Sentenza n. 120 del 1992

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SENTENZA N. 120

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Francesco GUIZZI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 12, secondo comma, del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n.516 (Norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria) e dell'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario) promosso con ordinanza emessa il 20 marzo 1991 dalla Commissione tributaria di secondo grado di Lecce sul ricorso proposto da Calvi Corrado contro l'Ufficio II.DD. di Gallipoli iscritta al n. 608 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 22 gennaio 1992 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello.

Ritenuto in fatto

1.- La Commissione tributaria di secondo grado di Lecce, con ordinanza in data 20 marzo 1991, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art.12, secondo comma, del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, nonchè dell'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, come sostituito dall'art. 7 del d.P.R. 3 novembre 1981, n.739.

Nell'atto di rimessione si espone che il Tribunale di Lecce, con sentenza divenuta irrevocabile nel giugno 1987, assolveva Corrado Calvi dai reati di omessa fatturazione e annotazione nelle scritture contabili di somme di denaro riscosse a titolo di provvigione negli anni 1983 e 1984, ritenendo l'insussistenza dei fatti contestati. Tuttavia, il locale ufficio delle imposte dirette, anche in ragione delle predette provvigioni, notificava, in data 26 novembre 1987, avvisi di accertamento (ai fini Irpef e Ilor) per il maggior reddito di impresa conseguito negli anni 1983-84, irrogando le conseguenti pene pecuniarie per infedele dichiarazione. Gli avvisi di accertamento e la successiva iscrizione a ruolo delle relative imposte e sanzioni non venivano tempestivamente impugnate dal contribuente che, in data 9 settembre 1988 presentava un'istanza con cui chiedeva che, ai sensi dell'art. 12, secondo comma, del decreto legge n. 429 del 1982, in relazione ai redditi dichiarati inesistenti dal Tribunale di Lecce, l'Ufficio provvedesse a rivedere gli accertamenti, ormai definitivi, con conseguente riliquidazione e sgravio delle imposte iscritte in eccedenza.

Non ottenendo alcuna risposta in ordine a tale istanza, il contribuente, con due distinti ricorsi impugnava in via giurisdizionale il relativo silenzio-rifiuto nonchè l'avviso di mora nel frattempo notificatogli.

La Commissione tributaria di primo grado di Lecce, riuniti i ricorsi, riteneva quello contro l'avviso di mora inammissibile perchè proposto per motivi attinenti all'accertamento e, quindi, proponibili solo impugnando quest'ultimo e quello avente ad oggetto il silenzio-rifiuto egualmente inammissibile, sia perchè tale comportamento non rientra tra gli atti impugnabili tassativamente indicati dell'art. 16 del d.P.R. n. 636 del 1972, sia perchè, anche considerandolo come silenzio attinente ad un'istanza di rimborso, mancherebbero comunque le condizioni previste dal sesto comma del citato art. 16 (non trattandosi di un'ipotesi di versamento diretto e risultando regolarmente notificati sia gli avvisi di accertamento che il ruolo).

Contro tale decisione proponeva appello il contribuente osservando che, in base all'art. 12 del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429, la sentenza irrevocabile di proscioglimento pronunciata in ordine ai reati previsti in materia di imposte sui redditi e di imposta sul valore aggiunto ha autorità di cosa giudicata nel processo tributario per quanto concerne i fatti materiali oggetto del giudizio penale, mentre, sempre in riferimento a quest'ultimi, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione, l'ufficio finanziario, se non è scaduto il termine per l'accertamento, può integrare, modificare o revocare gli accertamenti già notificati. Pertanto, il giudicato penale, pur non incidendo in via diretta ed immediata sull'azione amministrativa, costituirebbe pur sempre un nuovo elemento di fatto che comporta la riattivazione della funzione.

Sarebbe infatti assurdo ritenere che gli eventuali effetti di una sentenza penale favorevole al contribuente vengano impediti, in sede fiscale, dalla definitività dell'accertamento.

