ANNO 2018
Commenti alla decisione di
I. Pierluigi Tomaiuoli, L’"altolà” della Corte
costituzionale alla giurisdizione dinamica (a margine della sentenza n. 6 del
2018),
in questa Rivista, Studi 2018/I
II. Giuseppe
Monaco, Il
rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia come tentativo della Cassazione di
superare l’interpretazione dell’art. 111, comma 8, Cost., fornita dalla
Consulta. In margine all’ordinanza delle Sezioni unite n. 19598 del 2020, per
g.c. del Forum
di Quaderni costituzionali
III. Roberto
Carbone, Ricorsi
reciprocamente escludenti, ricorso per motivi di giurisdizione e obbligo di
rinvio pregiudiziale: lo scambio dialettico tra Corte costituzionale, Corte di
Cassazione, Consiglio di Stato e Corte di Giustizia, per g.c. del Forum
di Quaderni costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo
CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de
PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art.
69, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali
sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche),
promossi dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza
dell’8 aprile 2016, dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania
con ordinanza
del 24 maggio 2016 e dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio
con ordinanza
del 26 aprile 2016, iscritte, rispettivamente, ai nn.
107, 218 e 260 del registro ordinanze 2016, e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica, nn. 22, 44 e 52, prima
serie speciale, dell’anno 2016.
Visti gli atti di
costituzione di A. N., dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS),
dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, della Regione Campania, e di
M.C. P. e G. R., quest’ultimo atto fuori termine;
udito nella
udienza pubblica del 5 dicembre 2017 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio;
uditi gli
avvocati Sabatino Rainone per A. N., Maria Morrone
per l’INPS, Angelo Abignente per l’Università degli Studi di Napoli Federico II
e Rosanna Panariello per la Regione Campania.
1.− Con ordinanza iscritta al n. 107 r.o.
2016, le sezioni unite civili della Corte di cassazione hanno sollevato, in
riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del decreto legislativo 30
marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche), «nella parte in cui prevede che le
controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro
anteriore al 30.06.98 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza,
entro il 15 settembre 2000».
1.1.− Il rimettente espone in punto di fatto che:
− alcuni medici svolgenti attività professionale remunerata a gettone
hanno proposto ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione
avverso la sentenza del Consiglio di Stato, sezione sesta, 30 luglio 2013, n.
4001, con cui era stata confermata la decisione del Tribunale amministrativo
regionale per la Campania, che aveva dichiarato inammissibile il ricorso volto
all’accertamento della sussistenza di un rapporto di impiego di fatto alle
dipendenze del Policlinico dell’Università degli studi di Napoli Federico II
(d’ora in avanti: l’Università di Napoli o l’Università), e alla sua condanna,
unitamente all’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS), alla
conseguente regolarizzazione contributiva;
− la declaratoria di inammissibilità si fondava sulla intervenuta
decadenza prevista dall’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001,
trattandosi di domanda attinente a un periodo del rapporto di lavoro anteriore
al 30 giugno 1998, attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo ma proposta dopo il 15 settembre 2000;
− successivamente alla menzionata decisione del Consiglio di Stato,
la Corte europea dei diritti dell’uomo, adita da altri medici che versavano
nella medesima condizione giuridica dei ricorrenti, con le sentenze Mottola contro Italia e Staibano e altri contro
Italia del 4 febbraio 2014 (d’ora in avanti: sentenze Mottola e Staibano), aveva
accertato una duplice violazione degli obblighi convenzionali da parte dello
Stato italiano;
− in particolare, la Corte EDU aveva accertato la violazione
dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848,
relativamente al diritto di accesso a un tribunale, poiché la decadenza
prevista dalla norma censurata avrebbe «posto un ostacolo procedurale
costituente sostanziale negazione del diritto invocato»; nonché dell’art. 1 del
primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, poiché il diritto di
credito pensionistico dei ricorrenti, in quanto riconosciuto dalla
giurisprudenza interna, costituiva ai sensi del citato parametro convenzionale
un «bene» della persona e la decisione del Consiglio di Stato aveva svuotato la
loro legittima aspettativa al suo conseguimento;
− sulla base di tali premesse i ricorrenti hanno proposto ricorso per
cassazione, sostenendo che, alla luce delle pronunce Mottola e Staibano,
l’interpretazione dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 adottata
dal Consiglio di Stato si risolve in un diniego di tutela giurisdizionale in
violazione dell’art. 6 della CEDU, sanzionabile davanti alle sezioni unite ai
sensi dell’art. 362, primo comma, del codice di procedura civile.
1.2.− In punto di rilevanza, il rimettente riferisce che la decisione
gravata è stata depositata in data 30 luglio 2013, con la conseguenza che, in
mancanza di notificazione, la decadenza dall’impugnazione si sarebbe realizzata
allo scadere di un anno dalla pubblicazione della sentenza, ai sensi dell’art.
327, primo comma, cod. proc. civ., nella formulazione antecedente la riforma introdotta
dall’art. 46 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo
economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo
civile).
Il ricorso per cassazione, notificato alle controparti il 21 marzo e il 19
aprile 2014, sarebbe quindi tempestivo, con la conseguenza che, «non essendosi
ancora creato un giudicato al riguardo, la questione della corretta
affermazione della giurisdizione è tuttora aperta».
