SENTENZA N. 71
ANNO 2020
Commento alla decisione di
Guido Saleppichi
per g.c. della Rivista AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Marta CARTABIA;
Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 53 della legge della Regione Calabria 29 dicembre 2010, n. 34, «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e procedurale (Collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2011). Articolo 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002», promosso dalla Corte d’appello di Roma sezione specializzata degli usi civici nel procedimento vertente tra Lamezia Europa spa e il Comune di Maida e altra, con ordinanza del 15 febbraio 2019, iscritta al n. 107 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 2020 il Giudice relatore Aldo Carosi;
deliberato nella camera di consiglio del 12 febbraio 2020.
Ritenuto in fatto
1.– La Corte d’appello di Roma, sezione specializzata degli usi civici, con ordinanza del 15 febbraio 2019, iscritta al n. 107 del registro ordinanze 2019, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 53 della legge della Regione Calabria 29 dicembre 2010, n. 34, «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e procedurale (Collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2011). Articolo 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002», per violazione degli artt. 3, 9, 42 e 117, secondo comma, lettera s), (recte:lettera l), della Costituzione.
Il giudice rimettente premette di essere investito del reclamo, ai sensi dell’art. 32 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751), avverso la sentenza del Commissario per la liquidazione degli usi civici della Calabria del 27 ottobre 2017, n. 5, che aveva dichiarato terre gravate da usi civici e appartenenti al demanio universale del Comune di Maida determinati fondi, individuati nel catasto terreni del Comune di Lamezia Terre, Località Sant’Eufemia.
Già in precedenza la medesima Corte d’appello si era occupata della qualitas di detti terreni, allorché, nell’esaminare un analogo reclamo, aveva rinviato la causa al giudice di primo grado affinché venisse disposto l’espletamento di un’ulteriore consulenza tecnica d’ufficio per accertare se i terreni in questione rientrassero o meno tra le aree di sviluppo industriale di cui all’art. 20 della legge della Regione Calabria 24 dicembre 2001, n. 38 (Nuovo regime giuridico dei Consorzi per le Aree, i Nuclei e le Zone di Sviluppo Industriale), e se, comunque, fossero intervenuti atti di esproprio. Accertati sia l’appartenenza dei terreni alle aree di sviluppo industriale che il mancato esperimento delle procedure espropriative, il Commissario per la liquidazione degli usi civici della Calabria aveva pronunciato la predetta sentenza, oggetto di reclamo.
La disposizione censurata prevede che i diritti di uso civico, di cui all’art. 2, comma 1, della legge della Regione Calabria 21 agosto 2007, n. 18 (Norme in materia di usi civici), sono da ritenersi cessati quando insistano sulle aree di cui all’art. 20 della legge reg. Calabria n. 38 del 2001, vale a dire sulle aree di sviluppo industriale.
In punto di rilevanza, il giudice rimettente evidenzia che, essendo preclusa, alla luce del chiaro tenore letterale, una diversa interpretazione della disposizione in esame, dovrebbe dichiarare l’avvenuta trasformazione del bene demaniale in allodiale e la conseguente estinzione dei diritti di uso civico gravanti sui terreni oggetto di causa. Non sarebbero difatti necessari a tale fine né ulteriori atti amministrativi ‒ quale l’espropriazione per pubblica utilità in favore dei Consorzi per le aree e i nuclei di sviluppo industriale ‒ diversamente da quanto ritenuto dal Commissario, né ulteriori accertamenti tecnici.
In punto di non manifesta infondatezza la Corte d’appello di Roma ritiene che la sottrazione e l’affrancamento di terreni gravati da usi civici potrebbero avvenire solo con le formalità e nei limiti previsti dalla legge n. 1766 del 1927 e dal R. decreto 26 febbraio 1928, n. 332 (Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici nel Regno).
E infatti con il decreto del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1972, n. 11 (Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di agricoltura e foreste, di caccia e di pesca nelle acque interne e dei relativi personali ed uffici), e con il decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382), sarebbero state trasferite dallo Stato alle Regioni le sole funzioni amministrative connesse alle ipotesi di liquidazione degli usi civici, in materia «agricoltura e foreste», ma non la stessa potestà di emanare norme unilaterali derogatorie di quelle statali, attraverso l’introduzione di nuove ipotesi di cessazione degli usi civici, non previste dalla normativa statale.
Dovrebbe, in definitiva, essere ribadita la spettanza alla competenza esclusiva statale (sono citate le sentenze di questa Corte n. 178 e n. 113 del 2018) della “sclassificazione” demaniale dei beni di uso civico, con conseguente illegittimità delle disposizioni che prevedano decisioni unilaterali del legislatore regionale, suscettibili di pregiudicare la pianificazione concertata Stato-Regione in materia paesistico-ambientale.
