SENTENZA N. 290
ANNO 2019
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Aldo
CAROSI;
Giudici: Marta CARTABIA,
Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS,
Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, lettere g), numero 2), h) e
i), numeri 5) e 7), e comma 6, lettera c), 33, comma 1, lettera a), e 84, comma
1, lettera b), della legge
della Regione Lazio 22 ottobre 2018, n. 7 (Disposizioni per la semplificazione
e lo sviluppo regionale), promosso dal Presidente del Consiglio dei
ministri, con ricorso
notificato il 24-28 dicembre 2018, depositato in cancelleria il 28 dicembre
2018, iscritto al n. 87 del registro ricorsi 2018 e pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di
costituzione della Regione Lazio;
udito nell’udienza
pubblica del 20 novembre 2019 il Giudice relatore Daria de Pretis;
udito l’avvocato dello
Stato Francesca Morici per il Presidente del Consiglio dei ministri e
l’avvocato Rodolfo Murra per la Regione Lazio.
Ritenuto
in fatto
1.– Con ricorso
notificato il 24-28 dicembre 2018 e depositato il 28 dicembre 2018, il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale di
alcune disposizioni della legge della Regione Lazio 22 ottobre 2018, n. 7
(Disposizioni per la semplificazione e lo sviluppo regionale) e, tra queste, degli
artt. 5, comma 1, lettere g), numero 2), h) e i), numeri 5) e 7), e comma 6,
lettera c), 33, comma 1, lettera a), e 84, comma 1, lettera b), in riferimento
agli artt. 97 e 117, commi secondo,
lettere l), m) e s), e terzo, della Costituzione.
1.1.– L’art. 5, comma
1, lettera g), numero 2), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per
violazione degli artt. 97 e 117, secondo comma, lettere m) e s), Cost., in
relazione all’art. 25, comma 2, della legge
6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette).
L’art. 5, comma 1,
lettera g), numero 2), ha modificato il comma 4 dell’art. 26 della legge della
Regione Lazio 6 ottobre 1997, n. 29 (Norme in materia di aree naturali protette
regionali), disciplinante il procedimento di approvazione del piano dell’area
naturale protetta. A seguito delle modifiche, il suddetto piano, dopo essere
stato adottato dall’ente di gestione, è trasmesso alla Giunta regionale, la
quale apporta le eventuali modifiche e integrazioni, si pronuncia sulle
osservazioni pervenute e ne propone al Consiglio regionale l’approvazione.
Trascorsi tre mesi dall’assegnazione della proposta di piano alla commissione
consiliare competente, la proposta stessa è iscritta all’ordine del giorno
dell’aula. A questo punto il Consiglio regionale si esprime su di essa entro i
successivi centoventi giorni, decorsi i quali il piano si intende approvato.
Il ricorrente censura
quest’ultima previsione in quanto, «nel porre una scansione temporale certa
all’iter di approvazione» del detto piano, consentirebbe al Consiglio regionale
di svolgere le «attività istruttorie per l’esame e valutazione dello stesso»,
ma lascerebbe alla Giunta regionale «la possibilità – trascorsi i termini – di
pervenire all’approvazione». In sostanza, il legislatore regionale avrebbe
introdotto «un vero e proprio meccanismo procedurale di silenzio assenso», che
si porrebbe in contrasto con l’art. 25, comma 2, della legge n. 394 del 1991,
il quale prevede che «[i]l piano per il parco è adottato dall’organismo di
gestione del parco ed è approvato dalla regione […]».
La norma impugnata
disattenderebbe dunque la previsione legislativa statale, che prevede
un’approvazione formale del piano da parte della Regione. Tale disposizione,
contenuta nella disciplina delle aree protette recata dalla legge n. 394 del
1991, sarebbe riconducibile alla competenza esclusiva statale ex art. 117,
secondo comma, lettera s), Cost.
Il ricorrente sottolinea
altresì come l’istituto del silenzio assenso sia ammesso «in relazione ad
attività amministrative nelle quali sia pressoché assente il profilo di
discrezionalità, non anche nei procedimenti ad elevata discrezionalità», nel
cui ambito rientrerebbe il procedimento di adozione e approvazione del piano
del parco di cui all’art. 25 della legge n. 394 del 1991. Inoltre, il ricorso
all’istituto del silenzio assenso nella materia ambientale sarebbe limitato
dall’art. 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di
procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi).
Dunque, la previsione
di un meccanismo di formazione tacita dell’atto di assenso, per un verso,
sarebbe «non rispettos[a] e cautelativ[a]
sotto il profilo del contemperamento degli interessi ambientali in gioco», e
per altro verso consentirebbe l’approvazione di un provvedimento che prescinde
da un ponderato e coerente apparato motivazionale, con conseguente violazione
del principio di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost.
Per le ragioni
anzidette la norma impugnata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 117,
secondo comma, lettere m) e s), Cost., in quanto derogherebbe «ai livelli
minimi uniformi previsti dalla legislazione statale nell’esercizio della
competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente».
1.2.– L’art. 5, comma
1, lettera h), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione
dell’art. 117, secondo comma, lettere l) e m), Cost., in relazione all’art. 4,
comma 6, del decreto
del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 160 (Regolamento per la
semplificazione ed il riordino della disciplina sullo sportello unico per le
attività produttive, ai sensi dell’articolo 38, comma 3, del decreto-legge 25
giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008,
n. 133).
La norma regionale
impugnata ha introdotto, dopo il comma 1 dell’art. 28 della legge reg. Lazio n.
29 del 1997, il comma 1-bis, secondo cui «Nel rispetto di quanto previsto dal
decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222 (Individuazione di procedimenti
oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività
(SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi
applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell’articolo 5
della legge 7 agosto 2015, n. 124), la richiesta per la realizzazione degli
interventi di cui all’articolo 6 del D.P.R. 380/2001 è presentata allo
sportello unico di cui all’articolo 5 del medesimo decreto. Per tali
fattispecie, il nulla osta di cui al comma 1 è reso entro sessanta giorni dal
ricevimento da parte dell’ente gestore della richiesta, decorsi inutilmente i
quali il titolo abilitativo si intende reso».
Il ricorrente
sottolinea come la norma regionale impugnata sia generica, «non specificando il
tipo di intervento edilizio soggetto a nulla osta come previsto dalla normativa
statale», e precisa al riguardo che il nulla osta all’intervento è previsto per
le opere ricadenti in un’area naturale protetta, «mentre non riguarda anche la
realizzazione di altri interventi non soggetti a titolo abilitativo». La difesa
erariale aggiunge che, ai sensi dell’art. 4, comma 6, del d.P.R. n. 160 del
2010, «[s]alva diversa disposizione dei comuni
interessati e ferma restando l’unicità del canale di comunicazione telematico
con le imprese da parte del SUAP, sono attribuite al SUAP le competenze dello
sportello unico per l’edilizia produttiva».
La norma regionale
impugnata, quindi, non distinguerebbe tra le varie tipologie di opere edilizie
ai fini del rilascio del nulla osta e, in particolare, non prevederebbe
espressamente le modalità di rilascio del nulla osta per attività produttiva.
D’altra parte, l’art. 33, comma 1, lettera a), della stessa legge reg. Lazio n.
7 del 2018, richiamando la normativa statale di riferimento, prevede che lo
sportello unico per le attività produttive (SUAP) «è l’unico punto di accesso
in relazione a tutte le procedure amministrative riguardanti la localizzazione,
la realizzazione, l’avvio, l’ampliamento, il trasferimento, la cessione, la
concentrazione e l’accorpamento nonché la cessazione» delle attività
produttive.
La norma impugnata si
porrebbe, dunque, in contrasto con l’art. 4, comma 6, del d.P.R. n. 160 del
2010 e quindi con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva
alla legge statale la competenza in materia di ordinamento civile, oltre che
con l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la disciplina in
materia di segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) rientrerebbe nei
livelli essenziali delle prestazioni ai sensi dell’art. 29, comma 2-ter, della
legge n. 241 del 1990.
1.3.– L’art. 5, comma
1, lettera i), numero 5), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione
all’art. 13 della legge
n. 394 del 1991.
La norma regionale
impugnata ha introdotto, dopo il comma 1 dell’art. 31 della legge reg. Lazio n.
29 del 1997, il comma 1-bis, secondo cui «[s]ono
consentiti e non rientrano negli obblighi di cui all’articolo 28 le ricorrenti
pratiche di conduzione delle aziende agricole che non comportino modificazioni
sostanziali del territorio ed in particolare: a) la manutenzione ordinaria del
sistema idraulico agrario e del sistema infrastrutturale aziendale esistenti;
b) l’impianto o l’espianto delle colture arboree e le relative tecniche
utilizzate; c) l’utilizzo delle serre stagionali non stabilmente infisse al
suolo; d) il transito e la sosta di mezzi motorizzati fuori dalle strade
statali, provinciali, comunali, vicinali gravate dai servizi di pubblico
passaggio e private per i mezzi collegati all’esercizio delle attività agricole
di cui al presente articolo; e) l’ordinamento produttivo ed i relativi piani
colturali promossi e gestiti dall’impresa agricola; f) la raccolta e il
danneggiamento della flora spontanea derivanti dall’esercizio delle attività
aziendali di cui all’articolo 2 della L.R. 14/2006».
La norma in esame è
impugnata perché escluderebbe dall’obbligo del nulla osta, di cui all’art. 28
della stessa legge reg. Lazio n. 7 del 2018, «interventi e attività che possono
arrecare impatti, anche notevoli, sull’ambiente naturale, consentendone la
realizzazione/svolgimento in tutte le zone dell’area protetta», compresa la
zona A di riserva integrale, senza prevedere alcuna modalità di verifica e di
controllo sugli interventi.