Sempre in punto di rilevanza, le sezioni unite ritengono sussistenti i
presupposti che giustificano il ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione
avverso la sentenza del Consiglio di Stato.
Il rimettente ricorda che, secondo la propria giurisprudenza consolidata,
il sindacato esercitato dalla Corte di cassazione sulle decisioni rese dal
Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 362, primo comma, cod. proc. civ. e
dell’art. 110 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione
dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo
per il riordino del processo amministrativo), è consentito ove si richieda
l’accertamento dell’eventuale sconfinamento del secondo dai limiti esterni
della giurisdizione, per il riscontro di vizi che riguardano l’essenza della
funzione giurisdizionale e non il modo del suo esercizio, restando, per
converso, escluso ogni sindacato sui limiti interni, cui attengono gli errores in iudicando o in procedendo.
A tale stregua, il rimedio in questione sarebbe esperibile nell’ipotesi in
cui la sentenza del Consiglio di Stato abbia violato l’ambito della
giurisdizione in generale − esercitandola nella sfera riservata al
legislatore o alla discrezionalità amministrativa, oppure, al contrario,
negandola sull’erroneo presupposto che la domanda non possa formare oggetto in
modo assoluto di funzione giurisdizionale − ovvero nell’ipotesi in cui
abbia violato i cosiddetti limiti esterni della giurisdizione, allorquando,
cioè, si pronunci su materia attribuita al giudice ordinario o ad altro giudice
speciale, oppure neghi la sua giurisdizione nell’erroneo convincimento che
appartenga ad altro giudice.
Secondo il rimettente, però, quanto al confine oltre il quale le sezioni
unite non possono spingersi nell’esercizio di tale sindacato, si sarebbe andata
affermando una nozione di limite esterno «collegato all’evoluzione del concetto
di giurisdizione», «da intendersi in senso dinamico, nel senso dell’effettività
della tutela giurisdizionale».
In quest’ottica, il giudizio sulla giurisdizione non sarebbe più uno
strumento di «accertamento del potere di conoscere date controversie attribuito
ai diversi ordini di giudici di cui l’ordinamento è dotato», ma costituirebbe
uno strumento per affermare il diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti
e degli interessi: sarebbe norma sulla giurisdizione non solo quella che
individua i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche
quella che dà contenuto a quel potere stabilendo le forme di tutela attraverso
le quali esso si estrinseca (si cita la sentenza delle sezioni unite 23
dicembre 2008, n. 30254).
A tale principio − prosegue il rimettente − le sezioni unite
hanno fatto ricorso in un caso in cui il Consiglio di Stato aveva interpretato
una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione
europea per come risultante da una pronuncia della Corte di giustizia
dell’Unione europea successivamente intervenuta; in tale caso, la cassazione
della sentenza è stata ritenuta indispensabile per impedire che il
provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo, esplicasse i suoi
effetti in contrasto con il diritto comunitario (si cita la sentenza delle
sezioni unite 6 dicembre 2015, n. 2403).
Nel caso di specie, pur fondandosi la tutela giurisdizionale asseritamente
negata non sul diritto dell’Unione ma su quello convenzionale, la situazione
giuridica creatasi sarebbe analoga, perché anche in questo caso il giudice
dell’impugnazione si troverebbe nella condizione di evitare che la decisione
gravata, una volta divenuta definitiva, esplichi i suoi effetti in maniera
contrastante con norme sovranazionali cui lo Stato italiano è tenuto a dare
applicazione.
Ad avviso delle sezioni unite, dunque, la situazione in esame rientrerebbe
in uno di quei casi estremi in cui il giudice amministrativo adotta una
decisione anomala o abnorme, omettendo l’esercizio del potere giurisdizionale
per errores in iudicando o in procedendo che danno
luogo al superamento del limite esterno.
1.3.− Nel merito, il rimettente osserva che, in ordine alle
controversie relative al periodo del rapporto di lavoro antecedente al 30
giugno 1998 iniziate dopo il 15 settembre 2000, si era creato un primo
orientamento giurisprudenziale favorevole a ricomprenderle nella giurisdizione
del giudice ordinario; nel tempo, tuttavia, era prevalso un diverso
orientamento sia della Corte di cassazione sia del Consiglio di Stato che
ricollega alla scadenza del termine la radicale impossibilità di fare valere il
diritto dinanzi ad un giudice.
Tale orientamento − proseguono le sezioni unite − è stato
avallato dalla Corte costituzionale, la quale ha ritenuto la norma conforme
all’art. 3 Cost., in quanto la disparità di trattamento tra dipendenti privati
e pubblici è giustificata dall’esigenza di contenere gli effetti connessi al
trasferimento della giurisdizione da un plesso all’altro potenzialmente
pregiudizievoli del regolare svolgimento dell’attività giurisdizionale, e
dall’ampia discrezionalità del legislatore nella disciplina della successione
delle leggi processuali nel tempo; nonché conforme all’art. 24 Cost., non
essendo ingiustificata in sé la previsione di un termine di decadenza e non
essendo il termine specifico di oltre ventisei mesi tale da rendere «oltremodo
difficoltosa la tutela giurisdizionale» (si cita l’ordinanza n. 382 del 2005).