L’art. 53 della legge reg. Calabria n. 34 del 2010 sarebbe quindi in contrasto, innanzitutto, con l’art. 117, secondo comma, lettera s) (recte:lettera l), Cost., in quanto il regime dominicale degli usi civici appartiene alla materia «ordinamento civile» di competenza esclusiva dello Stato. Esso sarebbe, inoltre, lesivo dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza espressi dall’art. 3 Cost., «stante l’esigenza di garantire l’interesse superprimario dello Stato-Amministrazione e dello Stato-Comunità nel conservare gli usi civici e l’integrità dello stato dei luoghi (qui trattasi di una striscia di terreno, limitrofa al mare) a fronte di irreversibili trasformazioni industriali del territorio che conseguirebbero alla unilaterale sdemanializzazione dell’area, a beneficio esclusivo dei meri detentori privati di aree civiche».
Sarebbe altresì violato l’art. 9 Cost., in considerazione del forte collegamento funzionale tra la tutela dell’ambiente da un lato e la pianificazione paesaggistica e territoriale dall’altro, esercitate di concerto da Stato e Regione, secondo quanto stabilito da questa Corte con la sentenza n. 210 del 2014, al fine di assicurare un impiego del bene a beneficio della collettività locale che ne rimane intestataria.
La cessazione degli usi civici attraverso la “sclassificazione” prevista dalla censurata legge calabrese colliderebbe, quindi, con la regola inderogabile che attribuisce alla collettività locale il potere di controllare lo stato dei luoghi e di verificare il fatto che la nuova utilizzazione mantenga nel tempo caratteri conformi alla originaria destinazione dei beni, suscettibile di cambiare solo per nuove finalità pubbliche, comunque di concerto tra Stato e Regione.
Infine, l’art. 53 della legge reg. Calabria n. 34 del 2010 contrasterebbe anche con l’art. 42 Cost., in quanto farebbe venire meno l’ordinario regime di proprietà e di «accessibilità diffusa dei beni gravati ope legis da usi civici».
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Roma, sezione specializzata degli usi civici, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 53 della legge della Regione Calabria 29 dicembre 2010, n. 34, «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e procedurale (Collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2011). Articolo 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002», in riferimento agli artt. 3, 9, 42 e 117, secondo comma, lettera s) (recte: lettera l), della Costituzione.
L’art. 53 della legge reg. Calabria n. 34 del 2010 prevede che i diritti di uso civico sono da ritenersi cessati, ai sensi dell’art. 24, comma 1, della legge della Regione Calabria 1° agosto 2007, n. 18 (Norme in materia di usi civici), quando insistano sulle aree di sviluppo industriale, disciplinate dall’art. 20 della legge della Regione Calabria 24 dicembre 2001, n. 38 (Nuovo regime giuridico dei Consorzi per le Aree, i Nuclei e le Zone di Sviluppo Industriale).
Secondo la rimettente, la norma censurata violerebbe, innanzitutto, l’art. 117, secondo comma, lettera s), (recte: lettera l), Cost., in quanto il regime dominicale degli usi civici apparterrebbe alla materia «ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato.
Essa sarebbe inoltre lesiva dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza espressi dall’art. 3 Cost., «stante l’esigenza di garantire l’interesse superprimario dello Stato-Amministrazione e dello Stato-Comunità nel conservare gli usi civici e l’integrità dello stato dei luoghi (qui trattasi di una striscia di terreno, limitrofa al mare) a fronte di irreversibili trasformazioni industriali del territorio che conseguirebbero alla unilaterale sdemanializzazione dell’area, a beneficio esclusivo dei meri detentori privati di aree civiche».
Risulterebbe altresì violato l’art. 9 Cost. in considerazione del forte collegamento funzionale tra la tutela dell’ambiente e la pianificazione paesaggistica e territoriale, esercitate di concerto da Stato e Regione, secondo quanto stabilito da questa Corte con la sentenza n. 210 del 2014, al fine di assicurare un impiego del bene a beneficio della collettività locale che ne rimane intestataria e titolare. La cessazione degli usi civici attraverso la “sclassificazione” prevista dalla legge calabrese colliderebbe, infatti, con la regola inderogabile che attribuisce alla collettività locale il potere di controllare lo stato dei luoghi e di verificare il fatto che la nuova utilizzazione mantenga nel tempo caratteri conformi all’originaria destinazione dei beni, suscettibile di cambiare solo per nuove finalità pubbliche, comunque secondo determinazioni assunte di concerto da Stato e Regione.
Infine, l’art. 53 della legge reg. Calabria n. 34 del 2010 contrasterebbe anche con l’art. 42 Cost., in quanto farebbe venire meno l’ordinario regime di proprietà e di «accessibilità diffusa dei beni gravati ope legis da usi civici».