Siffatta previsione si
porrebbe, quindi, in contrasto con l’art. 13 della legge n. 394 del 1991,
secondo cui «[i]l rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad
interventi, impianti ed opere all’interno del parco è sottoposto al preventivo
nulla osta dell’Ente parco. Il nulla osta verifica la conformità tra le
disposizioni del piano e del regolamento e l’intervento ed è reso entro
sessanta giorni dalla richiesta. Decorso inutilmente tale termine il nulla osta
si intende rilasciato. […]». La previsione del detto nulla osta sarebbe quindi
volta a verificare la coerenza degli interventi rispetto alla «disciplina di
tutela» e agli «strumenti di pianificazione e regolamentari» e la «loro
sostenibilità ambientale».
L’asserito contrasto
con l’art. 13 della legge n. 394 del 1991 determinerebbe la violazione della
competenza statale in materia di «tutela dell’ambiente» di cui all’art. 117,
secondo comma, lettera s), Cost.
La difesa statale
conclude rilevando come, a differenza della norma qui impugnata, l’art. 28
della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 richiami espressamente proprio l’art. 13
della legge n. 394 del 1991.
1.4.– L’art. 5, comma
1, lettera i), numero 7), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli
artt. 22, 23 e 25, comma 2, della legge
n. 394 del 1991.
La norma regionale
impugnata ha modificato il comma 2-bis dell’art. 31 della legge reg. Lazio n.
29 del 1997, che risulta ora del seguente tenore: «[p]er
favorire lo svolgimento delle attività di cui al presente articolo, i soggetti
di cui all’articolo 57 e 57-bis della L.R. n. 38/1999 possono presentare il PUA
[piano di utilizzazione aziendale], redatto secondo le modalità ivi previste,
nel rispetto delle forme di tutela di cui alla presente legge. Il PUA redatto
secondo le modalità della L.R. 38/1999, previa indicazione dei risultati che si
intendono perseguire, può prevedere la necessità di derogare alle previsioni
del piano dell’area naturale protetta redatto ai sensi dell’articolo 26, comma
1, lettera f) ad esclusione delle normative definite per le zone di riserva
integrale».
Questa disposizione,
consentendo che il PUA possa derogare alle previsioni del piano dell’area
naturale protetta, si porrebbe in contrasto con l’art. 25, comma 2, della legge
n. 394 del 1991, secondo cui «[i]l piano per il parco […] ha valore anche di
piano paesistico e di piano urbanistico e sostituisce i piani paesistici e i
piani territoriali o urbanistici di qualsiasi livello». Il contrasto non
potrebbe ritenersi superato da quanto previsto al comma 2-ter del medesimo art.
31 della legge reg. Lazio n. 29 del 1997, ossia che, nella conferenza dei
servizi ai fini dell’approvazione del PUA, l’amministrazione procedente
acquisisce il nulla osta dell’ente di gestione del parco. Secondo il ricorrente
quest’ultima previsione non potrebbe ritenersi sostitutiva della complessa e
partecipata procedura prevista per l’approvazione del piano dell’area protetta
dalla legge n. 394 del 1991 e dall’art. 26, commi 2, 3 e 4, della stessa legge
reg. Lazio n. 7 del 2018.
Da quanto detto
deriverebbe il contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.,
poiché la norma regionale impugnata ridurrebbe in peius
i livelli minimi uniformi di tutela previsti dalla legislazione statale in
materia di tutela dell’ambiente. In proposito il ricorrente precisa che la
legge n. 394 del 1991 costituisce esercizio della competenza esclusiva statale
nella materia anzidetta; pertanto, le Regioni possono solo assicurare maggiori
livelli di tutela delle aree protette. è richiamata al riguardo la
giurisprudenza costituzionale secondo cui «Il territorio dei parchi, siano essi
nazionali o regionali, ben può essere oggetto di regolamentazione da parte
della Regione, in materie riconducibili ai commi terzo e quarto dell’art. 117
Cost., purché in linea con il nucleo minimo di salvaguardia del patrimonio
naturale, da ritenere vincolante per le Regioni» (sentenza n. 44 del
2011).
Lo «standard minimo
uniforme di tutela nazionale» si estrinsecherebbe nella predisposizione da
parte degli enti gestori delle aree protette di strumenti programmatici e
gestionali per la valutazione di rispondenza delle attività svolte alle
esigenze ambientali; siffatti strumenti sarebbero identificabili nel
regolamento (art. 11 della legge n. 394 del 1991), nel piano per il parco (art.
12) e nelle misure di salvaguardia adottate nelle more dell’istituzione
dell’area protetta (artt. 6 e 8). Anche in relazione alle aree protette
regionali il legislatore statale avrebbe predisposto un modello fondato
sull’individuazione del loro soggetto gestore ad opera della legge regionale
istitutiva (art. 23), sull’adozione di regolamenti di queste aree (art. 22,
comma 1, lettera d) e su un piano per il parco (art. 25).
La difesa statale
afferma altresì che non vi è dubbio che il legislatore statale abbia previsto,
per le aree naturali protette regionali, «un quadro normativo meno dettagliato
di quello predisposto per le aree naturali protette nazionali», con la
conseguenza che le Regioni hanno «un margine di discrezionalità tanto in
relazione alla disciplina delle stesse aree protette regionali quanto sul
contemperamento tra la protezione di queste ultime e altri interessi meritevoli
di tutela». Tuttavia, l’esistenza di un regolamento e di un piano dell’area
protetta, cui devono conformarsi le attività svolte all’interno del parco,
garantisce la corrispondenza ai canoni inderogabili imposti dalla normativa
statale, i quali costituiscono standard minimi di tutela che possono solo
essere innalzati dalle Regioni.
1.5.– L’art. 5, comma
6, lettera c), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione
dell’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione agli artt. 36 e 37 del decreto
del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)».
La norma regionale
impugnata ha inserito l’art. 57-ter dopo l’art. 57-bis della legge della
Regione Lazio 22 dicembre 1999, n. 38 (Norme sul governo del territorio).
L’art. 57-ter stabilisce: «1. Per le finalità di cui agli articoli 57 e 57-bis
per "edifici legittimi esistenti” si intendono anche quelli realizzati in
assenza di titolo abilitativo in periodi antecedenti alla data di entrata in
vigore della legge 6 agosto 1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge
urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150) ovvero che siano stati oggetto di
accertamento di conformità, da parte dei responsabili dell’abuso, ai sensi
degli articoli 36 e 37 del D.P.R. 380/2001. 2. Gli edifici di cui al comma 1
ubicati su terreni di proprietà di enti pubblici, sono acquisiti al patrimonio dei
medesimi enti previo accertamento, da parte degli occupatori, dei requisiti
previsti dal medesimo comma 1».
La difesa statale
sottolinea che, ai sensi dell’art. 2 del d.P.R. n. 380 del 2001, «[l]e regioni
esercitano la potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto
dei principi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle
disposizioni contenute nel testo unico». Tra tali principi il ricorrente
annovera: la gradualità dei titoli abilitativi indicati nel testo unico, con il
conseguente divieto di introdurne altri; l’inderogabilità della disciplina per
l’attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica (art. 9); la
definizione delle categorie di interventi edilizi (art. 3). A ciò si aggiunga
che il decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il
rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto
2013, n. 98, ha introdotto l’art. 2-bis nel d.P.R. n. 380 del 2001 prevedendo
che le Regioni possono stabilire disposizioni derogatorie in materia di limiti
di distanza tra fabbricati.
Il ricorrente – dopo
aver richiamato il contenuto degli artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001,
relativi, rispettivamente, all’«[a]ccertamento di
conformità» e agli «[i]nterventi eseguiti in assenza
o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività e
accertamento di conformità» – lamenta che la norma regionale impugnata,
attribuendo la qualifica di "edificio legittimo esistente” ai manufatti per i
quali si sono verificate le condizioni descritte nelle due norme statali
richiamate, sia pure per le sole finalità connesse ai piani di utilizzazione
aziendale in agricoltura e a quelli per le attività integrate e complementari,
si porrebbe in contrasto con i principi fondamentali della materia. Essa
violerebbe pertanto l’art. 117, terzo comma, Cost., che attribuisce alla
competenza concorrente di Stato e Regioni le materie del governo del territorio
e della protezione civile.
1.6.– L’art. 33, comma
1, lettera a), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione
dell’art. 117, secondo comma, lettere l) e m), Cost.
La norma regionale
impugnata ha inserito l’art. 4-bis dopo l’art. 4 della legge della Regione
Lazio 18 novembre 1999, n. 33 (Disciplina relativa al settore commercio).
L’art. 4-bis (rubricato «Sportello unico per le attività produttive») al comma
3 prevedeva che «[a]i fini della presentazione e verifica formale della
segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), i soggetti interessati
possono avvalersi della agenzia per le imprese in conformità alle disposizioni
del decreto del Presidente della Repubblica 9 luglio 2010, n. 159 (Regolamento
recante i requisiti e le modalità di accreditamento delle agenzie per le
imprese, a norma dell’articolo 38, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008,
n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133)».
Il ricorrente
sottolinea che, ai sensi dell’art. 5, comma 4, del d.P.R. n. 160 del 2010, la
verifica formale della SCIA spetta esclusivamente al SUAP, mentre all’agenzia
per le imprese è attribuita la funzione di rilascio di «una dichiarazione di
conformità, comprensiva della SCIA o della domanda presentata dal soggetto
interessato corredata dalle certificazioni ed attestazioni richieste, che
costituisce titolo autorizzatorio per l’esercizio dell’attività e per l’avvio
immediato dell’intervento dichiarato» (art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 160 del
2010).
La difesa statale
evidenzia, altresì, che il d.P.R. n. 159 del 2010, citato nella disposizione
impugnata, non contiene alcuna menzione della verifica formale in capo alle
agenzie per le imprese, poiché concerne la sola disciplina dei requisiti per il
loro accreditamento.