La norma così interpretata, tuttavia, si porrebbe in contrasto con l’art. 6
della CEDU,
come accertato dalla Corte di Strasburgo con le sentenze Mottola e Staibano, secondo cui la
decadenza in questione porrebbe un ostacolo procedurale costituente una
sostanziale negazione del diritto invocato ed escluderebbe un giusto equilibrio
tra interessi pubblici e privati in gioco.
Stante l’insuperabilità in via interpretativa del contrasto tra la norma
interna e quella convenzionale, il rimettente ritiene di dovere sollevare
questione di legittimità costituzionale della prima per contrasto con l’art. 117, primo comma,
Cost., nella parte in cui prevede che le controversie attinenti al periodo
del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state
proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000.
1.4.− Si è costituito in giudizio l’INPS, eccependo l’inammissibilità
e la manifesta infondatezza della questione sollevata e riservandosi di meglio
illustrare nel prosieguo le proprie difese.
1.5.− Con successiva memoria depositata in termini, l’INPS ha in
particolare eccepito l’inammissibilità della questione per mancanza di una
idonea motivazione circa la possibilità di interpretare la norma in maniera
costituzionalmente orientata, omissione, questa, che ridonderebbe anche in
difetto di motivazione sulla rilevanza.
1.6.− La questione sarebbe inammissibile anche per difetto di
rilevanza.
Secondo l’INPS, il ricorso per cassazione avverso le sentenze del Consiglio
di Stato è possibile solo laddove il secondo abbia violato l’ambito della
giurisdizione in generale, ad esempio esercitandola nella sfera riservata al
legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero nella ipotesi in cui
abbia violato i limiti esterni della giurisdizione, pronunciandosi in materia
attribuita alla cognizione del giudice ordinario o di altro giudice. Tali
ipotesi non ricorrerebbero nel caso di specie e nemmeno sarebbe configurabile
una decisione anomala o abnorme con cui sia stato omesso l’esercizio del potere
giurisdizionale.
L’impugnata sentenza del Consiglio di Stato sarebbe tutt’altro che
eversiva, ponendosi, per contro, nel solco tracciato dall’adunanza plenaria con
la sentenza 21 febbraio 2007, n. 4 e dalla Corte costituzionale con le
ordinanze n. 197
del 2006, n.
382 e n. 213
del 2005, n.
214 del 2004.
1.7.− Nel merito, la questione sarebbe infondata, in primo luogo
perché la lesione dei diritti previdenziali dei ricorrenti accertata dalla
Corte di Strasburgo non sarebbe direttamente ed esclusivamente connessa alla
mera esistenza del termine di decadenza di cui all’art. 69, comma 7, del d.lgs.
n. 165 del 2001, ma piuttosto dovuta al mutamento della giurisprudenza, che
aveva finito con l’attribuire alla scadenza di quel termine la conseguenza
della radicale impossibilità di far valere i loro diritti in giudizio.
Ed infatti, al punto 51 della sentenza Staibano, la
stessa Corte EDU avrebbe riconosciuto che la fissazione del termine, non
eccessivamente breve, del 15 settembre 2000 risponde alla legittima e
condivisibile finalità, di interesse generale, della buona amministrazione
della giustizia, attraverso una ripartizione di competenze coerente e razionale
tra il giudice civile e quello amministrativo e l’apposizione di limiti
temporali certi per incardinare le controversie in materia di pubblico impiego.
Secondo l’INPS, andrebbe quindi data piena continuità al consolidato
orientamento della Corte costituzionale, che ha ritenuto legittimo il termine
di decadenza prima previsto dall’art. 45, comma 17, del decreto legislativo 31
marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di
rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle
controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione
dell’articolo 11, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59) e poi trasfuso nella
norma oggi censurata.
1.8.− Si è costituita anche l’Università di Napoli, eccependo
innanzitutto l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza.
Secondo l’Università, con il ricorso per cassazione i ricorrenti non hanno
inteso ottenere dalle sezioni unite chiarimenti in ordine alla giurisdizione
quanto, piuttosto, un ulteriore grado di giudizio nel merito della
controversia, inammissibilmente censurando un asserito error
in iudicando.
L’estensione del concetto di limite esterno in chiave dinamica e di
effettività della tutela giurisdizionale operata dal rimettente, per quanto
suggestiva, non sarebbe condivisibile, «proprio alla luce del costante
orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale "l’evoluzione
del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva
delle parti non giustifica il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di
Stato, ai sensi dell’art. 111 Cost., u.c., quando,
come nella specie, non si verta in ipotesi di aprioristico diniego di
giurisdizione, ma la tutela si assuma negata dal giudice speciale in
conseguenza di errori di giudizio che si prospettino dal medesimo commessi in
relazione allo specifico caso sottoposto al suo esame (Sez. Un., 16 gennaio
2014, n. 771)” (Cass. Civ., Sez. Un., 29.2.2016, n.
3915)».
Il ricorso per cassazione, dunque, non essendo stato proposto per motivi
attinenti alla giurisdizione, mai denegata, non potrebbe che essere dichiarato
inammissibile dal giudice a quo, a nulla rilevando l’eventuale sopravvenuta
illegittimità costituzionale della norma applicata dal Consiglio di Stato. In
altri termini, la questione difetterebbe di rilevanza perché le sezioni unite
potrebbero giungere alla definizione del giudizio a prescindere dall’esito
della questione di costituzionalità.