L'ufficio finanziario, costituitosi in giudizio, rilevava, invece, che la definitività dell'accertamento impedisce, da un lato, di porre in discussione la pretesa tributaria, e, dall'altro, l'applicazione automatica della disposizione di cui all'art. 12, secondo comma, del decreto legge n.429 del 1982. Il potere di integrare, modificare o revocare gli accertamenti già notificati, in base ai fatti materiali che hanno costituito oggetto del giudizio penale, va infatti esercitato per gli accertamenti non ancora definitivi e non per quelli resi invece intangibili ed irrevocabili, per mancata impugnazione nei termini di prescrizione o decadenza.

2.- In tale quadro processuale, sollevando la questione di legittimità costituzionale di cui all'inizio, la Commissione remittente osserva che l'efficacia di giudicato che la sentenza penale irrevocabile riveste nel processo tributario risulterebbe fortemente limitata dal citato articolo 12, secondo comma, che non impone all'amministrazione l'obbligo - bensì le attribuisce soltanto la facoltà - di rivedere quegli accertamenti fondati su fatti sui quali si è formato il giudicato penale.

Al riguardo, infatti, non si può non riconoscere che l'intento del legislatore del 1982 di privilegiare l'accertamento dei "fatti materiali" compiuto in sede penale, facendolo comunque incidere sul processo tributario, indipendentemente dal fattore cronologico di conclusione di quest'ultimo (così come avrebbe riconosciuto la stessa amministrazione nella nota 1/3691 del 23 ottobre 1986, Direzione generale del Contenzioso) trova la sua ratio non solo nel principio di unità della giurisdizione, ma anche nell'esigenza di evitare l'aberrante conseguenza di un'imposizione di tributi fondata su fatti che il giudicato penale ha ritenuto insussistenti.

Rileva peraltro il giudice a quo che, sempre in riferimento all'accertamento relativo all'imposta sui redditi per l'anno 1983, una ulteriore sentenza di assoluzione del contribuente per insussistenza del fatto materiale attribuitogli (simulazione di componenti negativi di reddito, art. 4 lett. f del decreto legge n. 429 del 1982), divenuta irrevocabile dopo la conclusione del giudizio tributario di primo grado, non potrebbe - in base alla normativa vigente - avere alcun rilievo nella pendente fase di appello.

Si dubita pertanto della legittimità costituzionale dell'art.12, secondo comma, del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, nella parte in cui, prevedendo che in base ai fatti materiali accertati con sentenza penale divenuta irrevocabile, gli uffici finanziari debbano procedere ai relativi accertamenti o possano integrare, modificare o revocare quelli già compiuti, non si impone a quest'ultimi l'obbligo di uniformarsi al giudicato penale e si condiziona l'esercizio del potere di revisione al mancato decorso del termine per l'accertamento.

Viene altresì sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, come sostituito dall'art.7 del d.P.R. 3 novembre 1981, n. 739, nella parte in cui non prevede che contro l'avviso di mora ed il silenzio-rifiuto formatosi sull'istanza di rimborso si possa comunque - e cioé a prescindere dai limiti posti dal terzo e sesto comma della disposizione - proporre ricorso alla Commissione tributaria, qualora si intenda far valere l'esistenza o inesistenza di fatti materiali accertata con sentenza penale divenuta irrevocabile.

Ad avviso della Commissione remittente, le norme impugnate, nell'ipotesi in cui l'accertamento tributario sia ormai divenuto definitivo, violerebbero l'art. 3 della Costituzione in quanto porrebbero in identica situazione, sul piano fiscale, il contribuente condannato in sede penale e quello invece assolto. Peraltro, l'impossibilità per quest'ultimo di far valere nel processo tributario - rispetto a qualsiasi atto di natura impositiva - il giudicato sui fatti materiali accertati dal giudice penale violerebbe non solo il diritto di difesa ma anche il principio di cui all'art. 53, obbligandolo, in ultima analisi, a soggiacere ad un prelievo fiscale che prescinde dalla sua effettiva capacità contributiva.

Le disposizioni censurate, poi, risulterebbero altresì lesive della norma di cui all'art. 97 della Costituzione che tende ad assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.

Per quanto attiene alla rilevanza delle questioni così sollevate, osserva il giudice a quo che l'eventuale dichiarazione di illegittimità delle norme impugnate gli consentirebbe di ritenere i ricorsi ammissibili, contrariamente a quanto - con una decisione assolutamente incensurabile alla luce dell'attuale normativa - ha invece ritenuto il giudice di primo grado.