Pertanto, l’art. 33, comma
1, lettera a), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, nella parte in cui ha
introdotto il comma 3 dell’art. 4-bis della legge reg. Lazio n. 33 del 1999,
sarebbe in contrasto con la normativa statale richiamata e quindi con l’art.
117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla legge statale la
competenza in tema di ordinamento civile, e con l’art. 117, secondo comma,
lettera m), Cost., in quanto la disciplina in materia di segnalazione
certificata di attività attiene ai livelli essenziali delle prestazioni.
1.7.– L’art. 84, comma
1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione
dell’art. 117, secondo comma, lettere l) e m), Cost.
La norma regionale
impugnata ha inserito l’art. 4-bis dopo l’art. 4 della legge della Regione
Lazio 16 luglio 1998, n. 30 (Disposizioni in materia di trasporto pubblico
locale). L’art. 4-bis (rubricato «Servizi sussidiari, integrativi e
complementari al trasporto pubblico di linea») al comma 2 prevede che
«[l]’inizio del servizio è subordinato alla preventiva segnalazione certificata
di inizio attività (SCIA) di cui all’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n.
241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di
accesso ai documenti amministrativi) e successive modifiche, presentata
all’ente territoriale nel cui territorio il servizio è svolto, secondo i
criteri di cui agli articoli 3 e 10, comma 2».
Preliminarmente il
ricorrente sottolinea l’inconferenza del rinvio,
operato dalla norma impugnata, agli artt. 3 e 10, comma 2, della legge reg.
Lazio n. 30 del 1998, relativi, rispettivamente, alla classificazione dei
servizi di trasporto pubblico locale in comunali, provinciali e regionali, e
alle funzioni conferite al riguardo ai Comuni. In particolare, la difesa
statale rileva che, quanto al citato art. 3, il Comune è l’ente territoriale di
competenza a cui deve essere presentata la SCIA, mentre, in merito all’art. 10,
comma 2, l’esercizio delle funzioni conferite al Comune, relativamente ai
servizi di linea comunali, attiene a regimi amministrativi diversi dalla SCIA.
Pertanto, l’art. 84,
comma 1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, nella parte in cui
ha introdotto il comma 2 dell’art. 4-bis della legge reg. Lazio n. 30 del 1998,
sarebbe in contrasto con la normativa statale richiamata e quindi con l’art.
117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla legge statale la
competenza in tema di ordinamento civile, e con l’art. 117, secondo comma,
lettera m), Cost., in quanto la disciplina in materia di segnalazione
certificata di attività attiene ai livelli essenziali delle prestazioni, ai
sensi dell’art. 29, comma 2-ter, della legge n. 241 del 1990.
2.– La Regione Lazio si
è costituita in giudizio chiedendo che le questioni promosse siano dichiarate
inammissibili e/o infondate.
2.1.– In relazione
all’art. 5, comma 1, lettera g), numero 2), della legge reg. Lazio n. 7 del
2018, la difesa regionale rileva che le modifiche operate all’art. 26, comma 4,
della legge reg. Lazio n. 29 del 1997 rispondono a una esigenza di
semplificazione del procedimento di approvazione del piano delle aree naturali
protette, al fine di poter giungere alla sua approvazione in tempi ragionevoli.
Al riguardo, la resistente sottolinea come spesso i tempi di questo
procedimento si siano oltremodo dilatati, producendo, in alcuni casi,
contenziosi giudiziari che hanno portato dapprima a una diffida nei confronti
della Regione e poi alla nomina di un commissario ad acta.
A detta della Regione
Lazio, tale esigenza acceleratoria sarebbe in sintonia con quanto previsto
dall’art. 29, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990, secondo cui attengono
ai livelli essenziali delle prestazioni le disposizioni concernenti gli
obblighi di concludere il procedimento entro il termine prefissato. In secondo luogo,
la norma impugnata non si porrebbe in contrasto con la necessaria approvazione
del piano da parte della Regione, secondo quanto previsto dall’art. 25, comma
2, della legge n. 394 del 1991. Infatti, quest’ultima disposizione sarebbe
pienamente rispettata anche qualora si considerasse come atto approvativo
finale quello deliberato dalla Giunta regionale; a sostegno di ciò la
resistente sottolinea come la norma statale non distingua tra gli organi
regionali, limitandosi a prevedere che il piano sia «approvato dalla regione».
Sarebbe, inoltre,
«errato ed inconferente» il richiamo (operato dal ricorrente) della disciplina
sul silenzio assenso. Innanzitutto, sarebbe improprio il riferimento all’art.
20 della legge n. 241 del 1990, in quanto questa disposizione circoscrive
espressamente il proprio ambito di applicazione ai soli «procedimenti ad
istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi», ipotesi,
questa, che non ricorrerebbe nel caso del procedimento di approvazione del
piano delle aree protette. Semmai – aggiunge la resistente – potrebbe venire in
rilievo l’art. 17-bis della legge n. 241 del 1990, il quale regolamenta il
silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e tra queste e i gestori di beni
o servizi pubblici. In secondo luogo, le limitazioni al ricorso al silenzio
assenso in materia ambientale concernerebbero solo il citato art. 20 e non
anche l’art. 17-bis, che, al comma 3, prevede una forma di silenzio assenso.
In conclusione, la
Regione Lazio osserva che l’individuazione dell’organo regionale competente ad
approvare il piano è rimessa alla sua autonoma determinazione, nell’ambito
della propria organizzazione. Al riguardo, la difesa regionale sottolinea come
in altre Regioni questo compito sia stato affidato alla Giunta; è citato l’art.
19, comma 2, della legge della Regione Lombardia 30 novembre 1983, n. 86 (Piano
regionale delle aree regionali protette. Norme per l’istituzione e la gestione
delle riserve, dei parchi e dei monumenti naturali nonché delle aree di
particolare rilevanza naturale e ambientale), nel testo oggi vigente, secondo
cui «[e]ntro centoventi giorni dal ricevimento, la
Giunta regionale verifica il piano controdedotto e
determina le modifiche necessarie rispetto ai propri indirizzi, agli atti di
programmazione e pianificazione regionale e alle disposizioni di legge in
materia; quindi procede all’approvazione del piano territoriale di
coordinamento o della relativa variante con propria deliberazione soggetta a
pubblicazione».
La resistente ritiene,
quindi, che sia consentito alla Regione individuare nella Giunta l’organo
competente ad approvare il piano e, di conseguenza, che la soluzione di
lasciare comunque al Consiglio la possibilità di esprimersi, sia pure in tempi
certi, non può ritenersi viziata da illegittimità costituzionale, non essendo
sottratto all’organo elettivo il potere di approvazione.
2.2.– In merito
all’impugnazione dell’art. 5, comma 1, lettera h), della legge reg. Lazio n. 7
del 2018, la resistente sostiene che le argomentazioni del ricorrente siano
infondate stante il carattere «assolutamente puntuale» della disciplina
regionale. Gli interventi oggetto della normativa censurata sarebbero infatti
desumibili dal rinvio all’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, consistendo in
quelli indicati da quest’ultima disposizione.
Sarebbe, inoltre, del
tutto inconferente il richiamo alla disciplina relativa all’edilizia produttiva
e al SUAP, in quanto estranea alla normativa relativa al rilascio del nulla
osta prescritto, ai sensi della legge n. 394 del 1991, dalla stessa legge reg.
Lazio n. 29 del 1997. Peraltro, l’attività del SUAP troverebbe autonoma e
separata normazione nell’art. 33, comma 1, lettera a), della legge reg. Lazio
n. 7 del 2018.
2.3.– Quanto all’art.
5, comma 1, lettera i), numero 5), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, la
resistente sottolinea come la censurata esclusione del nulla osta per alcune
«pratiche di conduzione delle aziende agricole che non comportino modificazioni
sostanziali del territorio» non costituisca una novità introdotta dal
legislatore regionale del 2018, essendo già contemplata dal testo previgente
dell’art. 28 della legge reg. Lazio n. 29 del 1997. Pertanto, la modifica
censurata si sarebbe limitata a «esplicitare ulteriormente il contenuto delle
previgenti disposizioni regionali, per le quali era già escluso il rilascio del
nulla osta».
Al riguardo la difesa
regionale richiama il contenuto dell’art. 13 della legge n. 394 del 1991, in
base al quale il preventivo rilascio del nulla osta da parte dell’ente parco
sarebbe richiesto «non in assoluto, ma solo qualora sia contemporaneamente
prescritto, dalla normativa statale o regionale, "il rilascio di concessioni o
autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del
parco”».
Pertanto, nel caso di
specie, il nulla osta non sarebbe richiesto, in ragione del fatto che si tratta
di pratiche di conduzione delle aziende agricole «in larga parte» coincidenti
con le fattispecie enumerate dall’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 (rubricato
«Attività edilizia libera») o «comunque teleologicamente ad esse
riconducibili», per le quali non è richiesto alcun titolo abilitativo.
Non sarebbe, quindi,
compromesso né limitato l’esercizio della competenza legislativa statale in
materia di tutela dell’ambiente, anche in ragione del fatto che la norma
regionale impugnata si limita a introdurre meccanismi di semplificazione
procedimentale e amministrativa.
2.4.– Anche in
relazione all’art. 5, comma 1, lettera i), numero 7), della legge reg. Lazio n.
7 del 2018, la resistente sottolinea come la norma impugnata non abbia alcuna
portata innovativa della disciplina previgente.
Il legislatore
regionale si sarebbe limitato, infatti, «ad operare una sorta di mero
intervento di coordinamento» delle disposizioni recate dagli artt. 8, comma 4,
lettera d), 26, comma 1-bis, lettera b), e 31 della legge reg. Lazio n. 29 del
1997, «riproducendone i medesimi contenuti sostanziali». La difesa regionale
aggiunge che le disposizioni citate sono state introdotte dalla legge della
Regione Lazio 10 novembre 2014, n. 10 (Modifiche alle leggi regionali relative
al governo del territorio, alle aree naturali protette regionali ed alle
funzioni amministrative in materia di paesaggio) e non sono mai state oggetto
di rilievi di legittimità costituzionale. Dirimente sarebbe il richiamo
all’art. 11, comma 3, della legge n. 394 del 1991, operato dal novellato art.