1.9.− Nel merito, andrebbe considerato, in primo luogo, che ai medici
"gettonati” è stata ampiamente riconosciuta la possibilità di accesso alla
giustizia per ottenere il riconoscimento del diritto al versamento dei
contributi previdenziali, come sarebbe comprovato dal fatto che molti colleghi
dei ricorrenti hanno ottenuto la piena soddisfazione delle loro pretese.
La legittimità della scelta del legislatore di prevedere un termine di
decadenza, del resto, sarebbe stata già accertata dalla Corte costituzionale
con l’ordinanza n.
213 del 2005, che ha giustificato tale misura processuale con effetti
sostanziali, «in quanto […] è idonea a prevenire il temuto sovraccarico di
entrambi i giudici investiti del contenzioso del pubblico impiego ed idonea,
altresì, a realizzare tra di essi un ordinato riparto di tale contenzioso, con
l’evitare che per la medesima concreta controversia fosse previsto il
succedersi, nel tempo, della giurisdizione di un giudice a quella di una altro
giudice».
1.10.− Con memoria depositata fuori termine, si sono costituiti M.C.
P. e G. R., parti nel giudizio a quo, aderendo alle argomentazioni spese
nell’ordinanza di rimessione a sostegno della rilevanza e non manifesta
infondatezza della questione di costituzionalità sollevata.
1.11.− Con memoria depositata fuori termine l’Università di Napoli ha
ulteriormente illustrato le ragioni a sostegno della inammissibilità e non
fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dalle sezioni
unite.
2.− Con ordinanza iscritta al n. 218 r.o.
2016, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania ha sollevato, in
riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., questione di legittimità
costituzionale dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, «nella parte
in cui non consente di proporre al G.O. senza incorrere in decadenza, dopo il
15/9/2000, l’azione relativa ai fatti connessi al rapporto di impiego anteriori
al 30/6/1998».
2.1.− Il rimettente espone in punto di fatto che:
− la ricorrente ha riassunto presso il TAR il ricorso proposto
davanti al Tribunale di Napoli, che, con sentenza 22 ottobre 2012, n. 281,
aveva declinato la giurisdizione in favore del giudice amministrativo, in
applicazione del citato art. 69, comma 7;
− la causa ha ad oggetto il risarcimento dei danni subiti per effetto
del comportamento della Regione, che avrebbe illegittimamente escluso la
ricorrente dal concorso riservato per l’immissione nel ruolo del personale in
servizio presso i centri di formazione professionale con rapporto di lavoro a
tempo indeterminato, nonché per la tardiva esecuzione delle sentenze del TAR e
del Consiglio di Stato che avevano statuito l’illegittimità di tale esclusione;
− che, infatti, la ricorrente nel giudizio amministrativo previamente
instaurato aveva richiesto il riconoscimento del servizio prestato presso
l’Ente nazionale ACLI istruzione professionale (ENAIP) fino al 1982 ovvero la
retrodatazione della sua nomina anche a fini economici a far data dal 1°
settembre 1986, ma la sua domanda era stata definitivamente rigettata dal
Consiglio di Stato con sentenza del 23 marzo 2009, n. 1752, che, in
motivazione, aveva tuttavia rilevato come la ritardata assunzione in servizio
fosse generatrice di responsabilità per danni.
2.2.− Ciò esposto in punto di fatto, il rimettente ritiene sussistere
la propria giurisdizione sulla controversia risarcitoria relativa a fatti
inerenti al periodo anteriore al 30 giugno 1998, in quanto comunque collegati
al rapporto d’impiego, senonché l’azione sarebbe tardiva ai sensi dell’art. 69,
comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, per come ormai interpretato dalla pacifica
giurisprudenza del giudice ordinario e amministrativo.
2.3.− Il TAR Campania deduce poi che le sezioni unite della Corte di
cassazione, con ordinanza dell’8 aprile 2016, n. 6891, hanno sollevato
questione di legittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in
cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del
rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state
proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000; analogamente ha
fatto il TAR Lazio con ordinanza del 26 aprile 2016, n. 4776, riguardante una
controversia risarcitoria per infortunio in itinere occorso ad un pubblico
dipendente.
Il Tribunale campano reputa quindi necessario rimettere alla Corte
costituzionale la questione di legittimità della norma citata, «ravvisandone la
rilevanza nel presente processo e la non manifesta infondatezza, alla stregua
delle enunciazioni contenute nell’ordinanza di rimessione delle Sezioni Unite e
per contrasto con il medesimo parametro costituzionale dell’art. 117, primo comma,
e dell’interposta norma dell’art. 6 della Convenzione
EDU».
2.4.− L’applicazione della norma censurata condurrebbe nel caso in
esame a dichiarare inammissibile il ricorso, in quanto l’azione è stata
proposta oltre il termine del 15 settembre 2000. Secondo il rimettente,
sussisterebbe la rilevanza della questione riguardata «sotto l’aspetto
dell’individuazione del giudice chiamato a conoscere della controversia».
«In tale prospettiva» si dovrebbe dubitare della legittimità costituzionale
della norma in questione, «nella parte in cui stabilisce un effetto
decadenziale e non consente di proporre davanti al G.O., dopo il 15 settembre
2000, l’azione relativa a fatti connessi al rapporto di impiego anteriori al 30
giugno 1998».