La sezione specializzata degli usi civici della Corte d’Appello di Roma ‒ ritualmente adita in virtù dell’art. 32 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751) – deduce che la chiara e inequivocabile formulazione dell’art. 53 della legge reg. Calabria n. 34 del 2010 – il quale dispone la cessazione degli usi civici quando questi insistono sulle terre destinate alla realizzazione dei piani di sviluppo industriale – non consente un’interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione. Da ciò deriverebbe che, una volta accertata l’appartenenza, attraverso l’espletata consulenza tecnica d’ufficio, dei terreni in questione alle aree di sviluppo industriale, dovrebbe dichiararsi l’avvenuta trasformazione del bene demaniale in allodiale e la conseguente estinzione dei diritti di uso civico gravanti sui terreni oggetto di causa, come, appunto, previsto dalla legge regionale censurata. Diversamente da quanto ritenuto dal Commissario, non sarebbero necessari, al riguardo, né ulteriori atti amministrativi ‒ quale l’espropriazione per pubblica utilità in favore dei Consorzi per le aree e i nuclei di sviluppo industriale ‒ né ulteriori accertamenti tecnici.
2.– In punto di rilevanza, la prospettazione del giudice rimettente deve essere condivisa, dal momento che la cessazione dell’uso civico – che la norma denunciata ricollega alla sola insistenza del bene sull’area ricompresa nel piano in questione – appare avere priorità logico-giuridica rispetto a un eventuale decreto d’esproprio. Quest’ultimo, infatti, secondo la consolidata giurisprudenza del giudice della nomofilachia sarebbe nullo perché in contrasto con la natura demaniale del bene (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 30 giugno 1999, n. 375).
3.– Le questioni sollevate dal giudice rimettente toccano temi di particolare complessità, investendo delicate questioni inerenti ai rapporti tra tutela paesistico-ambientale, gestione dell’assetto del territorio e diritti afferenti a particolari regimi di proprietà, disciplinati in relazione di specialità rispetto ai principi generali del codice civile.
Prima di esaminare il merito delle censure si rende pertanto opportuna una ricognizione dello stato della legislazione e della giurisprudenza in materia. Detta ricognizione può essere sintetizzata in una serie di considerazioni legate da un rapporto di interdipendenza e di pregiudizialità così articolato:
a) rapporto tra tutela paesistico-ambientale e garanzie di natura civilistica a favore delle collettività titolari di beni civici;
b) regime e limiti della sclassificazione e dei mutamenti di destinazione dei suddetti assetti fondiari collettivi;
c) rapporti tra soggetti titolari della pianificazione paesistico-ambientale e soggetti titolari di quella urbanistica;
d) caratteri delle tutele in questione in relazione alla natura mutevole e dinamica dei canoni di gestione del territorio.
3.1.– Quanto al rapporto tra tutela paesistico-ambientale e garanzie di natura civilistica a favore delle collettività titolari di beni civici, è da sottolineare come questa Corte avesse definito, già in tempi risalenti, il sintagma “usi civici” come una «“espressione di comodo” […] che comprende istituti e discipline varie dell’intero territorio [nazionale]» (sentenza n. 142 del 1972). Oggi sinonimo di tale espressione può essere considerato quello, ascrivibile alla dottrina contemporanea, di “assetti fondiari collettivi”, cioè regimi di proprietà diversi da quella allodiale, aventi quale comun denominatore – all’interno di singole peculiarità generate dai diversi contesti storici – l’utilizzazione collettiva di alcuni beni immobili.
Tali beni, la cui rilevanza pubblicistica risale, nella maggior parte dei casi, a epoca anteriore all’unità d’Italia, sono stati rafforzati in tale carattere a partire dal 1985, quando furono inseriti tra le zone di particolare interesse paesistico-ambientale. Infatti, il decreto- legge 27 giugno 1985, n. 312 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1985, n. 431, aveva inserito nella disciplina paesistico-ambientale le situazioni dominicali rientranti nell’onnicomprensiva locuzione “usi civici”. Questa Corte aveva individuato la ratio di tale evoluzione legislativa nel fatto che «l’integrità ambientale è un bene unitario, che può risultare compromesso anche da interventi minori e che deve, pertanto, essere salvaguardato nella sua interezza (v., da ultimo, sentenza n. 247 del 1997 e ordinanze n. 68 e n. 158 del 1998), con il più ampio coinvolgimento di aree allo stato naturale o che hanno subito minori alterazioni, ad opera dell’uomo, rispetto alle destinazioni tradizionali, in modo da tutelarle, imponendo […] non un divieto assoluto, ma una pianificazione e, per gli interventi innovativi, un regime di valutazione e autorizzazione rimessa alla autorità preposta al vincolo» (ordinanza n. 316 del 1998).