8, comma 4, della legge reg. Lazio n. 29 del 1997, con il quale il legislatore
regionale ha inteso subordinare gli interventi di cui all’art. 31 di quest’ultima
legge regionale alla clausola generale di salvaguardia prevista dal citato art.
11, comma 3. Da quanto detto conseguirebbe il rispetto dei livelli minimi di
tutela dell’ambiente.
2.5.– La questione di
legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 6, lettera c), della legge reg.
Lazio n. 7 del 2018 sarebbe infondata perché il ricorrente avrebbe travisato la
lettura della normativa impugnata. La norma regionale, infatti, non definirebbe
né introdurrebbe nuove categorie di «edifici legittimi» diverse da quelle già
previste dalla legislazione statale, limitandosi a richiamare puntualmente gli
artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, al solo fine di individuare le
fattispecie cui trova applicazione l’art. 57 della legge reg. Lazio n. 38 del
1999.
2.6.– Quanto all’art.
33, comma 1, lettera a), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, la resistente
sostiene che l’interpretazione seguita dal ricorrente non sia conforme «allo
spirito» e «al lessico» della legge regionale impugnata.
La norma in esame,
infatti, non intenderebbe incidere, né, «sulla base di una lettura
costituzionalmente orientata», potrebbe farlo, sulle funzioni dell’agenzia per
le imprese. Secondo la difesa regionale, dalla formulazione letterale, «sia
pure non pienamente perspicua sotto il profilo tecnico», si deduce che la
disposizione regionale ribadisce la possibilità in via generale per i soggetti
interessati di avvalersi del supporto e dell’assistenza tecnica dell’agenzia
per le imprese ai fini della predisposizione, verifica e presentazione della
SCIA senza incidere sulle modalità della presentazione stessa e sull’iter
istruttorio successivo a questa.
In definitiva,
l’intento del legislatore regionale sarebbe quello di «fare riferimento alle
funzioni generali di supporto e assistenza» riconosciute all’agenzia per le
imprese dalla normativa statale, «senza alcuna volontà di modificare l’impianto
normativo statale in materia di SCIA».
2.7.– Le censure mosse
all’art. 84, comma 1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018
sarebbero, invece, inammissibili «per la genericità ed indeterminatezza con cui
le stesse sono formulate». Secondo la difesa regionale, infatti, il ricorrente
si sarebbe limitato a rilevare un presunto contrasto con la normativa statale
citata, omettendo di darne contezza.
3.– In prossimità della
data fissata per l’udienza il Presidente del Consiglio dei ministri ha
depositato una memoria nella quale, dopo aver ribadito le argomentazioni
sviluppate nell’atto introduttivo del giudizio e aver replicato alle eccezioni
formulate da controparte, insiste nelle conclusioni già rassegnate nel ricorso.
Considerato
in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha
promosso questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni della
legge della Regione Lazio 22 ottobre 2018, n. 7 (Disposizioni per la
semplificazione e lo sviluppo regionale) e, tra queste, degli artt. 5, comma 1,
lettere g), numero 2), h) e i), numeri 5) e 7), e comma 6, lettera c), 33,
comma 1, lettera a), e 84, comma 1, lettera b), in riferimento agli artt. 97 e
117, commi secondo, lettere l), m) e s), e terzo, della Costituzione.
2.– Resta riservata a
separata pronuncia la decisione delle ulteriori questioni di legittimità
costituzionale promosse con il ricorso indicato in epigrafe.
3.– L’art. 5, comma 1,
lettera g), numero 2), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per
violazione degli artt. 97 e 117, secondo comma, lettere m) e s), Cost., in
relazione all’art. 25, comma 2, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge
quadro sulle aree protette).
La disposizione
regionale in esame si inserisce nel corpo della legge della Regione Lazio 6
ottobre 1997, n. 29 (Norme in materia di aree naturali protette regionali) e,
in particolare, nella Sezione I («Aree naturali protette di interesse
regionale») del Capo II («Organizzazione e gestione delle aree naturali
protette»), modificando il comma 4 dell’art. 26, disciplinante il procedimento
di approvazione del piano dell’area naturale protetta.
Tale piano, adottato
dall’ente di gestione e trasmesso alla Giunta regionale (art. 26, comma 2), «è
depositato per quaranta giorni presso le sedi degli enti locali interessati e
della Regione. L’ente di gestione provvede, con apposito avviso da pubblicare
su un quotidiano a diffusione regionale, a dare notizia dell’avvenuto deposito
e del relativo periodo. Durante questo periodo chiunque può prenderne visione e
presentare osservazioni scritte all’ente di gestione, il quale esprime il
proprio parere entro i successivi trenta giorni e trasmette il parere e le
osservazioni alla Giunta regionale. Entro tre mesi dal ricevimento di tale
parere la Giunta regionale, previo esame, da effettuare entro il limite di tre
anni, della struttura regionale competente in materia di aree naturali
protette, apporta eventuali modifiche ed integrazioni, pronunciandosi
contestualmente sulle osservazioni pervenute, e ne propone al Consiglio
regionale l’approvazione. Trascorsi tre mesi dall’assegnazione della proposta
di piano alla commissione consiliare competente, la proposta è iscritta
all’ordine del giorno dell’Aula ai sensi dell’articolo 63, comma 3, del
regolamento dei lavori del Consiglio regionale. Il Consiglio regionale si
esprime sulla proposta di piano entro i successivi centoventi giorni, decorsi i
quali il piano si intende approvato» (art. 26, comma 4, come riformulato).
3.1.– Preliminarmente,
occorre delimitare l’ambito delle censure mosse dal ricorrente. Infatti, ad
essere impugnato non è l’intero numero 2) della lettera g) del comma 1
dell’art. 5 della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 ma solo il periodo finale, da
esso aggiunto al comma 4 dell’art 26 della legge reg. Lazio n. 29 del 1997, là
dove si prevede che «Il Consiglio regionale si esprime sulla proposta di piano
entro i successivi centoventi giorni, decorsi i quali il piano si intende
approvato».
Questa previsione si
porrebbe in contrasto con l’art. 25, comma 2, della legge n. 394 del 1991, il
quale stabilisce che «[i]l piano per il parco è adottato dall’organismo di
gestione del parco ed è approvato dalla regione […]». La norma impugnata
disattenderebbe dunque la previsione legislativa statale che prevede
un’approvazione formale del piano da parte della Regione. A sua volta, la norma
statale che il ricorrente ritiene violata, contenuta nella disciplina delle
aree protette recata dalla legge n. 394 del 1991, sarebbe riconducibile alla
competenza esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
Nel ricorso si contesta
altresì la previsione di una forma di silenzio assenso a conclusione dell’iter
di approvazione del piano e si sottolinea come questo istituto non possa essere
ammesso «nei procedimenti ad elevata discrezionalità», nell’ambito dei quali
rientrerebbe anche quello di adozione e approvazione del piano del parco di cui
all’art. 25 della legge n. 394 del 1991. Inoltre, il ricorso all’istituto del
silenzio assenso nella materia ambientale sarebbe limitato dall’art. 20, comma
4, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi).
Per queste ragioni la
norma impugnata si porrebbe in contrasto sia con il principio di buon andamento
dell’amministrazione previsto all’art. 97 Cost. sia con l’art. 117, secondo
comma, lettere m) e s), Cost., in quanto derogherebbe «ai livelli minimi
uniformi previsti dalla legislazione statale nell’esercizio della competenza
esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente».
La Regione Lazio
replica che la norma impugnata risponderebbe a una esigenza di semplificazione
del procedimento di approvazione del piano delle aree naturali protette, diretta
a consentire la sua approvazione in tempi ragionevoli. La norma regionale,
inoltre, non si porrebbe in contrasto con l’art. 25, comma 2, della legge n.
394 del 1991, poiché quest’ultima non distingue tra gli organi regionali,
limitandosi a prevedere che il piano sia «approvato dalla regione». Errato
sarebbe ancora il richiamo della disciplina sul silenzio assenso, in quanto il
citato art. 20 della legge n. 241 del 1990 circoscrive espressamente il proprio
ambito di applicazione ai soli «procedimenti ad istanza di parte per il
rilascio di provvedimenti amministrativi», ipotesi, questa, che non
ricorrerebbe nel caso del procedimento di approvazione del piano delle aree
protette.
3.2.– Le questioni
promosse non sono fondate.
3.2.1.– Occorre
innanzitutto sottolineare che la norma impugnata (art. 5, comma 1, lettera g,
numero 2, della legge reg. Lazio n. 7 del 2018) interviene – analogamente ad
altre norme oggetto del presente giudizio (art. 5, comma 1, lettere h e i,
numeri 5 e 7) che saranno esaminate più avanti – sul tessuto normativo della
legge della Regione Lazio n. 29 del 1997, modificandone l’art. 26, comma 4.
Sebbene si tratti di norme aventi contenuti diversi e, quindi, di questioni
dotate di una propria autonomia, è opportuno inquadrarle unitariamente per poi
prendere in esame partitamente le censure prospettate.
La legge reg. Lazio n.
29 del 1997 si inserisce in un panorama legislativo che, dopo l’entrata in
vigore della legge n. 394 del 1991, ha visto le Regioni dotarsi ex novo di una
disciplina in materia o modificare leggi regionali preesistenti, al fine di
adeguare il proprio ordinamento al mutato quadro normativo statale.