Così posta, la questione avrebbe «sicura rilevanza» nel processo, in quanto
l’illegittimità della norma in tali termini comporterebbe che la cognizione sulla
controversia spetterebbe al giudice ordinario e quindi condurrebbe alla
necessità per il TAR di sollevare conflitto negativo di giurisdizione ai sensi
dell’art. 11, comma 3, del d.lgs. n. 104 del 2010.
2.5.− In punto di non manifesta infondatezza, il TAR Campania ritiene
che la norma − come indicato dalla Cassazione − sia in contrasto
con l’art. 6, comma 1, della CEDU, ponendo un ostacolo procedurale che
costituisce una sostanziale negazione del diritto invocato ed escludendo un
giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e privati in gioco.
La riconduzione a legittimità della disposizione in parola si avrebbe con
la devoluzione al giudice ordinario della cognizione delle controversie in
questione, per come in principio ritenuto dalla giurisprudenza al fine di
«garantire la fruizione della giurisdizione» (si cita l’ordinanza di rimessione
delle sezioni unite), in linea con la finalità di concentrazione avanti ad un
unico giudice sottesa alla riforma recata dal d.lgs. n. 165 del 2001 e in modo
da «non coinvolgere troppo a lungo il giudice amministrativo in una
giurisdizione ormai perduta» (si cita la sentenza del Consiglio di Stato,
adunanza plenaria, 21 febbraio 2007, n. 4).
2.6.− Con memoria depositata nella cancelleria di questa Corte il 20
ottobre 2016, si è costituita la Regione Campania, che, dopo avere ricostruito
i fatti di causa, ha eccepito l’inammissibilità della questione sollevata e la
sua non fondatezza.
2.7.− Osserva la Regione Campania che solo nel 2003 e poi nel 2009,
con le pronunce del TAR e del Consiglio di Stato, la ricorrente aveva appreso
di avere erroneamente impostato la sua iniziativa giurisdizionale: invece di
agire per l’accertamento della responsabilità aquiliana, «incorrendo nel
termine di prescrizione quinquennale», essa aveva intentato un’azione basata su
un titolo «inconfigurabile» (il diritto alla restitutio in integrum mediante retrocostituzione del rapporto di lavoro).
Ciò determinerebbe, secondo l’interveniente, la irrilevanza della questione
sollevata, poiché la ricorrente sarebbe carente di interesse all’azione di
responsabilità almeno dall’anno 2003, essendosi prescritto il relativo diritto.
La fattispecie concreta metterebbe in evidenza un tardivo esercizio del
diritto ascrivibile non già al meccanismo normativo introdotto dal legislatore
e sospettato d’incostituzionalità ma «a mere scelte strategico-difensive».
2.8.− Nel merito, la Regione Campania ricorda come la giurisprudenza
della Corte costituzionale sia inequivoca nel ritenere che il termine
decadenziale previsto dalla norma censurata sia giustificato dall’esigenza di
contenere gli effetti potenzialmente pregiudizievoli per il regolare
svolgimento dell’attività giurisdizionale prodotti dal trasferimento della
giurisdizione dal giudice amministrativo a quello ordinario, ed in ragione
dell’ampia discrezionalità del legislatore nel regolare istituti processuali
intertemporali; né sarebbe lesiva dell’art. 24 Cost. la previsione di un
termine decadenziale di oltre ventisei mesi, certamente non tale da rendere difficoltosa
la tutela giurisdizionale.
L’interveniente ricorda anche che la Corte EDU nelle sentenze Mottola e Staibano ha ritenuto la
violazione dell’art. 6 della CEDU, in quanto, a seguito di un mutamento
giurisprudenziale, «i ricorrenti che avevano adito i giudici amministrativi in
buona fede e in un regime giuridico che poteva dare luogo a una pluralità di
interpretazioni possibili, sono stati privati della possibilità di reintrodurre
i loro ricorsi dinanzi ai tribunali definitivamente individuati come
competenti».
Tale non sarebbe il caso di specie, laddove la ricorrente avrebbe
«riaggiustato il tiro» a distanza di anni, dopo avere adito nei termini il
giudice munito di giurisdizione.
Sotto altro profilo, poi, rispetto all’esigenza di non violare le norme
convenzionali sarebbe prevalente quella di tutelare i valori costituzionali
sottesi alla norma censurata (artt. 3, 24, 25, 81 e 97 Cost.), compito, questo,
rimesso alla Corte costituzionale.
3.− Con ordinanza iscritta al n. 260 r.o.
2016, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato, in
riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., questione di legittimità
costituzionale dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, «nella parte
in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo
del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state
proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000».
