Sentenza n. 256 del 2020

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SENTENZA N. 256

 

ANNO 2020

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori:

 

Presidente: Mario Rosario MORELLI;

 

Giudici: Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO’, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 6-quinquies, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, in legge 30 luglio 2010, n. 122, promosso dal Tribunale regionale delle acque pubbliche presso la Corte d’appello di Venezia, nel procedimento vertente tra A2A spa, società incorporante della Edipower spa, e il Comune di Montereale Valcellina con ordinanza dell’11 giugno 2019, iscritta al n. 207 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2019.

 

Visto l’atto di costituzione della società A2A spa;

 

udito nell’udienza pubblica del 3 novembre 2020 il Giudice relatore Nicolò Zanon;

 

udito l’avvocato Federico Novelli per la A2A spa, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020;

 

deliberato nella camera di consiglio del 3 novembre 2020.

 

Ritenuto in fatto

 

1.– Il Tribunale regionale delle acque pubbliche presso la Corte d’appello di Venezia, con ordinanza dell’11 giugno 2019 (r.o. n. 207 del 2019), solleva, in riferimento agli artt. 3 e 136 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 6-quinquies, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, in legge 30 luglio 2010, n. 122.

 

2.– Il giudice rimettente espone, in fatto, che la A2A spa è titolare di una concessione di grande derivazione d’acqua ad uso idroelettrico esercitata nel Comune di Montereale Valcellina. Per gli anni 2006 e 2007 la concessionaria, ai sensi dell’art. 1, comma 486, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006)», ha versato al Comune di Montereale Valcellina, a titolo di canone aggiuntivo unico, la somma complessiva di euro 29.368,80.

 

A seguito della sentenza n. 1 del 2008, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il citato art. 1, comma 486, della legge n. 266 del 2005, A2A spa ha chiesto al Comune di Montereale Valcellina la restituzione della somma indicata.

 

Il pagamento è stato rifiutato in forza dell’art. 15, comma 6-quinquies, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, che autorizza i Comuni che hanno incassato i canoni aggiuntivi unici dai concessionari delle grandi derivazioni idroelettriche, antecedentemente alla citata sentenza di accoglimento, a trattenere in via definitiva dette somme.

 

A2A spa ha, quindi, proposto ricorso innanzi al giudice a quo per ottenere la condanna del Comune di Montereale Valcellina alla restituzione di quanto indebitamente percepito, eccependo l’illegittimità costituzionale della disposizione che autorizza, invece, il trattenimento degli importi versati.

 

Il rimettente ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente.

 

2.1.– In punto di rilevanza, il giudice a quo, dopo aver rigettato – con sentenza non definitiva – l’eccezione di parte resistente con riguardo alla prescrizione della pretesa restitutoria, espone che l’unico ostacolo all’accoglimento della domanda proposta dalla società ricorrente risiede nella disposizione censurata, di cui ricostruisce la genesi.

 

Ricorda, a tal fine, che con il comma 485 dell’art. 1 della legge n. 266 del 2005 il legislatore statale aveva disposto la proroga di dieci anni (in presenza di determinate condizioni) delle concessioni di derivazione idroelettrica in corso alla data di entrata in vigore della legge medesima. Con il successivo comma 486 aveva previsto l’obbligo in capo ai concessionari di versare, entro il 28 febbraio e per quattro anni a decorrere dal 2006, un canone aggiuntivo unico – riferito all’intera durata della concessione e pari ad euro 3.600 per MW di potenza nominale installata – stabilendo che gli introiti fossero ripartiti, in quote diverse, tra lo Stato e i Comuni interessati.

 

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 1 del 2008, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, tra gli altri, dei commi 485, 486, 487 e 488 dell’art. 1 della legge n. 266 del 2005, perché giudicati in contrasto con il riparto di competenze disegnato dall’art. 117, terzo comma, Cost. Infatti, la proroga costituiva disposizione statale di dettaglio, in una materia affidata alla potestà legislativa concorrente («produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia»).