3. - Ha spiegato intervento l'Avvocatura generale dello Stato deducendo anzitutto l'inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza sotto diversi profili. In primo luogo, in quanto prospettate con riferimento ad una situazione di sopravvenienza del giudicato penale che, nella specie, non si sarebbe verificata, risultando la sentenza penale del 24 febbraio 1987 anteriore alla scadenza dei termini per proporre ricorso in Commissione tributaria, e, quella del 20 dicembre 1989 del tutto estranea alla materia del contendere. In secondo luogo, perchè lo stesso giudice a quo definirebbe le questioni non necessarie per la soluzione della controversia e perchè quest'ultima, avendo ad oggetto atti non impugnabili, risulterebbe instaurata in modo del tutto fittizio.

Le questioni sarebbero poi inammissibili anche perchè prospettate in modo alternativo, non essendo chiaro se il giudice a quo richieda una pronuncia additiva della norma processuale di cui all'art. 16, terzo comma, del d.P.R. n. 636 del 1972, o, invece, una pronuncia manipolativa della disposizione relativa all'attività amministrativa di accertamento di cui all'art. 12, secondo comma, del decreto legge n. 429 del 1982.

Nel merito, l'art. 3 della Costituzione non risulterebbe violato, non potendosi ritenere che la posizione di chi ha impugnato l'avviso di accertamento contestando anche i fatti che hanno formato oggetto di un giudizio penale sia omogenea alla posizione di chi non ha impugnato il predetto avviso o non lo abbia impugnato in relazione a quei fatti.

Affermare, poi, la prevalenza del giudicato penale sull'accertamento ormai definitivo significherebbe contraddire il criterio della reciproca separazione tra processo penale, da un lato, e processo ed accertamento tributario, dall'altro. Nè potrebbe invocarsi il criterio di imparzialità dell'amministrazione per consentire agli uffici finanziari di derogare alle norme che prevedono la definitività dell'accertamento per acquiescenza del contribuente. D'altra parte, la facoltà attribuita dal citato art. 12, secondo comma, di rivedere gli accertamenti già notificati consisterebbe nella sola possibilità di verificare se il contenuto della sentenza possa effettivamente riflettersi sull'oggetto dell'accertamento, e non già nella mera discrezionalità di decidere se adeguarsi o meno al giudicato.

L'interveniente esclude, infine, sia la violazione dell'art.24, secondo comma, della Costituzione, in quanto il contribuente che intenda far valere l'autorità del giudicato penale può farlo nei termini della normativa tributaria, che il contrasto con l'art. 53, primo comma, della Costituzione, poichè le disposizioni impugnate non attengono direttamente al dovere sostanziale di contribuire alle spese pubbliche.

Considerato in diritto

1.- É stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art.12, secondo comma, del decreto legge 10 luglio 1982, n.429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516 (Norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria) e dell'art.16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario), come sostituito dall'art. 7 del d.P.R. 3 novembre 1981, n. 739.

L'ordinanza di rimessione muove dalla considerazione che il citato articolo 12 - prevedendo che, in base ai fatti materiali accertati con sentenza penale divenuta irrevocabile (come nel caso oggetto del giudizio a quo), gli uffici finanziari, qualora non sia scaduto il relativo termine, debbano procedere ad accertamenti, o possono integrare, o modificare o revocare quelli già compiuti - non imponga agli uffici l'obbligo di uniformarsi al giudicato penale, e che l'art. 16 non prevede che contro l'avviso di mora ed il silenzio-rifiuto formatosi sull'istanza di rimborso si possa comunque - e cioé a prescindere dai limiti posti dal terzo e sesto comma della disposizione - proporre ricorso alla Commissione tributaria, qualora dinanzi ad essa si intenda far valere l'esistenza o l'inesistenza di fatti materiali accertati con sentenza penale divenuta irrevocabile.