3.1.− Il rimettente espone in punto di fatto che:
− la ricorrente, dipendente dell’azienda sanitaria locale (ASL) Roma
C, il 2 luglio 1997 era rimasta vittima di un incidente stradale al ritorno dal
posto di lavoro; essa aveva pertanto adito il giudice del lavoro del Tribunale
ordinario di Roma che aveva riconosciuto l’infortunio in itinere, condannando
l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro
(INAIL) al pagamento di una rendita per malattia professionale, commisurata ad
una inabilità permanente del trentadue per cento, oltre interessi e
rivalutazione;
− con altro ricorso notificato l’8 luglio 2002 la ricorrente aveva
nuovamente adito il medesimo giudice del lavoro, chiedendo la condanna dell’ASL
al risarcimento del danno biologico, in quanto effetto dell’inadempienza del
datore di lavoro agli obblighi di protezione imposti dall’art. 2087 del codice
civile, ma questa volta il giudice adito aveva declinato la giurisdizione in
favore di quello amministrativo, in ragione della ritenuta natura contrattuale
della responsabilità datoriale;
− la ricorrente aveva quindi adito il TAR Lazio con ricorso
notificato il 12 ottobre 2007 e depositato il successivo 8 novembre, deducendo
la responsabilità dell’ASL Roma C per averle imposto dei turni massacranti il
giorno dell’infortunio e quello precedente, e chiedendo la sua condanna al
risarcimento del danno biologico, esistenziale e morale; l’ASL, costituitasi in
giudizio, aveva eccepito il difetto di giurisdizione, la prescrizione dei
crediti azionati e l’infondatezza della pretesa avversaria per mancanza del
nesso di causalità, spiegando comunque domanda di manleva nei confronti della
compagnia assicuratrice.
3.2.− In punto di rilevanza, il rimettente deduce di dovere fare
applicazione dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, che ha
sostituito in termini non innovativi l’art. 45, comma 17, del d.lgs. n. 80 del
1998, poiché il sinistro stradale è avvenuto il 2 luglio 1997, mentre la
domanda con cui la ricorrente ha manifestato per la prima volta la sua pretesa
risarcitoria è dell’8 luglio 2002, ben oltre il termine di decadenza del 15
settembre 2000.
3.3.− Nel merito, il TAR Lazio ripete le medesime argomentazioni in
diritto sviluppate dall’ordinanza di rimessione delle sezioni unite della Corte
di cassazione.
3.4.− Con memoria depositata nella cancelleria di questa Corte il 5
gennaio 2017, si è costituita A. N., ricorrente nel giudizio a quo.
3.5.− In punto di rilevanza, sarebbe evidente, secondo la parte
interveniente, che una pronuncia di illegittimità costituzionale della
disposizione censurata le consentirebbe di proseguire il giudizio
originariamente instaurato presso il giudice ordinario e poi traslato davanti a
quello amministrativo.
3.6.− Nel merito, la parte privata ripete le medesime argomentazioni
in diritto sviluppate dalle ordinanze di rimessione del TAR Lazio e delle
sezioni unite civili della Corte di cassazione.
1.− Le sezioni unite civili della Corte di cassazione hanno sollevato
questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), «nella parte in cui prevede
che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro
anteriore al 30.06.98 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza,
entro il 15 settembre 2000», deducendo la violazione dell’art. 117, primo
comma, della Costituzione, in relazione ai parametri interposti dell’art. 6,
paragrafo I, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e dell’art. 1 del
primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa.
La disposizione censurata prevede che «Sono attribuite al giudice
ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie di cui all’art.
63 del presente decreto, relative a questioni attinenti al periodo del rapporto
di lavoro successivo al 30 giugno 1998. Le controversie relative a questioni
attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore a tale data restano
attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora
siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000».
Osserva il rimettente che, in ordine alle controversie relative a questioni
attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998
iniziate dopo il 15 settembre 2000, si era formato, in principio, un
orientamento giurisprudenziale secondo cui esse spettavano alla giurisdizione
del giudice ordinario; nel tempo, tuttavia, era prevalso un diverso
orientamento sia della Corte di cassazione sia del Consiglio di Stato (avallato
dalla Corte costituzionale) che ricollega alla scadenza del termine la radicale
impossibilità di fare valere il diritto dinanzi ad un giudice.
La norma censurata, interpretata in questo modo, violerebbe il diritto di
accesso a un tribunale, tutelato dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, e il
divieto di interferenze illegittime con la proprietà privata posto dall’art. 1
del primo Protocollo addizionale alla Convenzione, come emergerebbe dalle
sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo Mottola contro Italia e Staibano ed altri contro
Italia del 4 febbraio 2014 (d’ora in avanti: le sentenze Mottola e Staibano), secondo cui la
decadenza in questione porrebbe «un ostacolo procedurale che costituisce una
sostanziale negazione del diritto invocato» ed escluderebbe «un giusto
equilibrio tra interessi pubblici e privati in gioco».
2.− Richiamando l’ordinanza di rimessione delle sezioni unite della
Corte di cassazione e ricalcandone la motivazione, il Tribunale amministrativo
regionale per il Lazio e il Tribunale amministrativo regionale per la Campania
hanno sollevato questione di legittimità costituzionale della stessa
disposizione.
Mentre l’ordinanza del primo, tuttavia, reca un identico petitum e gli stessi parametri interposti della questione
sollevata dalle sezioni unite, il secondo censura l’art. 69, comma 7, del
d.lgs. n. 165 del 2001, «nella parte in cui non consente di proporre al G.O.
senza incorrere in decadenza, dopo il 15/9/2000, l’azione relativa ai fatti
connessi al rapporto di impiego anteriori al 30/6/1998», e solo in relazione
all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.
3.− In considerazione della parziale identità di oggetto e dei
parametri evocati, nonché delle argomentazioni addotte a sostegno della loro
violazione, i giudizi vanno riuniti per essere decisi congiuntamente.