 

Con il d.l. n. 78 del 2010, come convertito, il legislatore statale ha tuttavia nuovamente disposto, all’art. 15, una proroga – questa volta di cinque anni – delle concessioni (comma 6-ter, lettera b), statuendo inoltre che le somme incassate dai Comuni e dallo Stato, versate dai concessionari antecedentemente alla suddetta sentenza, fossero definitivamente trattenute dagli stessi Comuni e dallo Stato (comma 6-quinquies).

 

Sottoposta anche tale nuova proroga delle concessioni allo scrutinio della Corte costituzionale, essa ha dichiarato, con la sentenza n. 205 del 2011, per le stesse ragioni enunciate nella sentenza n. 1 del 2008, l’illegittimità costituzionale, tra gli altri, del comma 6-ter, lettera b), dell’art. 15 del d.l. n. 78 del 2010, come convertito.

 

Successivamente, nell’ambito di un giudizio promosso dalla medesima A2A spa contro lo Stato per la restituzione di somme da quest’ultimo trattenute in forza dell’art. 15, comma 6-quinquies, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, venivano sollevate questioni di legittimità costituzionale – per violazione, tra gli altri, anche degli artt. 3 e 136 Cost. – che la Corte costituzionale dichiarava, con ordinanza n. 88 del 2017, manifestamente inammissibili, per incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento.

 

Il giudice a quo non aveva allora tenuto conto della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)». Quest’ultima, al comma 671 dell’art. 1, preso atto delle indicate sentenze n. 1 del 2008 e n. 205 del 2011, aveva modificato il citato comma 6-quinquies dell’art. 15 del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, sopprimendo la (sola) previsione normativa che autorizzava lo Stato a trattenere i canoni aggiuntivi unici ricevuti prima della sentenza n. 1 del 2008, e tuttavia lasciando in vigore la disposizione che ancora abilita i Comuni a trattenere le somme ad essi destinate.

 

A differenza di quanto non fosse in quella occasione, nell’attuale giudizio a quo la pretesa restitutoria della A2A spa si rivolge contro uno dei Comuni che hanno rifiutato di restituire le somme incassate, essendo a ciò tuttora autorizzati dalla disposizione censurata.

 

2.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente ritiene che l’art. 15, comma 6-quinquies, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, violi, nell’ordine, gli artt. 136 e 3 Cost.

 

2.2.1.– In relazione al primo dei parametri evocati, l’annullamento di «norme dichiarate illegittime» comporterebbe «il diritto dei soggetti che hanno corrisposto importi dovuti» in forza di esse – «come nel caso dei canoni aggiuntivi di cui si tratta nel presente giudizio» – a chiedere la restituzione di quanto pagato, con l’unico limite costituito dalle «situazioni consolidate per essersi il relativo rapporto definitivamente esaurito, in virtù di un giudicato formatosi o del decorso di termini prescrizionali o decadenziali previsti dalla legge».

 

Secondo il rimettente, l’art. 136 Cost. risulta violato «ove una nuova disposizione di legge disponga che una norma dichiarata illegittima conservi la sua efficacia». Ciò accadrebbe anche quando una legge, «per il modo in cui provvede a regolare le fattispecie verificatesi prima della sua entrata in vigore, persegue e raggiunge, anche se indirettamente, lo stesso risultato» (è richiamata la sentenza n. 88 del 1966 della Corte costituzionale). Il parametro costituzionale evocato dal rimettente, infatti, non consentirebbe che, «attraverso una norma emanata dopo la pronuncia di incostituzionalità, vengano “salvati” gli effetti di una disposizione che, in ragione della dichiarazione di illegittimità costituzionale, non è in grado di produrne» (viene citata la sentenza n. 169 del 2015).