L’intervento
legislativo del 1991 traccia i caratteri di quello che può essere definito
l’"ordinamento giuridico” delle aree protette, al cui interno sono previsti,
tra l’altro: una classificazione delle aree naturali protette (parchi
nazionali, parchi naturali regionali, riserve naturali statali e regionali:
art. 2); una serie di strumenti di collaborazione tra Stato, Regioni ed enti
locali e comunque di forme di coinvolgimento di questi ultimi (specialmente
artt. 1-bis, 3, 6, 7 e 22); una compiuta disciplina delle aree naturali
protette nazionali (artt. da 8 a 21), imperniata essenzialmente su due
soggetti, l’ente parco (art. 9) e la comunità del parco (art. 10), e su due
strumenti di regolamentazione delle attività, il regolamento del parco (art.
11) e il piano per il parco (art. 12); la sottoposizione al preventivo nulla
osta di tutte le concessioni o autorizzazioni per interventi al loro interno
(art. 13); un’ampia disciplina delle aree naturali protette regionali (artt. da
22 a 28).
In particolare, l’art.
23 della legge n. 394 del 1991 prevede che la legge regionale istitutiva del
parco naturale regionale «definisce la perimetrazione provvisoria e le misure
di salvaguardia, individua il soggetto per la gestione del parco e indica gli
elementi del piano per il parco di cui all’articolo 25, comma 1, nonché i
principi del regolamento del parco». L’art. 25 stabilisce che strumenti di
attuazione delle finalità del parco naturale regionale sono il piano per il
parco e il piano pluriennale economico e sociale per la promozione delle
attività compatibili.
Il legislatore statale
ha inteso dunque introdurre, per le aree protette nazionali e per quelle
regionali, due modelli normativi caratterizzati da forti analogie, individuando
nel piano per il parco e nel regolamento gli strumenti fondamentali per la
disciplina delle attività consentite al loro interno. Più precisamente, quanto
alle aree protette regionali, il piano per il parco «è adottato dall’organismo
di gestione del parco ed è approvato dalla regione»; inoltre, «[e]sso ha valore anche di piano paesistico e di piano
urbanistico e sostituisce i piani paesistici e i piani territoriali o
urbanistici di qualsiasi livello» (art. 25, comma 2).
Questa legge –
intervenuta prima della riforma costituzionale del Titolo V della Parte II
della Costituzione – intersecava al momento della sua entrata in vigore una
serie di competenze regionali (fra cui quelle di tipo concorrente in materia di
urbanistica, di caccia, di pesca, ma anche di acque minerali e termali, di cave
e torbiere) e non a caso, dunque, il suo art. 23 rimetteva, come continua a
rimettere, a una legge regionale l’istituzione del parco naturale regionale,
sia pure nel rispetto dei principi fondamentali individuati nell’art. 22.
All’indomani della
revisione costituzionale del 2001 questa Corte ha individuato l’ambito
principale di pertinenza della normativa in materia di aree naturali protette
nella «tutela dell’ambiente» (tra le più recenti, sentenze n. 180 del
2019, n. 245,
n. 206 e n. 121 del 2018,
n. 36 del 2017,
n. 212 del 2014,
n. 171 del 2012),
oltre che nella materia del «governo del territorio», e ha ricondotto in
particolare la previsione di strumenti regolatori delle attività esercitabili
all’interno del parco alla competenza statale in tema di standard minimi
uniformi di tutela ambientale (tra le altre, sentenze n. 180 del
2019, n. 245
e n. 121 del
2018, n. 74
del 2017).
3.2.2.– Nel caso in
esame, l’impugnato art. 5, comma 1, lettera g), numero 2), della legge reg.
Lazio n. 7 del 2018 ha modificato il procedimento di approvazione del piano
dell’area naturale protetta regionale prevedendo che essa avvenga all’esito di
un complesso iter che, dopo l’adozione del piano stesso da parte dell’ente di
gestione, vede protagonista la Giunta regionale, alla quale spetta il potere di
apportare eventuali modifiche e integrazioni al testo adottato dall’ente di
gestione, di pronunciarsi sulle osservazioni pervenute e di formulare al
Consiglio una proposta per l’approvazione. Al termine di questa fase
l’approvazione può conseguire, alternativamente, o a una delibera espressa di
approvazione da parte del Consiglio, o, in caso di inerzia del Consiglio
stesso, al riconoscimento del valore di approvazione alla delibera di proposta
della Giunta.
Il legislatore
regionale del Lazio ha inteso dunque dare attuazione alla previsione statale
dell’art. 25, comma 2, della legge n. 394 del 1991 (secondo cui il piano «è
approvato dalla regione»), facendo discendere l’approvazione del piano da parte
della Regione, dalla complessiva interazione fra Giunta e Consiglio e, per il
caso in cui il Consiglio sia rimasto inerte, non dalla sua mera inerzia, ma da
una già intervenuta determinazione della Giunta. Tale complessa attività, che
si configura come una sorta di subprocedimento nell’ambito del procedimento di
approvazione del piano, trova dunque in ogni caso la sua manifestazione
espressa – ciò che necessariamente ne esclude il preteso carattere tacito –
alternativamente nella deliberazione del Consiglio regionale o, ove questa non
intervenga nel termine, nella deliberazione della Giunta di approvazione della
proposta.
Plurime ragioni, del
resto, confermano l’impossibilità di ricondurre il meccanismo di approvazione
del piano disegnato dal legislatore regionale del Lazio all’istituto del
silenzio assenso, e in particolare al modello legale del silenzio assenso
previsto dalla legge n. 241 del 1990.
Innanzitutto è inconferente, come giustamente osserva la difesa della
resistente, il richiamo all’art. 20 della legge n. 241 del 1990, che concerne
la diversa ipotesi di «procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di
provvedimenti amministrativi». La norma che riguarda il silenzio assenso tra
amministrazioni pubbliche – quali sono nella specie l’ente di gestione che
adotta il piano dell’area naturale protetta regionale e l’organo regionale che
tale piano approva – sarebbe, semmai, l’art. 17-bis della stessa legge n. 241
del 1990. Ma nemmeno il riferimento a tale norma – che comunque il ricorrente
non opera – sarebbe stato decisivo, giacché nel caso di specie, come detto, la
relazione che si instaura, nell’ambito del procedimento di approvazione del
piano, fra l’ente di gestione, competente per l’adozione, e l’organo della
Regione, cui compete l’approvazione, vede concludersi ciascuna delle due fasi
procedimentali con un provvedimento espresso.
Nella sostanza si deve
osservare inoltre che, se la ratio della disposizione statale interposta (art.
25, comma 2, della legge n. 394 del 1991) risiede nell’esigenza di assicurare
una formale ed espressa assunzione di responsabilità da parte dell’organo
chiamato ad approvare il piano, non vi è dubbio che la determinazione della Giunta
regionale di proposta al Consiglio, come disciplinata dalla norma regionale in
esame, presenta tutti gli elementi necessari a riconoscerle il valore di
provvedimento espresso di approvazione nel caso di inutile decorso del termine
di intervento del Consiglio. Approvare espressamente il piano per il parco
equivale a introdurre nell’arena pubblica regionale i contenuti del piano
stesso, a sottoporli a discussione e a contestazione e, infine, a chiamare le
parti in gioco a un’assunzione di responsabilità sulla sua approvazione o, in
ipotesi, sulla sua bocciatura. Ciò è quanto avviene nel caso di specie nel
quale la Giunta, come prevede la disposizione contestata, prende atto del piano
adottato dall’ente di gestione, apporta eventuali modifiche e integrazioni e si
pronuncia «contestualmente sulle osservazioni pervenute» predisponendo così la
proposta al Consiglio, e ciò fa nella piena consapevolezza che tale sua
proposta è destinata a diventare definitiva e, come tale, formale atto di
approvazione del piano nel caso in cui il Consiglio non provveda nel termine
indicato.
Da ultimo, occorre
precisare che la norma statale interposta non preclude affatto che la legge
regionale affidi alla Giunta regionale il potere di approvare il piano. La
legge statale ha rimesso infatti al legislatore regionale il compito di
individuare l’organo deputato a siffatta approvazione, e le diverse leggi
regionali in materia hanno variamente modulato questa competenza, attribuendola
ora al Consiglio, ora alla Giunta e ora a entrambi.
Da quanto detto deriva
che la norma impugnata non si pone in contrasto con l’art. 25, comma 2, della
legge n. 394 del 1991. Si deve, pertanto, escludere la fondatezza delle
questioni promosse in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere m) e s),
Cost., per interposizione dell’anzidetta norma statale.
Per le stesse ragioni è
infondata la questione promossa per violazione dell’art. 97 Cost., in quanto
anch’essa basata sul presupposto che la norma impugnata preveda un meccanismo
di formazione tacita dell’atto di approvazione.
4.– L’art. 5, comma 1,
lettera h), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione
dell’art. 117, secondo comma, lettere l) e m), Cost., in relazione all’art. 4,
comma 6, del decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 160
(Regolamento per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo
sportello unico per le attività produttive, ai sensi dell’articolo 38, comma 3,
del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla
legge 6 agosto 2008, n. 133).
Il comma 1-bis,
introdotto dalla norma impugnata nell’art. 28 della legge reg. Lazio n. 29 del
1997, prevede che «[n]el rispetto di quanto previsto
dal decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222 (Individuazione di
procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di
attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi
amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi
dell’articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124), la richiesta per la
realizzazione degli interventi di cui all’articolo 6 del D.P.R. 380/2001 è
presentata allo sportello unico di cui all’articolo 5 del medesimo decreto. Per
tali fattispecie, il nulla osta di cui al comma 1 è reso entro sessanta giorni
dal ricevimento da parte dell’ente gestore della richiesta, decorsi inutilmente
i quali il titolo abilitativo si intende reso».