4.− In via preliminare deve essere dichiarata la inammissibilità
della costituzione delle parti private M.C. P. e G. R. nel giudizio iscritto al
registro ordinanze n. 107 del 2016.
Essa, infatti, è intervenuta in data 9 novembre 2017, oltre il termine
perentorio stabilito dall’art. 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale, ossia venti giorni dalla pubblicazione
dell’ordinanza nella Gazzetta Ufficiale (tra le molte, sentenze n. 102 del
2016, n. 220
e n. 128 del
2014; ordinanza allegata alla sentenza n. 173 del 2016),
avvenuta, nel caso di specie, il 1° giugno 2016.
5.− La questione di legittimità costituzionale sollevata dalle
sezioni unite della Corte di cassazione è inammissibile.
6.− Il rimettente, in punto di motivazione sulla rilevanza, ricorda
che è principio consolidato nella propria giurisprudenza che il sindacato
esercitato dalla Corte di cassazione sulle decisioni rese dal Consiglio di
Stato, ai sensi dell’art. 362, primo comma, del codice di procedura civile e
dell’art. 110 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione
dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo
per il riordino del processo amministrativo), è consentito solo ove si richieda
l’accertamento dell’eventuale sconfinamento dai limiti esterni della
giurisdizione, per il riscontro di vizi che riguardano l’essenza della funzione
giurisdizionale e non il modo del suo esercizio, restando, invece, escluso ogni
sindacato sui limiti interni, cui attengono gli errores
in iudicando o in procedendo.
Secondo questo orientamento, pertanto, i motivi deducibili in questa sede
riguarderebbero solo le ipotesi in cui si prospetti la violazione dell’ambito
della giurisdizione in generale − per essere stata esercitata nella sfera
riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, oppure, al
contrario negata sull’erroneo presupposto che la domanda non possa formare
oggetto in modo assoluto di funzione giurisdizionale (cosiddetto rifiuto di
giurisdizione) − o l’aver pronunciato su materia attribuita alla
giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, oppure l’aver negato
la propria giurisdizione nell’erroneo convincimento che appartenga ad altro
giudice (cosiddetto diniego di giurisdizione).
Il rimettente, tuttavia, aggiunge che (negli ultimi anni) si è andato
affermando nella sua giurisprudenza una interpretazione "evolutiva” e
"dinamica” del concetto di giurisdizione, che gli consentirebbe di sindacare
non solo le norme che individuano «i presupposti dell’attribuzione del potere
giurisdizionale», ma anche quelle che stabiliscono «le forme di tutela»
attraverso cui la giurisdizione si estrinseca.
Questo concetto lato di giurisdizione sarebbe stato utilizzato per cassare
una sentenza del Consiglio di Stato che aveva interpretato le norme di diritto
interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione europea, per come
acclarato da una pronuncia della Corte di giustizia successivamente
intervenuta.
Il caso di specie sarebbe analogo a quest’ultimo, con la particolarità che,
trattandosi di norme convenzionali, solo sollevando la questione di
costituzionalità si eviterebbe che la sentenza gravata esplichi effetti
contrastanti con le norme sovranazionali cui lo Stato italiano è tenuto a dare
applicazione.
Ad avviso del rimettente, la situazione in esame rientrerebbe, inoltre, in
uno di quei casi estremi in cui il giudice amministrativo adotta una decisione
«anomala o abnorme», omettendo l’esercizio del potere giurisdizionale per errores in iudicando o in procedendo che danno luogo al
superamento dei limiti esterni e diventano sindacabili per motivi inerenti alla
giurisdizione.
7.− Il Policlinico dell’Università degli studi di Napoli Federico II
(d’ora in avanti: l’Università di Napoli) e l’Istituto nazionale per la
previdenza sociale (INPS) hanno eccepito, invece, il difetto di rilevanza della
questione sollevata, perché il ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione
celerebbe, in realtà, un inammissibile ricorso per violazione di legge, non
sindacabile dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 111, settimo ed ottavo comma, Cost.: i ricorrenti non avrebbero inteso
ottenere dalle sezioni unite una statuizione sulla giurisdizione quanto,
piuttosto, un ulteriore grado di giudizio, censurando un asserito error in iudicando.
L’estensione del concetto di limite esterno in chiave "dinamica” e di
effettività della tutela giurisdizionale operata dal rimettente non sarebbe
condivisibile, anche alla luce del costante orientamento della stessa Corte di
cassazione, secondo cui l’evoluzione del concetto di giurisdizione non
giustifica il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi
dell’art. 111, ottavo comma, Cost., quando, come nella specie, non si verta in
ipotesi di aprioristico diniego di giurisdizione, ma la tutela si assuma negata
dal giudice speciale in conseguenza di errori di giudizio commessi in relazione
allo specifico caso sottoposto al suo esame.
Secondo l’INPS, poi, non sarebbe comunque configurabile, nel caso di
specie, una decisione «anomala o abnorme».
8.− Questa Corte è dunque chiamata a verificare, su specifica
eccezione delle parti costituite nel giudizio incidentale, l’affermazione delle
sezioni unite (come organo regolatore della giurisdizione e non nell’esercizio
della funzione nomofilattica) circa la sussistenza di un motivo di ricorso
inerente alla giurisdizione, quale presupposto della legittima instaurazione
del giudizio a quo.