 

Tanto premesso, il giudice a quo osserva che la disposizione censurata, nel prevedere che «i comuni non restituiscano ai concessionari i canoni aggiuntivi incassati in virtù di una norma dichiarata incostituzionale», si porrebbe in frontale contrasto con l’art. 136 Cost.: gli effetti prodotti dalla norma dichiarata incostituzionale, infatti, verrebbero fatti salvi, con il risultato di «privare di efficacia, con riguardo alle annualità versate prima del 2008, la sentenza n. 1 del 2008 della Corte Costituzionale».

 

2.2.2.– La disposizione censurata, inoltre, lederebbe l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza.

 

Osserva il rimettente che i commi 485 e 486 dell’art. 1 della legge n. 266 del 2005 ponevano a carico dei concessionari l’obbligo di versare un canone aggiuntivo «quale contropartita per la proroga della scadenza delle concessioni», giustificata in relazione alla necessità di completare il processo di «liberalizzazione e integrazione europea del mercato interno dell’energia elettrica».

 

Dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale di tali disposizioni operata dalla sentenza n. 1 del 2008, l’art. 15 del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, ha disposto una nuova proroga delle concessioni, questa volta per «consentire il rispetto del termine per l’indizione delle gare e garantire un equo indennizzo agli operatori economici per gli investimenti effettuati ai sensi dell’articolo 1, comma 485, della legge n. 266/05», prevedendo, al contempo, l’irripetibilità dei canoni versati per le annualità 2006 e 2007.

 

Anche tale ulteriore proroga è stata, però, dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 205 del 2011, che avrebbe fatto venire meno, a giudizio del rimettente, il rapporto di «corrispettività» tra «il prolungamento della concessione e l’imposizione di un onere economico»: di qui l’asserita irragionevolezza della disposizione.

 

Per il rimettente non potrebbe sostenersi che la norma sia giustificata «per il fatto che i concessionari [avrebbero] in ogni caso goduto della proroga fino all’intervento della Corte Costituzionale», in quanto ciò «potrebbe valere, al più, per i concessionari che hanno effettivamente beneficiato della proroga concessa con la legge n. 266/2005» e non per quelli, come la società ricorrente, «la cui concessione non sarebbe comunque ancora giunta alla sua prevista scadenza temporale prima del 2008» e che, quindi, non hanno «beneficiato in alcun modo della temporanea applicazione della disposizione che prevedeva il prolungamento delle concessioni».

 

3.– Nel giudizio si è costituita la A2A spa, con atto depositato il 9 dicembre 2019.

 

La società ricorrente nel giudizio a quo ripercorre le vicende che vi hanno dato origine e ricostruisce sia la normativa relativa al canone aggiuntivo unico sia le precedenti decisioni assunte su di essa dalla Corte costituzionale, seguendo le orme dell’ordinanza di rimessione e confermando che il Comune di Montereale Valcellina si è rifiutato di restituire gli importi versati per gli anni 2006 e 2007 proprio adducendo, quale ragione impeditiva, la vigenza della disposizione censurata.

 

Anche in punto di non manifesta infondatezza la A2A spa aderisce alle argomentazioni addotte dall’ordinanza di rimessione.

 

Quanto alla prospettata violazione dell’art. 136 Cost., evidenzia che la disposizione censurata consoliderebbe in capo ai soli Comuni (dopo che la legge n. 208 del 2015 ha eliminato il riferimento allo Stato), «nell’ambito di un rapporto di durata come quello concessorio, gli effetti delle attribuzioni patrimoniali eseguite dai concessionari a titolo di canone aggiuntivo quale corrispettivo della proroga di concessione; proroga, tuttavia, dichiarata incostituzionale».

 

In riferimento al supposto contrasto con l’art. 3 Cost., osserva che lo Stato e i Comuni «si trovano nella medesima situazione», in quanto, quale contropartita delle proroghe ex lege della durata delle concessioni, hanno tutti incassato in quota parte il canone aggiuntivo di cui si chiede la restituzione: non vi sarebbe dunque alcuna ragione di esonerare i Comuni dall’obbligo di restituzione, imposto invece allo Stato dall’art. 1, comma 671, della legge n. 208 del 2015.