Ciò rispondeva – secondo questa Corte – a una scelta, tutt’altro che irrazionale, diretta a salvaguardare vaste porzioni di territorio, non solo secondo aspetti tipicamente paesistici ovvero secondo ubicazioni o aspetti morfologici, «ma anche secondo lo speciale regime giuridico: regime della loro appartenenza a determinati soggetti pubblici […], caratterizzati da natura associativa e da gestione di domini collettivi e dall’amministrazione di terre demaniali di uso civico […] con attività rivolta alla cura di interessi generali senza connotati imprenditoriali [… cosicché] le zone vincolate in ragione dell’appartenenza a università agrarie o dell’assoggettamento a usi civici comprendono vaste aree con destinazione a pascolo naturale o a bosco, o agricole tradizionali, e risalenti nel tempo nelle diverse regioni in relazione agli obblighi gravanti e alla particolare sensibilità alla conservazione da parte delle collettività o comunità interessate, in modo da consentire il mantenimento di una serie di porzioni omogenee del territorio, accomunate da speciale regime o partecipazione collettiva o comunitaria, e caratterizzate da una tendenza alla conservazione dell’ambiente naturale o tradizionale, come patrimonio dell’uomo e della società in cui vive» (ordinanza n. 316 del 1998).
La competenza statale nella materia trova attualmente la sua espressione nell’art. 142 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), «le cui disposizioni fondamentali questa Corte ha qualificato come norme di grande riforma economico-sociale (sentenze n. 207 e n. 66 del 2012, n. 226 e n. 164 del 2009 e n. 51 del 2006): esse si impongono pertanto al rispetto del legislatore [regionale]» (sentenza n. 210 del 2014).
Dunque, l’evoluzione dell’ordinamento giuridico in tema di assetti fondiari collettivi ha fatto sì che la tutela paesistico-ambientale abbia incorporato sia il regime giuridico degli stessi, sia i beni in quanto gestiti in conformità a siffatto regime.
In tale prospettiva questa Corte ha riconosciuto la legittimazione di alcuni utenti-condomini a rappresentare gli interessi alla conservazione del regime giuridico anche in opposizione all’ente esponenziale di tali patrimoni (sentenza n. 113 del 2018).
Si ebbe ad affermare in quell’occasione che gli stessi condomini hanno facoltà di promuovere provvedimenti petitori e possessori, uti singuli et cives, a beneficio della collettività cui appartengono, sicché, nell’ambito della più generale tutela paesistico-ambientale, «[l]a descritta situazione di diritto sostanziale comporta che l’eventuale esito positivo dell’azione vada a beneficio della generalità dei condomini» (sentenza n. 113 del 2018).
Tornando quindi al rapporto tra tutela paesistico-ambientale e salvaguardia del regime dei beni d’uso civico, si può concludere che la prima incorpora ed è consustanziale alla seconda, sicché l’esercizio di quest’ultima deve operare in assoluta sinergia con la tutela paesistico-ambientale.
3.2.– Quanto al regime e ai limiti della sclassificazione e dei mutamenti di destinazione dei suddetti assetti fondiari collettivi, è innanzitutto da verificare se sia esatto il richiamo del giudice a quo alla legge n. 1766 del 1927 quale norma interposta oppure se lo stesso avrebbe dovuto misurarsi anche con la recente legge 20 novembre 2017, n. 168 (Norme in materia di domini collettivi), al fine di individuare il particolare regime civilistico dei beni di natura civica.
La prospettiva della rimettente deve essere condivisa, poiché la legge n. 168 del 2017, oltre che riferirsi ai soli domini collettivi, nulla modifica in ordine alle tipologie di sclassificazione previste dalla legge n. 1766 del 1927 e dal regolamento attuativo approvato con R. decreto 26 febbraio 1928, n. 332 (Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici nel Regno).
Infatti, la menzionata legge n. 168 del 2017 riguarda una particolare specie di assetti fondiari, quale quella dei domini collettivi, che non esaurisce certamente la variegata tipologia di beni che assumono indefettibile valenza pubblicistica, già riconosciuta in epoca risalente dalla giurisprudenza di questa Corte e della Corte di cassazione e notevolmente rafforzata dall’espresso richiamo del d.l. n. 312 del 1985, come convertito, prima, e, poi, dell’art. 142, comma 1, lettera h), del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Sull’inderogabile valenza pubblicistica del bene collettivo non incide certo la facoltà prevista dall’art. 1, comma 2, della legge n. 168 del 2017, per gli enti esponenziali delle collettività titolari di domini collettivi, di assumere personalità giuridica di diritto privato. È evidente che tale facoltà attiene unicamente alle modalità di gestione di tali beni, che può essere costituzionalmente legittima solo nel perimetro fissato dal particolare regime giuridico dell’assetto fondiario, dall’uso paesisticamente coerente dello stesso e dall’impossibilità di escludere da tale particolare societas il godimento del bene collettivo spettante a ciascun membro della collettività. E, quanto al particolare regime giuridico, è da sottolineare come, anche per i domini collettivi, l’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017 ribadisca che «[i]l regime giuridico dei beni di cui al comma 1 resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale».