4.1.– Il ricorrente si
duole della genericità della norma regionale, che sottoporrebbe a nulla osta un
insieme indefinito di interventi, compresi quelli di «[a]ttività
edilizia libera» ai sensi dell’art. 6 del decreto del Presidente della
Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)». Tale previsione
risulterebbe in contraddizione con quanto previsto dal comma 1 dell’art. 28
della stessa legge reg. Lazio n. 29 del 1997 e soprattutto dall’art. 13 della legge
n. 394 del 1991, che sottopongono a preventivo nulla osta da parte dell’ente di
gestione il solo «rilascio di concessioni o autorizzazioni, relative ad
interventi, impianti ed opere all’interno» del parco nazionale (art. 13, comma
1, della legge n. 394 del 1991) o dell’area protetta regionale (art. 28, comma
1, della legge reg. Lazio n. 29 del 1997).
Di conseguenza, la
previsione del nulla osta riguarderebbe i soli interventi, impianti e opere per
i quali è necessario il rilascio di concessioni o autorizzazioni e tra questi
non rientrerebbero gli interventi di attività edilizia libera, che «sono
eseguiti senza alcun titolo abilitativo» (art. 6 d.P.R. n. 380 del 2001).
4.2.– Le questioni non
sono fondate, nei termini di seguito indicati.
Il ricorrente formula
le censure per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere l) e m), Cost.,
muovendo dal presupposto che il carattere generale della norma impugnata
comporti, per un verso, che anche gli interventi non soggetti a titolo
abilitativo siano sottoposti al regime del nulla osta, e, per altro verso, che
le modalità di rilascio del nulla osta per attività produttiva non siano
determinate.
Tale presupposto
interpretativo deve essere, però, escluso. Il ricorrente fonda le sue
argomentazioni sulla sostanziale sovrapposizione (quanto a fattispecie
regolate) del primo e del secondo periodo del nuovo comma 1-bis dell’art. 28
della legge reg. Lazio n. 29 del 1997, che invece hanno ad oggetto interventi
diversi. Il primo periodo si riferisce agli interventi di cui all’art. 6 del
d.P.R. n. 380 del 2001 al solo fine di prevedere che la richiesta per la loro
realizzazione deve essere presentata allo sportello unico. Il secondo periodo
si riferisce invece, con tutta evidenza, agli interventi per i quali è
necessario «il nulla osta di cui al comma 1» e prevede che se quest’ultimo non
è reso entro sessanta giorni dalla richiesta, il titolo abilitativo si intende
reso, riproducendo, per questo aspetto, il meccanismo già previsto dall’art.
13, comma 1, della legge n. 394 del 1991.
La disposizione
impugnata non altera dunque il regime del nulla osta, rispetto al quale resta
valido quanto disposto dall’art. 28, comma 1, della legge reg. Lazio n. 29 del
1997, e cioè che esso è richiesto per gli interventi soggetti a titolo abilitativo
edilizio.
In conclusione, le
censure prospettate si fondano su un erroneo presupposto interpretativo, che
determina la loro infondatezza nei termini sopra indicati.
5.– L’art. 5, comma 1,
lettera i), numero 5), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione
all’art. 13 della legge n. 394 del 1991.
La norma regionale
impugnata ha introdotto il comma 1-bis nell’art. 31 della legge reg. Lazio n.
29 del 1997. Tale comma 1-bis prevede che «[s]ono
consentiti e non rientrano negli obblighi di cui all’articolo 28 le ricorrenti
pratiche di conduzione delle aziende agricole che non comportino modificazioni
sostanziali del territorio ed in particolare: a) la manutenzione ordinaria del
sistema idraulico agrario e del sistema infrastrutturale aziendale esistenti;
b) l’impianto o l’espianto delle colture arboree e le relative tecniche
utilizzate; c) l’utilizzo delle serre stagionali non stabilmente infisse al
suolo; d) il transito e la sosta di mezzi motorizzati fuori dalle strade
statali, provinciali, comunali, vicinali gravate dai servizi di pubblico
passaggio e private per i mezzi collegati all’esercizio delle attività agricole
di cui al presente articolo; e) l’ordinamento produttivo ed i relativi piani
colturali promossi e gestiti dall’impresa agricola; f) la raccolta e il
danneggiamento della flora spontanea derivanti dall’esercizio delle attività
aziendali di cui all’articolo 2 della L.R. 14/2006».
5.1.– Secondo il
ricorrente la norma in esame escluderebbe dall’obbligo del nulla osta di cui
all’art. 28 della stessa legge reg. Lazio n. 7 del 2018 una serie di interventi
potenzialmente idonei a incidere, in maniera significativa, sull’ambiente
naturale, consentendone la realizzazione in tutte le zone dell’area protetta,
compresa la zona A di riserva integrale, senza prevedere alcuna modalità di
verifica e di controllo sugli interventi stessi.
La previsione si
porrebbe, quindi, in contrasto con l’art. 13 della legge n. 394 del 1991, che subordina
al preventivo nulla osta dell’ente parco il rilascio di concessioni o
autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del parco.
Il contrasto con l’art. 13 della legge n. 394 del 1991 determinerebbe la
violazione della competenza statale in materia di «tutela dell’ambiente» di cui
all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
La resistente si
difende con due argomenti: il primo volto a dimostrare l’inammissibilità della
censura e il secondo a sostegno della infondatezza.
5.2.– La questione
promossa è ammissibile e fondata.
5.2.1.– Il primo
argomento della difesa regionale riguarda la sua ammissibilità e muove dalla
considerazione che la norma impugnata non costituirebbe una novità introdotta
dal legislatore regionale del 2018, essendo già contemplata dal testo
previgente dell’art. 28 della legge reg. Lazio n. 29 del 1997. Pertanto, la
modifica censurata si sarebbe limitata a «esplicitare ulteriormente il
contenuto delle previgenti disposizioni regionali, per le quali era già escluso
il rilascio del nulla osta».
L’argomento non ha
tuttavia alcun rilievo, essendo questa Corte chiamata ad esaminare la
conformità a Costituzione delle norme oggi impugnate, a prescindere dal fatto
che fattispecie simili a quelle contestate fossero previste nella normativa
preesistente. Secondo il costante orientamento di questa Corte, infatti, non
osta all’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale in via
principale l’integrale coincidenza della disposizione impugnata con il testo di
altra anteriore non impugnata, atteso che l’istituto dell’acquiescenza non è
applicabile ai giudizi in via principale e che la norma impugnata ha comunque
l’effetto di reiterare la lesione da cui deriva l’interesse a ricorrere dello
Stato (tra le più recenti, sentenze n. 178 del
2019 e n.
171 del 2018). Peraltro nel caso di specie non si
è in presenza di un’ipotesi di questo tipo, giacché non è dato di rinvenire
nell’ordinamento regionale alcuna normativa del tutto sovrapponibile a quella
oggi all’esame di questa Corte.
5.2.2.– Il secondo
argomento, utilizzato dalla Regione a sostegno della non fondatezza della
questione, fa leva sul fatto che le «ricorrenti pratiche di conduzione delle
aziende agricole», per le quali la normativa impugnata esclude la necessità di
acquisire il nulla osta, sarebbero «in larga parte» coincidenti con le
fattispecie enumerate dall’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 (rubricato
«Attività edilizia libera») o «comunque teleologicamente ad esse
riconducibili», per le quali non è richiesto alcun titolo abilitativo. Già dal
tenore letterale della motivazione addotta (là dove si parla di interventi «in
larga parte» coincidenti) si deduce l’esistenza di un margine di non
coincidenza delle due elencazioni. In altre parole, la generica formulazione
della disposizione regionale è tale da consentire di escludere dall’obbligo del
nulla osta un insieme, anche piccolo, di pratiche di conduzione delle aziende
agricole: la norma impugnata consente infatti la deroga agli obblighi di cui
all’art. 28 per le «ricorrenti pratiche di conduzione delle aziende agricole
che non comportino modificazioni sostanziali del territorio», senza ulteriori
specificazioni, e la successiva elencazione non esaurisce il novero di queste
«pratiche», essendo preceduta dall’espressione «in particolare» che esclude il
carattere esaustivo degli interventi considerati.
Ne consegue la
violazione dell’art. 13 della legge n. 394 del 1991, che, come già rilevato,
prescrive che tutti gli interventi, gli impianti e le opere per i quali sia
necessario il rilascio di concessioni o autorizzazioni siano sottoposti al
preventivo nulla osta dell’ente parco.
Il contrasto con l’art.
13 determina, di riflesso, la violazione della competenza statale in materia di
tutela dell’ambiente, ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., e quindi
l’illegittimità costituzionale della norma impugnata.
6.– L’art. 5, comma 1,
lettera i), numero 7), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli
artt. 22, 23 e 25, comma 2, della legge n. 394 del 1991.
La norma regionale
impugnata ha modificato il comma 2-bis dell’art. 31 della legge reg. Lazio n.
29 del 1997, il quale, nel testo riformato, prevede che «Per favorire lo
svolgimento delle attività di cui al presente articolo, i soggetti di cui
all’articolo 57 e 57-bis della L.R. n. 38/1999 possono presentare il PUA,
redatto secondo le modalità ivi previste, nel rispetto delle forme di tutela di
cui alla presente legge. Il PUA redatto secondo le modalità della L.R. 38/1999,
previa indicazione dei risultati che si intendono perseguire, può prevedere la
necessità di derogare alle previsioni del piano dell’area naturale protetta
redatto ai sensi dell’articolo 26, comma 1, lettera f) ad esclusione delle
normative definite per le zone di riserva integrale».