 

4.– Nel giudizio non è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

5.– In prossimità dell’udienza pubblica, la A2A spa ha depositato memoria, ribadendo le argomentazioni già illustrate nell’atto di costituzione in giudizio.

 

Considerato in diritto

 

1.– Il Tribunale regionale delle acque pubbliche presso la Corte d’appello di Venezia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 6-quinquies, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, in legge 30 luglio 2010, n. 122, ritenendolo in contrasto con gli artt. 3 e 136 della Costituzione.

 

Dopo l’espunzione dal testo delle parole «e dallo Stato» – operata dall’art. 1, comma 671, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)» – la disposizione sospettata d’incostituzionalità così prescrive: «Le somme incassate dai comuni, versate dai concessionari delle grandi derivazioni idroelettriche, antecedentemente alla sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 14-18 gennaio 2008, sono definitivamente trattenute dagli stessi comuni».

 

A giudizio del rimettente, la disposizione censurata violerebbe, in primo luogo, l’art. 136 Cost., perché farebbe salvi gli effetti prodotti da una norma dichiarata costituzionalmente illegittima, con il risultato di «privare di efficacia, con riguardo alle annualità versate prima del 2008, la sentenza n. 1 del 2008 della Corte Costituzionale».

 

In secondo luogo, essa sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, perché risulterebbe imposta ai concessionari di grandi derivazioni di acqua per uso idroelettrico una prestazione patrimoniale ingiustificata, essendo venuta meno la “controprestazione” a quella funzionalmente collegata, ovvero la proroga della concessione in essere.

 

2.– Per meglio comprendere il tenore delle censure proposte, occorre ricordare contenuto ed effetti della sentenza n. 1 del 2008 di questa Corte e considerare la successiva evoluzione normativa.

 

Il giudicato costituzionale di cui il rimettente asserisce l’elusione ha fondamento nella declaratoria d’illegittimità costituzionale di varie disposizioni contenute in diversi commi dell’art. 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006)», aventi ad oggetto un’articolata disciplina delle concessioni di grandi derivazioni di acqua a scopo idroelettrico.

 

Tra quelle allora impugnate da alcune Regioni, in particolare, questa Corte aveva annullato la disposizione che prevedeva una proroga di dieci anni delle concessioni esistenti alla data di entrata in vigore della legge n. 266 del 2005 (art. 1, comma 485).

 

Il citato comma 485 era stato ritenuto – una volta ricondotto alla competenza concorrente in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. – lesivo delle competenze regionali, in quanto norma di dettaglio.

 

Dalla illegittimità costituzionale del comma 485 era stata fatta altresì discendere quella di tutte le residue previsioni recanti la dettagliata disciplina della proroga in questione e, in particolare, del successivo comma 486.

 

Quest’ultimo aveva introdotto a carico dei concessionari un canone aggiuntivo unico, da versare «entro il 28 febbraio per quattro anni, a decorrere dal 2006», ma «riferito all’intera durata della concessione», e ne aveva ripartito il gettito per cinquanta milioni di euro in favore dello Stato e per i restanti dieci milioni a beneficio dei Comuni interessati.

 

Questa Corte aveva ritenuto che tale versamento fosse da considerare «quale corrispettivo della proroga» (in tali termini si esprimeva la sentenza n. 1 del 2008: punto 8.6. del Considerato in diritto).

 

Con il d.l. n. 78 del 2010, come convertito, il legislatore statale aveva provveduto ad una nuova proroga delle concessioni, questa volta per la durata di cinque anni (art. 15, comma 6-ter, lettera b), estensibili tuttavia a dodici anni nel caso di apertura delle società concessionarie a compartecipazioni provinciali (art. 15, comma 6-ter, lettera d).

