marginale, costituisce ulteriore conferma della non irragionevolezza della scelta operata dal legislatore con l’introduzione del divieto.
Sicchè, e conclusivamente sul punto, va dichiarata l’infondatezza della censura di violazione dell’art. 3 della Costituzione sotto entrambi i profili evocati.
Del pari insussistente é la asserita violazione del parametro di cui all’art. 24 della Costituzione. Questa Corte ha infatti ripetutamente affermato che l’esclusione della prova testimoniale nel processo tributario non costituisce, di per sè, violazione del diritto di difesa, potendo quest’ultimo, ai fini della formazione del convincimento del giudice, essere diversamente regolato dal legislatore, nella sua discrezionalità, in funzione delle peculiari caratteristiche dei singoli procedimenti (sentenza n. 128 del 1972; ordinanze n. 6 del 1991, n. 76 del 1989 e n. 506 del 1987).
Nè le ordinanze di rimessione prospettano, in relazione al suddetto parametro, argomenti che possano indurre a modificare il citato indirizzo, limitandosi le stesse a motivare la denunciata incostituzionalità del divieto di prova testimoniale attraverso una asserita impossibilità della parte di fornire aliunde, nel giudizio in corso, la prova di una specifica circostanza di fatto.
Impossibilità che, quand’anche esistente, non potrebbe di per sè ascriversi a vizio di legittimità costituzionale della norma, essendo conseguenza necessitata della scelta, come si é detto discrezionale, del legislatore riguardo all’ammissibilità ed ai limiti dei singoli mezzi di prova. Scelta del resto presente anche nel processo civile, in relazione a determinati fatti o rapporti la cui prova può essere fornita solamente per iscritto (si vedano ad esempio, ex multis, gli artt. 1659, 1846, 1888, 1919 del codice civile).
Deve, infine, escludersi la lesione nella specie del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. (evocato dalla sola Commissione tributaria provinciale di Chieti), riguardando esso, come costantemente affermato da questa Corte, la disciplina sostanziale dei tributi e non la disciplina del processo (sentenza n. 120 del 1992, ordinanze n. 114 del 1999, n. 322 del 1992, n. 108 del 1990).
5. - La limitazione probatoria stabilita dall’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, non comporta poi - diversamente da quanto la Commissione tributaria provinciale di Chieti mostra di ritenere nell’ordinanza del 22 gennaio 1999 - l’inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi eventualmente raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale.
Va infatti considerato che le dichiarazioni di cui si tratta - rese al di fuori e prima del processo - sono essenzialmente diverse dalla prova testimoniale, che é necessariamente orale e di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio. La norma denunciata non può perciò essere interpretata nel senso di ricomprendere nella sua previsione anche l’inammissibilità di tali dichiarazioni.
La possibilità che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’amministrazione finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente, in un processo nel quale quest’ultimo non può avvalersi, per contestarne l’efficacia probatoria, della prova testimoniale, non é d’altro canto in contrasto nè con il principio di eguaglianza nè con il diritto di difesa del contribuente medesimo.
Il valore probatorio delle dichiarazioni raccolte dall’amministrazione finanziaria nella fase dell’accertamento é, infatti, solamente quello proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione. Si tratta, dunque, di un’efficacia ben diversa da quella che deve riconoscersi alla prova testimoniale e tale rilievo é sufficiente ad escludere che l’ammissione di un mezzo di prova (le dichiarazioni di terzi) e l’esclusione dell’altro (la prova testimoniale) possa comportare la violazione del principio di "parità delle armi".
Ciò non vuol dire, peraltro, che il contribuente non possa, nell’esercizio del proprio diritto di difesa, contestare la veridicità delle dichiarazioni di terzi raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale. Allorchè ciò avvenga, il giudice tributario - ove non ritenga che l’accertamento sia adeguatamente sorretto da altri mezzi di prova, anche a prescindere dunque dalle dichiarazioni di terzi - potrà e dovrà far uso degli ampi poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell’art. 7 del decreto legislativo n. 546 del 1992, rinnovando e, eventualmente, integrando - secondo le indicazioni delle parti e con garanzia di imparzialità - l’attività istruttoria svolta dall’ufficio. E non é dubbio che, in presenza di una specifica richiesta di parte, le ragioni del mancato esercizio di tale potere-dovere restino soggette al generale sindacato di congruità e sufficienza della motivazione proprio delle decisioni giurisdizionali.
6. - La questione di legittimità costituzionale degli artt. 2-bis, comma 2, e 3 del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito con modificazioni nella legge 30 novembre 1994, n. 656, sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, é invece inammissibile.
La Commissione rimettente dubita infatti della legittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevede che la causa ostativa del concordato di massa, rappresentata dalla rilevanza penale, relativa a determinati reati, della condotta del contribuente, venga meno in caso di successiva archiviazione del procedimento penale ovvero di definizione dello stesso con sentenza di proscioglimento o di assoluzione. Nell’ordinanza, tuttavia, non vi é alcuna motivazione sulla rilevanza della questione nel giudizio a quo ed anzi dalla comparsa di costituzione della parte privata é agevole desumerne la sicura irrilevanza attuale, essendo ancora in corso il procedimento penale a suo tempo promosso a carico dell’amministratore della società.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
a) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2-bis, comma 2, e 3 del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, nella legge 30 novembre 1994, n. 656, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti con l’ordinanza in epigrafe;
b) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, commi 1 e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti e dalla Commissione tributaria provinciale di Torino con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 gennaio 2000.
Giuliano VASSALLI, Presidente
Annibale MARINI, Redattore
Depositata in cancelleria il 21 gennaio 2000.