6.1.– Il ricorrente
impugna il secondo periodo di questa disposizione (introdotto dal numero 7.2
dell’art. 5, comma 1, lettera i, della legge reg. Lazio n. 7 del 2018) perché,
consentendo che il PUA (piano di utilizzazione aziendale) possa derogare alle
previsioni del piano dell’area naturale protetta, si porrebbe in contrasto con
l’art. 25, comma 2, della legge n. 394 del 1991, secondo cui «[i]l piano per il
parco […] ha valore anche di piano paesistico e di piano urbanistico e
sostituisce i piani paesistici e i piani territoriali o urbanistici di
qualsiasi livello». Da questo deriverebbe il contrasto con l’art. 117, secondo
comma, lettera s), Cost., poiché la norma regionale impugnata ridurrebbe in peius i livelli minimi uniformi di tutela previsti dalla
legislazione statale in materia di tutela dell’ambiente. Nel caso di specie lo
«standard minimo uniforme di tutela nazionale» si estrinsecherebbe nella
predisposizione da parte degli enti gestori delle aree protette di strumenti
programmatici e gestionali per la valutazione di rispondenza delle attività
svolte alle esigenze ambientali.
Secondo la resistente,
la norma impugnata non avrebbe alcuna portata innovativa della disciplina
previgente. Il legislatore regionale si sarebbe limitato, infatti, «ad operare
una sorta di mero intervento di coordinamento» delle disposizioni recate dagli
artt. 8, comma 4, lettera d), 26, comma 1-bis, lettera b), e 31 della legge
reg. Lazio n. 29 del 1997, «riproducendone i medesimi contenuti sostanziali».
La difesa regionale aggiunge che le disposizioni citate sono state introdotte
dalla legge della Regione Lazio 10 novembre 2014, n. 10 (Modifiche alle leggi
regionali relative al governo del territorio, alle aree naturali protette
regionali ed alle funzioni amministrative in materia di paesaggio) e non sono
mai state oggetto di censure di illegittimità costituzionale.
6.2.– La questione
promossa è ammissibile e fondata.
Anche in questo caso la
resistente si difende rilevando che la norma impugnata non avrebbe «alcuna
portata innovativa», in quanto il legislatore regionale si sarebbe limitato «ad
operare una sorta di mero intervento di coordinamento» delle disposizioni
recate dagli artt. 8, comma 4, lettera d), 26, comma 1-bis, lettera b), e 31
della legge reg. Lazio n. 29 del 1997, «riproducendone i medesimi contenuti
sostanziali».
Al riguardo è agevole
rilevare che le ipotesi indicate nei citati articoli della legge reg. Lazio n.
29 del 1997 non coincidono affatto con quelle ricomprese nell’ampia e
indeterminata formula introdotta dalla disposizione impugnata, che consente al
PUA di disporre «la necessità di derogare alle previsioni del piano dell’area
naturale protetta».
Tale norma si pone in
contrasto non solo con gli artt. 22 e 23 della legge n. 394 del 1991, che
individuano nel piano del parco uno degli strumenti di attuazione delle
finalità del parco stesso, ma soprattutto con l’art. 25, comma 2, della
medesima legge, che riconosce al piano per il parco il «valore anche di piano
paesistico e di piano urbanistico» e che configura il piano in questione come
strumento di pianificazione sostitutivo dei piani paesistici e di quelli
territoriali o urbanistici di qualsiasi livello.
Poiché le anzidette
norme statali sono espressione della competenza esclusiva in materia di tutela
dell’ambiente – più volte sottolineata da questa Corte nelle pronunce
richiamate nel punto 3.2.1. – la norma impugnata viola l’art. 117, secondo
comma, lettera s), Cost.
Deve essere pertanto
dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, lettera i),
numero 7.2), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, che, inserendo il secondo
periodo del comma 2-bis dell’art. 31 della legge reg. Lazio n. 29 del 1997, ha
previsto che «[i]l PUA redatto secondo le modalità della L.R. 38/1999, previa
indicazione dei risultati che si intendono perseguire, può prevedere la
necessità di derogare alle previsioni del piano dell’area naturale protetta
redatto ai sensi dell’articolo 26, comma 1, lettera f) ad esclusione delle
normative definite per le zone di riserva integrale».
7.– L’art. 5, comma 6,
lettera c), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione
dell’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione agli artt. 36 e 37 del d.P.R.
n. 380 del 2001.
La norma regionale
impugnata ha introdotto l’art. 57-ter nella legge della Regione Lazio 22
dicembre 1999, n. 38 (Norme sul governo del territorio). La nuova disposizione,
rubricata «Definizione di edifici legittimi esistenti», prevede che «1. Per le
finalità di cui agli articoli 57 e 57-bis per "edifici legittimi esistenti” si
intendono anche quelli realizzati in assenza di titolo abilitativo in periodi
antecedenti alla data di entrata in vigore della legge 6 agosto 1967, n. 765
(Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150)
ovvero che siano stati oggetto di accertamento di conformità, da parte dei
responsabili dell’abuso, ai sensi degli articoli 36 e 37 del D.P.R. 380/2001.
2. Gli edifici di cui al comma 1 ubicati su terreni di proprietà di enti
pubblici, sono acquisiti al patrimonio dei medesimi enti previo accertamento,
da parte degli occupatori, dei requisiti previsti dal medesimo comma 1».
7.1.– Il ricorrente –
dopo aver richiamato il contenuto degli artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del
2001, relativi, rispettivamente, all’«[a]ccertamento
di conformità» e agli «[i]nterventi eseguiti in
assenza o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività e
accertamento di conformità» – afferma che la norma regionale impugnata,
attribuendo la qualifica di "edificio legittimo esistente” ai manufatti per i
quali si sono verificate le condizioni descritte nelle due norme statali
richiamate, sia pure per le sole finalità connesse ai piani di utilizzazione
aziendale in agricoltura e a quelli per le attività integrate e complementari,
si porrebbe in contrasto con i principi fondamentali della materia «governo del
territorio» alla quale sarebbe riconducibile la norma impugnata.
Secondo la difesa
regionale il ricorrente avrebbe travisato il senso della disposizione
impugnata, che si limiterebbe a richiamare puntualmente gli artt. 36 e 37 del
d.P.R. n. 380 del 2001, al solo fine di individuare le fattispecie cui trova
applicazione l’art. 57 della legge reg. Lazio n. 38 del 1999.
7.2.– La questione è
fondata.
Preliminarmente,
occorre precisare i termini della questione. L’art. 57 della legge reg. Lazio
n. 38 del 1999 disciplina i piani di utilizzazione aziendale (PUA), mentre
l’art. 57-bis disciplina i PUA per le attività integrate e complementari. Sono
tali quelle attività integrate e complementari all’attività agricola
compatibili con la destinazione di zona agricola, e in particolare: 1)
ricettività e turismo rurale; 2) trasformazione e vendita diretta dei prodotti
derivanti dall’esercizio delle attività agricole tradizionali; 3) ristorazione
e degustazione dei prodotti tipici derivanti dall’esercizio delle attività
agricole tradizionali; 4) attività culturali, didattiche, sociali, ricreative e
terapeutico-riabilitative; 5) accoglienza ed assistenza degli animali.
A loro volta, gli artt.
36 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001 riguardano, rispettivamente, l’accertamento
di conformità e gli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla segnalazione
certificata di inizio attività e accertamento di conformità. Nelle due ipotesi
sono consentiti il permesso in sanatoria e la sanatoria dell’intervento a
condizione che sussista la cosiddetta doppia conformità, cioè «se l’intervento
risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al
momento della presentazione della domanda». I citati artt. 36 e 37 recano
quindi norme di principio nella materia del governo del territorio (tra le più
recenti, sentenze
n. 2 del 2019, n. 68 del 2018,
n. 232 e n. 107 del 2017,
n. 101 del 2013).
Con la norma impugnata
il legislatore regionale pretende di attribuire la qualifica di «edifici
legittimi esistenti» a determinati edifici sia pure ai limitati fini dell’art.
57 e dell’art. 57-bis della legge reg. Lazio n. 38 del 1999, sostituendosi, per
questo verso, al legislatore statale cui spetta, nell’esercizio della
competenza concorrente in materia di governo del territorio, il compito di
porre le norme di principio che consentano di qualificare un immobile come
edificio legittimo esistente.
La natura di normativa
di principio della disciplina statale concernente il regime della sanatoria
degli interventi edilizi abusivi rende illegittimo l’intervento regionale che,
quand’anche fosse meramente ripetitivo delle previsioni statali, non potrebbe
superare il test di costituzionalità.
Deve essere, pertanto,
dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 6, lettera c),
della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, che ha introdotto l’art. 57-ter nella
legge reg. Lazio n. 38 del 1999.
8.– L’art. 33, comma 1,
lettera a), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione
dell’art. 117, secondo comma, lettere l) e m), Cost. La norma regionale impugnata
ha introdotto, nella legge della Regione Lazio 18 novembre 1999, n. 33
(Disciplina relativa al settore commercio), l’art. 4-bis, rubricato «Sportello
unico per le attività produttive».
8.1.– Il ricorrente
appunta le sue censure in particolare sul comma 3 del citato art. 4-bis, alla
cui stregua «[a]i fini della presentazione e verifica formale della
segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), i soggetti interessati
possono avvalersi della agenzia per le imprese in conformità alle disposizioni
del decreto del Presidente della Repubblica 9 luglio 2010, n. 159 (Regolamento
recante i requisiti e le modalità di accreditamento delle agenzie per le
imprese, a norma dell’articolo 38, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008,
n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133)».
Più precisamente, la
difesa erariale sottolinea che, ai sensi dell’art. 5, comma 4, del decreto del
Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 160 (Regolamento per la
semplificazione ed il riordino della disciplina sullo sportello unico per le
attività produttive, ai sensi dell’articolo 38, comma 3, del decreto-legge 25
giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008,
n. 133), la verifica formale della SCIA spetta esclusivamente allo sportello
unico per le attività produttive (SUAP), mentre all’agenzia per le imprese è
attribuita la funzione di rilascio di «una dichiarazione di conformità,
comprensiva della SCIA o della domanda presentata dal soggetto interessato
corredata dalle certificazioni ed attestazioni richieste, che costituisce
titolo autorizzatorio per l’esercizio dell’attività e per l’avvio immediato
dell’intervento dichiarato» (art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 160 del 2010).