3.3.– Quanto ai rapporti tra soggetti titolari della pianificazione paesistico-ambientale e i titolari di quella urbanistica è da escludere che «nell’intero arco temporale di vigenza del Titolo V, Parte II, della Costituzione – sia nella versione antecedente alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), sia in quella successiva – e, quindi, neppure a seguito dei d.P.R. n. 11 del 1972 e n. 616 del 1977 […], il regime civilistico dei beni civici sia mai passato nella sfera di competenza delle Regioni. Infatti, la materia “agricoltura e foreste” di cui al previgente art. 117 Cost., che giustificava il trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni e l’inserimento degli usi civici nei relativi statuti, mai avrebbe potuto comprendere la disciplina della titolarità e dell’esercizio di diritti dominicali sulle terre civiche» (sentenza n. 113 del 2018).
Peraltro, già l’ordinanza n. 316 del 1998 di questa Corte aveva chiarito inequivocabilmente che – nell’ambito della pianificazione del territorio – la valutazione dell’autorità preposta al vincolo è propedeutica alla pianificazione urbanistica.
In definitiva – quando si verte in tema di pianificazione paesistico-ambientale e dell’assetto del territorio – l’eventuale coinvolgimento di assetti fondiari collettivi deve prioritariamente passare attraverso un rigoroso esame di compatibilità con le esigenze di natura paesistico-ambientale di competenza statale e con i concreti interessi della collettività locale che ne è titolare.
3.4.– Con riguardo alla compatibilità delle tutele in questione con la natura mutevole e dinamica dei canoni di gestione del territorio, è di palmare evidenza che esse non possono consistere in una mera conservazione statica, ma devono tener conto dell’evoluzione ecosistemica, di quella dell’economia agricola e delle nuove conoscenze nella materia ambientale, nell’agricoltura e nelle tecniche silvo-pastorali.
Con riguardo a tale problematica, si rinvia a quanto successivamente argomentato circa la natura dinamica della tutela degli assetti fondiari collettivi.
4.– Venendo al merito, le censure proposte dal giudice a quo sono fondate in riferimento agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera l), Cost.
4.1.– Quanto all’art. 9 Cost., come già illustrato, l’art. 53 della legge reg. Calabria n. 34 del 2010 stabilisce la cessazione dei diritti di uso civico, quando questi insistano sulle aree e sui nuclei di sviluppo industriale individuati dai relativi piani regolatori, ai sensi dell’art. 20 della legge reg. Calabria n. 38 del 2001.
Non è qui in dubbio che il piano di sviluppo industriale – che si avvantaggerebbe dall’anomala estinzione prevista dalla disposizione censurata – si caratterizzi per effetti conformativi immediati nei confronti dei privati proprietari delle aree oggetto delle relative previsioni, potendo esso contenere prescrizioni immediatamente cogenti e vincoli preordinati all’espropriazione dei terreni, ove sia prevista la realizzazione di infrastrutture o di immobili industriali, dei quali comunque si ritenga necessaria l’apprensione coattiva. Così come non è in discussione che dall’adozione dei piani di tale natura derivi l’obbligo per i Comuni di applicare le misure di salvaguardia.
Quel che osta all’applicazione di tale schema normativo è la pregiudizialità della valutazione in ordine all’eventuale mutamento di destinazione dell’area agro-silvo-pastorale gravata da usi civici rispetto alla sua inclusione nel piano di sviluppo industriale. È stato già affermato che «per una efficace tutela del paesaggio e dell’ambiente non è sufficiente un intervento successivo alla soppressione degli usi civici: occorre al contrario garantire che lo Stato possa far valere gli interessi di cui è portatore sin nella formazione del piano straordinario di accertamento demaniale, concorrendo a verificare se sussistano o meno le condizioni per la loro stessa conservazione, ferme restando le regole nazionali inerenti al loro regime giuridico e alle relative forme di tutela» (sentenza n. 210 del 2014).