Tali previsioni normative violerebbero, ad avviso del giudice a quo : a) l'art. 3 della Costituzione, ponendo in identica situazione, sul piano fiscale, il contribuente condannato in sede penale e quello invece assolto;

b) gli artt. 24 e 53 della Costituzione, in quanto, impedendo al contribuente assolto in sede penale di far valere nel processo tributario, rispetto a qualsiasi atto di natura impositiva, il giudicato sui fatti materiali accertati dal giudice penale, ne violerebbero il diritto di difesa costituzionalmente garantito, facendolo, in definitiva, soggiacere ad un prelievo fiscale che prescinde dalla sua effettiva capacità contributiva;

c) con l'art. 97 della Costituzione, che tende ad assicurare il buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione.

2. - Vanno preliminarmente disattese le eccezioni di inammissibilità dedotte dall'Avvocatura generale dello Stato.

Con la prima eccezione si sostiene che le questioni sarebbero state sollevate in riferimento ad una situazione di sopravvenienza del giudicato penale, non sussistente nella fattispecie, poichè la sentenza del 24 febbraio 1987 risulta anteriore alla scadenza del termine per ricorrere alla Commissione tributaria, mentre quella del 20 dicembre 1989 è del tutto estranea alla materia del contendere.

In proposito osserva la Corte che la questione non risulta affatto prospettata in relazione all'ipotesi di sopravvenienza del giudicato penale rispetto agli atti impositivi (ed eventuali accenni in tal senso rivestono, nell'ambito dell'ordinanza di rinvio, carattere esclusivamente argomentativo) poichè il suo nucleo centrale attiene, invece, proprio al caso - che ha dato luogo alla controversia - del giudicato penale formatosi anteriormente alla notifica dell'atto di accertamento. Inoltre, è del tutto ininfluente la circostanza che la seconda sentenza del giudice penale, quella del 20 dicembre 1989, sia estranea alla materia del contendere, perchè ciò non sposta i termini della questione la cui rilevanza si fonda esclusivamente sul riferimento alla prima sentenza del giudice penale, quella del 24 febbraio 1987, divenuta irrevocabile in epoca anteriore agli atti impositivi e, quindi, alla scadenza del termine per ricorrere dinanzi alla Commissione tributaria.

2.2. - Anche la seconda eccezione di inammissibilità - argomentata su di una asserita non "necessarietà" delle questioni ai fini della soluzione della controversia, che ha per oggetto atti impositivi non più impugnabili, per cui il giudizio risulterebbe instaurato in modo fittizio - non può essere condivisa. Difatti, come si vedrà meglio in prosieguo nell'esame del merito, le questioni, come prospettate, tendono proprio ad una dichiarazione di illegittimità delle norme impugnate che consenta di far valere, indipendentemente dalla scadenza dei termini di impugnativa dell'accertamento, l'insussistenza - dichiarata con sentenza penale passata in giudicato - dei fatti posti a suo fondamento. Non può perciò ritenersi fittizia una lite che tende alla soluzione di una controversia sull'inesistenza dell'obbligazione tributaria, preclusa da norme della cui legittimità costituzionale si dubiti.

2.3. - Neppure può essere condivisa l'eccezione di inammissibilità dedotta nell'assunto che la questione sarebbe stata sollevata nei confronti dell'art. 16, terzo comma, del d.P.R. n. 636 del 1972, e dell'art.12, secondo comma, del decreto legge n. 429 del 1982, in modo alternativo.

L'assunto dell'alternatività non trova riscontro nell'ordinanza di rinvio che denuncia entrambe le norme per ottenere una pronuncia che, intervenendo su di esse congiuntamente, consenta, sotto il profilo sostanziale e processuale, il sindacato del giudice tributario su atti impositivi difformi dal giudicato penale.

3. - Nel merito la questione di legittimità costituzionale dell'art.12, secondo comma, del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, non è fondata.

La norma impugnata che - come anche sostenuto dalla dottrina prevalente - attraverso l'espressione letterale "può" intende attribuire all'amministrazione il potere di verificare l'eventuale rilevanza fiscale del fatto penalmente accertato, ai fini dei conseguenti provvedimenti, va naturalmente inquadrata per il resto nel sistema normativo vigente, il quale contiene il principio generale, desumibile dall'art. 4 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. E, dell'obbligo dell'amministrazione di conformarsi al giudicato dei tribunali. E poichè la norma denunciata, e cioé il secondo comma dell'art. 12 citato, letto anche alla luce del primo comma, non contiene una espressa deroga a quel principio, deve ritenersi che ad esso è tenuta ad uniformarsi l'amministrazione finanziaria nell'adozione dei provvedimenti previsti dalla disposizione impugnata, onde viene meno il presupposto su cui si fonda il dubbio di costituzionalità.