 

Contemporaneamente, con la norma oggi censurata, aveva disposto che le somme incassate dai Comuni e dallo Stato, versate dai concessionari antecedentemente alla sentenza n. 1 del 2008, fossero definitivamente trattenute dagli stessi Comuni e dallo Stato.

 

Sottoposta anche tale nuova proroga delle concessioni al vaglio di legittimità costituzionale, questa Corte l’ha dichiarata incostituzionale, con la sentenza n. 205 del 2011, per le medesime ragioni già poste a fondamento della precedente pronuncia.

 

Successivamente, la legge n. 208 del 2015, al comma 671 dell’art. 1, preso atto delle sentenze n. 1 del 2008 e n. 205 del 2011 di questa Corte, ha modificato il comma 6-quinquies dell’art. 15 del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, sopprimendo la sola previsione normativa che autorizzava lo Stato a trattenere i canoni aggiuntivi unici ricevuti prima della sentenza n. 1 del 2008, ma lasciando in vigore la disposizione censurata, che tuttora abilita i Comuni a trattenere le somme ad essi versate in forza dell’art. 1, comma 486, della legge n. 266 del 2005.

 

3.– Tutto ciò premesso, emerge, in primo luogo, la plausibilità della motivazione sulla rilevanza delle questioni proposte.

 

Per decidere sulla domanda della società ricorrente, il giudice a quo deve effettivamente fare applicazione della disposizione censurata, che ancora autorizza i (soli) Comuni a trattenere le somme loro versate negli anni 2006 e 2007 a titolo di canone aggiuntivo, imposto dal comma 486 dell’art. 1 della legge n. 266 del 2005, poi dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 1 del 2008.

 

4.– Passando al merito, deve essere esaminata per prima la questione sollevata in riferimento all’art. 136 Cost. Essa riveste infatti carattere di priorità logico-giuridica (sentenze n. 231 del 2020 e n. 57 del 2019), attenendo «all’esercizio stesso del potere legislativo» (sentenze n. 245 del 2012 e n. 350 del 2010, richiamate dalla sentenza n. 5 del 2017).

 

5.– La questione è fondata.

 

5.1.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 57 del 2019, n. 101 del 2018, n. 250 e n. 5 del 2017 e n. 350 del 2010), la violazione del giudicato costituzionale sussiste non solo laddove il legislatore intenda direttamente ripristinare o preservare l’efficacia di una norma già dichiarata incostituzionale, ma ogniqualvolta una disposizione di legge intenda mantenere in vita o ripristinare, sia pure indirettamente, «gli effetti [della] struttura normativa» (sentenza n. 72 del 2013) che aveva formato oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale. Pertanto, il giudicato costituzionale è violato non solo quando è adottata una disposizione che costituisce una «mera riproduzione» (sentenze n. 73 del 2013 e n. 245 del 2012) di quella già ritenuta lesiva della Costituzione, ma anche quando la nuova disciplina mira a perseguire e raggiungere, anche se indirettamente, esiti corrispondenti (sentenze n. 231 del 2020, n. 231 del 2017, n. 73 del 2013, n. 245 del 2012, n. 922 del 1988, n. 223 del 1983 e n. 88 del 1966).

 

La disposizione censurata mostra i caratteri descritti dalle definizioni appena richiamate.

 

Come si è detto, l’esito normativo ritenuto costituzionalmente illegittimo dalla sentenza n. 1 del 2008 – la cui riproduzione è dunque preclusa al legislatore – consisteva non solo nella previsione di una proroga (decennale) delle concessioni di grande derivazione d’acqua, ma altresì nella introduzione a carico dei concessionari di un canone aggiuntivo, quale corrispettivo della proroga.