Al riguardo, questa Corte ha successivamente ribadito «aspetti di indefettibile sovrapposizione funzionale e strutturale tra la tutela paesistico-ambientale e quella dominicale dei beni di uso civico. Il fatto che le peculiari tipologie d’utilizzo dei beni d’uso civico e il relativo regime giuridico siano stati riconosciuti dal legislatore in materia ambientale come meritevoli di tutela per la realizzazione di interessi generali, ulteriori e diversi rispetto a quelli che avevano favorito la conservazione incontaminata di questi patrimoni collettivi, determina un meccanismo di garanzia integrato e reciproco per cui l’utilizzazione non intensiva del patrimonio civico e il regime di imprescrittibilità e inalienabilità sono contemporaneamente causa ed effetto della peculiare fattispecie che il legislatore ambientale intende preservare, precludendo soluzioni che sottraggano tale patrimonio alla sua naturale vocazione» (sentenza n. 113 del 2018).
In definitiva – anche alla luce di quanto più ampiamente considerato al punto 3.3. – l’eventuale coinvolgimento di assetti fondiari collettivi nella pianificazione urbanistica deve prioritariamente passare attraverso un rigoroso esame di compatibilità con le esigenze di natura paesistico-ambientale di competenza statale e con i concreti interessi della collettività locale che ne è titolare.
4.2.– Con riguardo alla censura proposta in riferimento all’art. 117, secondo comma, Cost., occorre innanzitutto chiarire che l’indicazione della lettera s) del secondo comma dell’art. 117 Cost. quale parametro violato è riconducibile a un errore materiale e non incide sul thema decidendum, per la cui individuazione occorre far riferimento alla motivazione dell’atto di promovimento (ex plurimis, sentenze n. 122 e n. 97 del 2019), nel quale si fa menzione della lesione della materia «ordinamento civile».
Se è innegabile – come in precedenza ampiamente rammentato – che la determinazione del regime giuridico dei beni immobili appartiene alla materia dell’ordinamento civile, deve concludersi che la disposizione censurata, nel disporre la descritta cessazione-estinzione, introduce, attraverso l’invasione della competenza statale, una non consentita compressione della proprietà collettiva.
Un bene gravato da uso civico non può essere oggetto di sclassificazione al di fuori delle ipotesi tassative previste dalla legge n. 1766 del 1927 e dal r.d. n. 332 del 1928, per il particolare regime della sua titolarità e della sua circolazione, «“che lo assimila ad un bene appartenente al demanio, nemmeno potendo per esso configurarsi una cosiddetta sdemanializzazione di fatto. L’incommerciabilità derivante da tale regime comporta che […] la preminenza di quel pubblico interesse, che ha impresso al bene immobile il vincolo dell’uso civico stesso, ne vieti qualunque circolazione” (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 28 settembre 2011, n. 19792)» (sentenza n. 113 del 2018).
5.– Questa Corte non ignora il fenomeno dei reiterati interventi legislativi regionali (ex plurimis, sentenze n. 178 e n. 113 del 2018; n. 103 del 2017 e n. 210 del 2014) – analoghi a quello oggetto del presente giudizio – in violazione dei princìpi costituzionali applicabili alla materia degli usi civici.
Non di rado tali tentativi appaiono più o meno esplicitamente finalizzati a sistemare situazioni patrimoniali indefinite da lungo tempo, sfociando in un’indebita invasione della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile. Peraltro assumono dimensioni palesemente sproporzionate anche quando riguardano la “regolarizzazione” di situazioni sostanzialmente marginali. Questo reiterarsi di tentativi di invasione della competenza legislativa statale finisce per coinvolgere in un defatigante contenzioso lo Stato, le Regioni, gli enti locali, le comunità territoriali e i giudici di merito.
Dette prassi legislative appaiono peraltro sproporzionate e contraddittorie, perché le esigenze a esse sottese trovano già risposta in procedimenti amministrativi di competenza regionale che si muovono nel perimetro delle deroghe ai principi generali di indisponibilità e inalienabilità, come fissato dalla legge n. 1766 del 1927 e dal relativo regolamento di attuazione (r.d. n. 332 del 1928).
In proposito si è già avuto modo di sottolineare come la previa assegnazione a categoria dei beni civici di cui all’art. 11 della legge n. 1766 del 1927 non abbia più ragion d’essere alla luce dell’introduzione del vincolo paesistico-ambientale e delle mutate condizioni socio-economiche del Paese: «nel vigente quadro normativo la previa assegnazione a categoria dei beni civici non è più necessaria, in quanto il vincolo paesaggistico-ambientale è già perfetto e svolge pienamente i suoi effetti a prescindere da tale operazione, la quale – a sua volta – non è più funzionale agli scopi colturali, come un tempo configurati, e neppure coerente col medesimo vincolo paesistico-ambientale. Infatti, l’assegnazione a categoria era funzionale alla quotizzazione dei terreni coltivabili, il cui fisiologico esito era l’affrancazione (previo accertamento delle migliorie colturali), cioè la trasformazione del demanio in allodio, oggi incompatibile con la conservazione ambientale. È stato in proposito affermato che “[l]a linea di congiunzione tra le norme risalenti e quelle più recenti, che hanno incluso gli usi civici nella materia paesaggistica ed ambientale, va rintracciata proprio nella pianificazione: ai piani economici di sviluppo per i patrimoni silvo-pastorali di cui all’art. 12 della legge n. 1766 del 1927 vengono oggi ad aggiungersi ed a sovrapporsi i piani paesaggistici di cui all’art. 143 del d.lgs. n 42 del 2004. La pianificazione prevista da questi ultimi – a differenza del passato – riguarda l’intero patrimonio dei beni civici e non più solo i terreni identificati dall’art. 11 della legge n. 1766 del 1927 con la categoria a (‘terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente’)” (sentenza n. 103 del 2017)» (sentenza n. 113 del 2018).