4.1. - Non fondata è anche la questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, come sostituito dall'art. 7 del d.P.R. 3 novembre 1981, n. 739.

Tale disposizione consente al contribuente di impugnare l'accertamento che egli assuma difforme dai fatti ritenuti nel giudicato penale entro i termini previsti dalle norme vigenti e gli consente altresì di impugnare l'iscrizione in ruolo e l'avviso di mora, anche per vizi attinenti agli atti impositivi in senso proprio (avviso di accertamento, avviso di liquidazione dell'imposta, provvedimento che irroga le sanzioni), qualora tali atti non gli siano stati notificati in precedenza.

Ciò esclude che possano ritenersi violati gli artt. 24 e 53 della Costituzione, congiuntamente invocati sotto questo profilo nell'ordinanza di rinvio, perchè la norma impugnata salvaguarda il diritto di difesa del contribuente e quindi la possibilità di far valere le sue ragioni, anche in relazione al rispetto del principio della capacità contributiva (che, peraltro, non riguarda le norme di carattere processuale), con la previsione di un ricorso avverso l'atto con il quale per la prima volta si è stati messi a conoscenza della pretesa impositiva, entro un non irragionevole termine di decadenza, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (sentt. nn. 372 del 1988, 46 e 214 del 1974, 186 del 1972, 85 del 1973).

Quanto alla lamentata impossibilità di proporre ricorso alla Commissione tributaria avverso il silenzio-rifiuto che la norma impugnata considera rimedio speciale applicabile solo in relazione all'istanza di rimborso, l'invocata estensione di tale rimedio - che ha carattere più ampio di fronte ad altre giurisdizioni - ad istanze diverse, ed in particolare a quelle dirette ad ottenere un riesame dell'atto di accertamento, avrebbe senso solo se si trattasse della sopravvenienza del giudicato penale rispetto ad esso. La questione, invece, attiene ad una controversia relativa alla sopravvenienza, rispetto al giudicato, dell'atto di accertamento, in relazione al quale il diritto di difesa è tutelato dall'attuale sistema di impugnazione dinanzi alla Commissione tributaria.

4.2. - Neppure può ravvisarsi il denunciato contrasto con l'art. 3 della Costituzione (per quanto questo riferimento possa riguardare anche la questione concernente l'art. 16 ora in esame), perchè la possibilità per il contribuente di far valere, con ricorso alla Commissione tributaria, le sue ragioni fondate sul giudicato penale che abbia accertato l'inesistenza di fatti posti a base della pretesa tributaria successivamente avanzata, toglie ogni valore all'assunto, sostenuto dal giudice a quo, secondo cui le norme denunciate porrebbero sullo stesso "piano fiscale, il contribuente condannato in sede penale e quello invece assolto".

4.3.- Quanto infine all'art. 97 della Costituzione - se ed in quanto possa ritenersi che tale parametro sia stato invocato dall'ordinanza di rinvio in relazione alla questione avente per oggetto l'art. 16 citato - osserva la Corte che, una volta ritenuto valevole anche per l'amministrazione finanziaria il principio dell'obbligo di conformarsi al giudicato, ed una volta che al contribuente è data possibilità di far valere entro termini congrui di decadenza le proprie ragioni dinanzi alle Commissioni tributarie, non possono in nessun modo ritenersi violati, come invece si asserisce, i principi di imparzialità e di buon andamento.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art.12, secondo comma, del decreto legge 10 luglio 1982, n.429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516 (Norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria) e dell'art.16, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario), come sostituito dall'art. 7 del d.P.R. 3 novembre 1981, n. 739, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 97 della Costituzione, dalla Commissione tributaria di secondo grado di Lecce con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 05/03/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Vincenzo CAIANIELLO, Redattore

Depositata in cancelleria il 23 marzo del 1992.