 

Il d.l. n. 78 del 2010, come convertito, ha riproposto la proroga, sebbene per una durata inferiore (cinque anni, estensibili per altri sette anni) e senza prevedere espressamente l’imposizione di un canone aggiuntivo, ma autorizzando – con la versione originaria della disposizione censurata – il trattenimento delle somme a tale titolo versate in precedenza (ai Comuni e allo Stato) dai medesimi concessionari.

 

Dunque, «la sostanza della volontà dello stesso legislatore» (così si esprime la sentenza n. 5 del 2017) è nel senso di raggiungere, con la nuova disciplina, un risultato corrispondente a quello dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 1 del 2008.

 

Nel contesto di una nuova proroga delle concessioni (poi ritenuta a sua volta non conforme a Costituzione con la sentenza n. 205 del 2011), la disposizione censurata mira esattamente a consolidare la “situazione normativa” derivante dalla disciplina oggetto dello scrutinio svolto dalla sentenza n. 1 del 2008: essa autorizza infatti i Comuni (e nella versione originaria, anteriore alla modifica operata con legge n. 208 del 2015, anche lo Stato) a trattenere proprio le somme versate come corrispettivo per la precedente proroga, in forza del comma 486 dell’art. 1 della legge n. 266 del 2005 dichiarato a sua volta incostituzionale, in tal modo ripristinando gli effetti della norma caducata.

 

Come si è detto, l’art. 136 Cost. risulta leso, del resto, non solo quando sia espressamente disposto che la norma dichiarata costituzionalmente illegittima conservi la propria efficacia, ma anche quando una disposizione di legge, per il modo con cui provvede a regolare le fattispecie verificatesi prima della sua entrata in vigore, persegua e raggiunga – come appunto nella specie – «anche se indirettamente, lo stesso risultato» (sentenza n. 169 del 2015, che richiama la sentenza n. 88 del 1966).

 

Se il legislatore resta titolare del potere di disciplinare, con un nuovo atto, la stessa materia incisa da una sentenza di accoglimento di questa Corte, è però «senz’altro da escludere che possa legittimamente farlo – come avvenuto nella specie – limitandosi a “salvare”, e cioè a “mantenere in vita”, o a ripristinare gli effetti prodotti da disposizioni che, in ragione della dichiarazione di illegittimità costituzionale, non sono più in grado di produrne» (così, ancora, sentenza n. 169 del 2015).

 

5.2.– A nulla varrebbe sostenere che, di fatto, i concessionari potrebbero effettivamente avere goduto, almeno per gli anni 2006 e 2007, dei beni oggetto di concessione oltre la naturale scadenza di quest’ultima, sicché il versamento di una somma troverebbe comunque giustificazione in un vantaggio di cui avrebbero beneficiato.

 

Premesso che il canone aggiuntivo in questione si configurava prevalentemente come corrispettivo del beneficio della proroga, il giudice a quo, come la stessa parte privata, sia pur con riferimento al solo rapporto concessorio oggetto del giudizio principale, attestano che la scadenza originaria della concessione rilasciata alla società A2A spa era successiva alla sentenza n. 1 del 2008.

 

Più in generale, va comunque segnalato che dalla relazione tecnica che ha accompagnato l’approvazione della legge di stabilità per il 2016 (legge n. 208 del 2015, il cui comma 671 dell’art. 1 ha modificato la disposizione censurata) risulta che «le prime scadenze delle concessioni erano fissate al 2010 e, quindi, nessuno degli operatori che aveva versato il canone aggiuntivo aveva potuto beneficiare della proroga» disposta dall’art. 1, comma 485, della legge n. 266 del 2005.

 

6.– Va dunque dichiarata, per violazione dell’art. 136 Cost., l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 6-quinquies, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito.

 

L’accoglimento di tale questione comporta l’assorbimento di quella sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 6-quinquies, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, in legge 30 luglio 2010, n. 122.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2020.

 

F.to:

 

Mario Rosario MORELLI, Presidente

 

Nicolò ZANON, Redattore

 

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

 

Depositata in Cancelleria l'1 dicembre 2020.