Venuta meno l’assegnazione a categoria, non sono stati però travolti gli istituti della verifica demaniale e della pianificazione (oggi quella paesistico-ambientale subentrata al piano agro-silvo-pastorale), i quali, alle molteplici funzioni di carattere generale, aggiungono anche quelle di presupposto necessario delle ipotesi di variazione del patrimonio civico. Queste ultime sono ben possibili, come detto, nel perimetro consentito dalla legge statale.
Le variazioni possono essere raggruppate – con riguardo agli istituti conosciuti dalla legge statale – in tre categorie: le prime comportano la trasformazione del bene da demanio ad allodio, come l’alienazione e la legittimazione; le seconde, come lo scorporo, lo scioglimento delle promiscuità e la stessa conciliazione, regolano la separazione delle utilità a vocazione pubblica da quelle da assegnare all’ordinario regime privatistico; la terza preserva la vocazione pubblicistica del bene in un diverso assetto funzionale, attraverso il mutamento di destinazione.
5.1.– L’alienazione riguarda – come stabilito dall’art. 39 del r.d. n. 332 del 1928 – quei fondi che per le loro esigue estensioni non sono indispensabili alla pianificazione agro-silvo-pastorale e non interrompono il demanio civico.
La legittimazione – come stabilito dall’art. 9 della legge n. 1766 del 1927 – riguarda terre di uso civico appartenenti ai Comuni, alle frazioni e alle associazioni sulle quali siano intervenute occupazioni. Queste possono essere legittimate a condizione che l’occupante vi abbia apportato sostanziali e permanenti migliorie; che la zona occupata non interrompa la continuità dei terreni del demanio civico; che l’occupazione duri almeno da dieci anni.
Si tratta di istituti tipizzati e conformati rigorosamente ai requisiti di legge che permeano i procedimenti amministrativi di cui costituiscono l’epilogo.
In ragione dell’intrinseca marginalità economica e paesistico-ambientale, detti procedimenti devono essere condotti con trasparenza e speditezza: speditezza in quanto, in una società caratterizzata dal dinamismo dei traffici giuridici, non sono ragionevoli complicazioni procedimentali e indugi nell’attività istruttoria, che consiste prevalentemente in meri accertamenti di fatto; trasparenza come ostensibilità della sequenza procedimentale, affinché la veste marginale di tali variazioni non sia strumentalizzata per nascondere operazioni non consentite.
5.2. – Analoghe considerazioni riguardano i procedimenti finalizzati a sciogliere le promiscuità e a risolvere l’esercizio degli usi in re aliena. Nella legge n. 1766 del 1927, per questo tipo di situazioni soggettive, emerge una chiara considerazione degli interessi privati meritevoli di tutela attraverso procedimenti che sfociano in atti negoziali, quali l’affrancazione dell’uso (artt. 5 e 34) e la conciliazione (artt. 8 e 29).
Nel caso dell’uso civico in re aliena l’ordinamento appresta tali strumenti per consentire la stabilizzazione di situazioni di diritto singolare esercitate da lunghissimo tempo senza opposizione della comunità di riferimento (mancato esercizio dell’uso, godimento pieno del bene, in alcuni casi piccole costruzioni con formale licenza edilizia).
In fondo, la separazione della proprietà privata da un utile dominio, non esercitato da tempo immemorabile senza che detto mancato esercizio sia provocato nec vi, nec clam, risulta vantaggiosa per la stessa comunità titolare, che può ricavare, attraverso l’affrancazione o la conciliazione, un’indennità – che non ricomprende il valore delle opere realizzate secondo i canoni dell’art. 934 cod. civ., poiché, a differenza della fattispecie decisa dalla Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 16 febbraio 2018, n. 3873, il rapporto tra il proprietario e la comunità titolare dell’uso non è riconducibile alla disciplina del condominio – pari al pur modesto valore dell’uso non più esercitato. Peraltro, proprio il bilanciamento degli interessi pubblici e privati effettuato dal legislatore nel disciplinare l’affrancazione conduce a escludere che ciò possa comportare effetti ablativi sine causa nei confronti del proprietario.