La difesa statale mette
in evidenza, altresì, il fatto che il d.P.R. n. 159 del 2010, citato nella
disposizione impugnata, non contiene alcuna menzione della verifica formale in
capo alle agenzie per le imprese, poiché concerne la sola disciplina dei
requisiti per l’accreditamento delle stesse.
Pertanto, l’art. 33,
comma 1, lettera a), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, nella parte in cui
ha introdotto il comma 3 dell’art. 4-bis della legge reg. Lazio n. 33 del 1999,
sarebbe in contrasto con la normativa statale richiamata e quindi con l’art. 117,
secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla legge statale la disciplina
dell’ordinamento civile, e con l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in
quanto la disciplina in materia di SCIA attiene ai livelli essenziali delle
prestazioni.
La resistente sostiene
che l’interpretazione proposta dal ricorrente non è corretta e che la
disposizione regionale ribadisce la possibilità, in via generale, per i
soggetti interessati di avvalersi del supporto e dell’assistenza tecnica
dell’agenzia per le imprese, ai fini della predisposizione, della verifica e
della presentazione della SCIA, senza incidere sulle modalità della
presentazione stessa e sull’iter istruttorio successivo a questa.
8.2.– Nelle more del
presente giudizio, il censurato art. 4-bis, comma 3, della legge reg. Lazio n.
33 del 1999 è stato modificato dall’art. 16, comma 6, della legge della Regione
Lazio 20 maggio 2019, n. 8 (Disposizioni finanziarie di interesse regionale e
misure correttive di leggi regionali varie), con l’inserimento, tra l’altro,
della seguente precisazione: «in conformità a quanto previsto dalla normativa
statale vigente in materia».
Pertanto, il testo del
comma 3 dell’art. 4-bis è risultato del seguente tenore: «Ai fini della
presentazione della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), i
soggetti interessati possono avvalersi dell’agenzia per le imprese di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 9 luglio 2010, n. 159 (Regolamento
recante i requisiti e le modalità di accreditamento delle agenzie per le imprese,
a norma dell’articolo 38, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112,
convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), in
conformità a quanto previsto dalla normativa statale vigente in materia».
Successivamente, è
intervenuta la legge della Regione Lazio 6 novembre 2019, n. 22 (Testo Unico
del Commercio), la quale, nel contesto del riordino della normativa regionale
in materia di commercio, ha disposto, a decorrere dall’8 novembre 2019: a)
all’art. 107, comma 1, lettera mm), l’abrogazione del comma 6 dell’art. 16
della legge reg. Lazio n. 8 del 2019; b) all’art. 107, comma 1, lettera d),
l’abrogazione dell’intera legge reg. Lazio n. 33 del 1999; c) e all’art. 13,
comma 3, la riproduzione di una disposizione del tutto coincidente con quella
recata, prima della sua abrogazione, dall’art. 4-bis, comma 3, della legge reg.
Lazio n. 33 del 1999, come modificato dall’art. 16, comma 6, della legge reg.
Lazio n. 8 del 2019.
Pertanto, a decorrere
dall’8 novembre 2019, la legge reg. Lazio n. 33 del 1999 è stata abrogata e il
suo contenuto – ivi compreso l’art. 4-bis, comma 3, nel testo modificato – è
stato riversato nella legge reg. Lazio n. 22 del 2019.
Dunque, la disposizione
impugnata è stata in vigore, nel suo testo originario, dal 24 ottobre 2018 al
22 maggio 2019. A partire da quest’ultima data il testo è stato modificato con
le aggiunte di cui si è dato conto sopra e in questa versione è confluito nel
testo unico in materia di commercio (legge reg. Lazio n. 22 del 2019).
La modifica descritta,
pur risultando satisfattiva delle doglianze del ricorrente, non determina la
cessazione della materia del contendere. La disposizione impugnata è stata
infatti in vigore, nel suo testo originario, per un arco temporale di quasi
sette mesi (dal 24 ottobre 2018 al 22 maggio 2019) e la sua formulazione
letterale non consente di escludere che abbia avuto applicazione medio tempore.
Le relative questioni
di legittimità costituzionale devono essere pertanto esaminate nel merito.
8.3.– Le questioni non
sono tuttavia fondate, nei termini di seguito indicati.
In proposito coglie nel
segno la difesa regionale, la quale contesta l’erroneità dell’interpretazione
operata dal ricorrente. Dal dato letterale non si evince, infatti,
un’interferenza con le attribuzioni dell’agenzia per le imprese. La
disposizione in esame deve essere, dunque, interpretata nel senso di escludere
l’attribuzione di nuovi compiti all’agenzia per le imprese, le cui funzioni
restano quelle indicate dalla normativa statale e in particolare dall’art. 6,
comma 2, del d.P.R. n. 160 del 2010.
Deve essere quindi
dichiarata la non fondatezza delle questioni in quanto basate su un erroneo
presupposto interpretativo.
9.– L’art. 84, comma 1,
lettera b), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione
dell’art. 117, secondo comma, lettere l) e m), Cost.
La norma regionale
censurata ha introdotto l’art. 4-bis nella legge della Regione Lazio 16 luglio
1998, n. 30 (Disposizioni in materia di trasporto pubblico locale). Il nuovo
art. 4-bis, rubricato «Servizi sussidiari, integrativi e complementari al
trasporto pubblico di linea», prevede che «1. Ferma restando la disciplina dei
servizi di noleggio di autobus con conducente di cui alla legge 11 agosto 2003,
n. 218 (Disciplina dell’attività di trasporto di viaggiatori effettuato
mediante noleggio di autobus con conducente) e successive modifiche, al fine di
contribuire al decongestionamento del traffico mediante l’utilizzo di veicoli ad
elevata capacità di trasporto di persone e al contenimento dell’inquinamento, i
servizi di noleggio di autobus con conducente di cui alla L. 218/2003 possono
essere impiegati, sulla base di contratti con data certa della durata non
inferiore a trenta giorni, stipulati con soggetti pubblici o privati, comunità,
associazioni, in servizio integrativo del trasporto pubblico, come servizi di
trasporto pubblico non di linea, in modo non continuativo o periodico su
itinerari e secondo orari stabiliti di volta in volta. 2. L’inizio del servizio
è subordinato alla preventiva segnalazione certificata di inizio attività
(SCIA) di cui all’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in
materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi) e successive modifiche, presentata all’ente territoriale nel
cui territorio il servizio è svolto, secondo i criteri di cui agli articoli 3 e
10, comma 2».
9.1.– Secondo il
ricorrente, il rinvio, operato dalla norma impugnata, agli artt. 3 e 10, comma
2, della legge reg. Lazio n. 30 del 1998, relativi, rispettivamente, alla
classificazione dei servizi di trasporto pubblico locale in comunali,
provinciali e regionali, e alle funzioni conferite al riguardo ai Comuni,
sarebbe inconferente. Ne deriverebbe il contrasto con la normativa statale e
quindi con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla legge
statale la disciplina dell’ordinamento civile, e con l’art. 117, secondo comma,
lettera m), Cost., in quanto la disciplina in materia di SCIA attiene ai
livelli essenziali delle prestazioni, ai sensi dell’art. 29, comma 2-ter, della
legge n. 241 del 1990.
La resistente ritiene
che le censure mosse siano generiche e indeterminate, e quindi inammissibili.
Il ricorrente si sarebbe limitato infatti a rilevare un presunto contrasto con
la normativa statale citata, omettendo di darne contezza.
9.2.– Le questioni sono
inammissibili.
Anche in questo caso
deve essere condiviso l’assunto della difesa regionale. Le censure mosse dal ricorrente
si presentano del tutto vaghe e prive di una adeguata motivazione. Non si
comprende, tra l’altro, sotto quale profilo rilevi l’asserita inconferenza del rinvio, operato dalla norma impugnata,
agli artt. 3 e 10, comma 2, della legge reg. Lazio n. 30 del 1998. Né tantomeno
sono chiare le ragioni per le quali l’aver subordinato l’inizio del servizio di
trasporto pubblico locale alla preventiva segnalazione certificata di inizio
attività costituisca causa di illegittimità costituzionale. Mancano, dunque,
gli elementi, anche minimi, per esaminare nel merito le censure mosse dal
ricorrente (ex plurimis, sentenze n. 198 del
2019 e n.
245 del 2018).
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separata
pronuncia la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale
promosse con il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri indicato in
epigrafe;
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1,
lettera i), numero 5), della legge della Regione Lazio 22 ottobre 2018, n. 7
(Disposizioni per la semplificazione e lo sviluppo regionale), che ha
introdotto il comma 1-bis nell’art. 31 della legge della Regione Lazio 6
ottobre 1997, n. 29 (Norme in materia di aree naturali protette regionali);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1,
lettera i), numero 7.2), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, che ha
introdotto il secondo periodo del comma 2-bis dell’art. 31 della legge reg.
Lazio n. 29 del 1997;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 6,
lettera c), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, che ha introdotto l’art.
57-ter nella legge della Regione Lazio 22 dicembre 1999, n. 38 (Norme sul
governo del territorio);
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art.
5, comma 1, lettera g), numero 2), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018,
promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento agli artt.
97 e 117, secondo comma, lettere m) e s), della Costituzione, con il ricorso
indicato in epigrafe;
5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 5, comma 1, lettera h), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018,
promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art.
117, secondo comma, lettere l) e m), Cost., con il ricorso indicato in
epigrafe;
6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 33, comma 1, lettera a), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018,
promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art.
117, secondo comma, lettere l) e m), Cost., con il ricorso indicato in
epigrafe;
7) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 84, comma 1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018,
promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art.
117, secondo comma, lettere l) e m), Cost., con il ricorso indicato in
epigrafe.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre
2019.
F.to:
Aldo CAROSI, Presidente
Daria de PRETIS,
Redattore
Filomena PERRONE,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 27 dicembre 2019.