Gli altri istituti, come lo scorporo e lo scioglimento delle promiscuità – ancorché collegati a situazioni ormai rare – meritano da parte delle amministrazioni competenti l’esercizio di una discrezionalità più complessa nella scelta di mantenere o risolvere la commistione tra proprietà privata e utile dominio della collettività poiché, in relazione a beni di notevole entità territoriale, ben potrebbe prevalere l’opzione di conservare il vincolo paesistico-ambientale sul patrimonio indiviso.
5.3.– Come detto, il mutamento di destinazione è caratterizzato dalla conservazione del rilievo pubblicistico del bene in un diverso assetto funzionale. Tale possibilità è strettamente correlata alla natura dinamica dei vincoli che gravano sui patrimoni civici.
Infatti, la natura integrata e inscindibile del vincolo paesistico-ambientale con il regime dei beni civici comporta che la tutela non possa consistere in una conservazione statica, bensì in un regime di gestione che ne preservi il carattere ecologico e la disciplina giuridica in coerenza con l’evoluzione dell’economia agricola e di quella ambientale.
È stato già chiarito da questa Corte che il carattere fondamentale del mutamento di destinazione è la compatibilità «con l’interesse generale della comunità che ne è titolare. Detto principio si rinviene nell’art. 41 del r.d. n. 332 del 1928, il quale stabilisce “[…] che a tutte o parte delle terre sia data una diversa destinazione, quando essa rappresenti un reale beneficio per la generalità degli abitanti […]. In tal caso il decreto di autorizzazione conterrà la clausola del ritorno delle terre, in quanto possibile, all’antica destinazione quando venisse a cessare lo scopo per il quale l’autorizzazione era stata accordata. Qualora non sia possibile ridare a queste terre l’antica destinazione, il Ministro per l’economia nazionale potrà stabilire la nuova destinazione delle terre medesime”» (sentenza n. 103 del 2017).
La norma richiamata evidenzia il principio di continuità della vocazione pubblica all’interno dell’istituto del mutamento di destinazione e dell’equilibrata composizione con le esigenze evolutive precedentemente descritte.
Di regola, come per tutte le variazioni del patrimonio di uso civico, vale anche nel caso di mutamento di destinazione il principio dell’onerosità del cambiamento che, tuttavia, può essere modulato diversamente in ragione del tempo e della difficoltà di reversibilità del bene verso l’originario assetto.
5.4.– Proprio l’onerosità delle trasformazioni, assunte nel rispetto del dettato legislativo, è in grado di salvaguardare il patrimonio d’uso civico nel suo complesso, poiché le riduzioni o modificazioni della sua consistenza possono ben essere compensate dall’acquisizione – con identico vincolo – di altre aree.
Infatti, la legislazione statale in materia, fin dalla legge n. 1766 del 1927, consente l’acquisizione di terre a vocazione collettiva, sulle quali viene a essere automaticamente impresso il vincolo della tutela paesistico-ambientale.
Sotto quest’ultimo profilo occorre, poi, considerare che la tutela paesistico-ambientale non è più una disciplina confinata nell’ambito nazionale; ciò soprattutto in considerazione della Convenzione europea del paesaggio, adottata a Strasburgo dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 19 luglio 2000 e ratificata con legge del 9 gennaio 2006, n. 14, secondo cui il concetto di tutela collega indissolubilmente la gestione del territorio all’apporto delle popolazioni. In questa prospettiva la cura del paesaggio riguarda l’intero territorio, anche quando degradato o apparentemente privo di pregio. Da ciò consegue inevitabilmente il passaggio da una tutela meramente conservativa alla necessità di valorizzare gli interessi pubblici e delle collettività locali con interventi articolati, tra i quali, appunto, l’acquisizione e il recupero delle terre degradate.
È stato già affermato che tale fenomeno si inquadra in un «processo evolutivo diretto a riconoscere una nuova relazione tra la comunità territoriale e l’ambiente che la circonda, all’interno della quale si è consolidata la consapevolezza del suolo quale risorsa naturale eco-sistemica non rinnovabile, essenziale ai fini dell’equilibrio ambientale, capace di esprimere una funzione sociale e di incorporare una pluralità di interessi e utilità collettive, anche di natura intergenerazionale» (sentenza n. 179 del 2019).
6.– In definitiva, la norma regionale censurata si pone in contrasto con il precetto di cui all’art. 9 Cost. e invade la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia dell’ordinamento civile di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e ne va, di conseguenza, dichiarata l’illegittimità.
Restano assorbite le ulteriori censure proposte dal giudice rimettente.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 53 della legge della Regione Calabria 29 dicembre 2010, n. 34, «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e procedurale (Collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2011). Articolo 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 febbraio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2020.