9.− La verifica deve essere operata tenendo presente che nella specie
non si tratta di un’ordinaria questione di giurisdizione, avente ad oggetto la
natura della situazione giuridica soggettiva azionata, ma l’interpretazione ed
applicazione di norme costituzionali, e in particolare del comma ottavo
dell’art. 111 Cost.
La questione rientra, dunque, nella competenza naturale di questa Corte,
quale interprete ultimo delle norme costituzionali e − nella specie −
di quelle che regolano i confini e l’assetto complessivo dei plessi
giurisdizionali.
10.− L’eccezione è fondata.
11.− La tesi che il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla
giurisdizione, previsto dall’ottavo comma dell’art. 111 Cost. avverso le
sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, comprenda anche il
sindacato su errores in procedendo o in iudicando non
può qualificarsi come una interpretazione evolutiva, poiché non è compatibile
con la lettera e lo spirito della norma costituzionale.
Quest’ultima attinge il suo significato e il suo valore dalla
contrapposizione con il precedente comma settimo, che prevede il generale
ricorso in cassazione per violazione di legge contro le sentenze degli altri
giudici, contrapposizione evidenziata dalla specificazione che il ricorso
avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti è ammesso
per i «soli» motivi inerenti alla giurisdizione.
Ne consegue che deve ritenersi inammissibile ogni interpretazione di tali
motivi che, sconfinando dal loro ambito tradizionale, comporti una più o meno
completa assimilazione dei due tipi di ricorso.
In una prospettiva di sistema, poi, la ricostruzione operata dal
rimettente, parificando i due rimedi, mette in discussione la scelta di fondo
dei Costituenti dell’assetto pluralistico delle giurisdizioni.
12.− La corretta interpretazione dell’art. 111, ottavo comma, Cost. e
il suo ruolo determinante, ai fini della posizione costituzionale del giudice
amministrativo e di quello contabile nel concerto delle giurisdizioni, sono
stati messi chiaramente in luce da questa Corte.
Con la sentenza
n. 204 del 2004 si è infatti rilevato che l’unità funzionale non implica
unità organica delle giurisdizioni, e che i Costituenti hanno ritenuto di dover
tener fermo l’assetto precostituzionale, assetto che
vedeva attribuita al giudice amministrativo la cognizione degli interessi
legittimi e, nei casi di giurisdizione esclusiva, dei diritti soggettivi ad
essi inestricabilmente connessi.
Nella stessa sentenza si è osservato come dai lavori dell’Assemblea
Costituente emerga chiaramente che ciò comporta l’esclusione della «soggezione
delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti al controllo di
legittimità della Corte di cassazione» e la sua limitazione «al solo "eccesso
di potere giudiziario”, coerentemente alla "unità non organica, ma funzionale
di giurisdizione, che non esclude, anzi implica, una divisione dei vari ordini
di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a
sé” (così Mortati, seduta pomeridiana del 27 novembre 1947)».
Con la sentenza
n. 77 del 2007, poi, occupandosi della translatio
iudicii, questa Corte ha aggiunto che «perfino il
supremo organo regolatore della giurisdizione, la Corte di cassazione, con la
sua pronuncia può soltanto, a norma dell’art. 111, comma ottavo, Cost.,
vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi legittimati a
decidere la controversia, ma certamente non può vincolarli sotto alcun profilo
quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione».
13.− Di tutto ciò è consapevole anche la giurisprudenza maggioritaria
delle stesse sezioni unite, la quale continua ad affermare che «Il cattivo
esercizio della propria giurisdizione da parte del giudice, che provveda perché
investito di essa e, dunque, ritenendo esistente la propria giurisdizione e,
tuttavia, nell’esercitarla, applichi regole di giudizio che lo portino a negare
tutela alla situazione giuridica azionata, si risolve soltanto nell’ipotetica
commissione di un errore all’interno di essa»; e che, «poiché la distinzione
fra la giurisdizione ordinaria e le giurisdizioni speciali ha come implicazione
necessaria che ciascuna giurisdizione si eserciti con l’attribuzione all’organo
di vertice interno al plesso giurisdizionale del controllo e della statuizione
finale sulla correttezza in iure ed in facto di tutte le valutazioni che sono
necessarie per decidere sulla controversia, salvo quelle che implichino
negazione astratta della tutela giurisdizionale davanti alla giurisdizione
speciale ed a qualsiasi giurisdizione (rifiuto) oppure alla negazione della
giurisdizione accompagnino l’indicazione di altra giurisdizione (diniego), non
è possibile prospettare che, fuori di tali due casi, il modo in cui tale
controllo viene esercitato dall’organo di vertice della giurisdizione speciale,
se anche si sia risolto in concreto nel negare erroneamente tutele alla
situazione giuridica azionata, sia suscettibile di controllo da parte delle
Sezioni Unite» (Corte di cassazione, sezioni unite, 6 giugno 2017, n. 13976;
nello stesso senso, tra le più recenti, sezioni unite, 19 settembre 2017, n.
21617; 29 marzo 2017, n. 8117).
14.− L’opposto filone giurisprudenziale, del resto, argomenta la sua
tesi sulla base di considerazioni che sono o prive di fondamento o estranee ad
una questione qualificabile come propriamente di giurisdizione, e cioè
richiamando princìpi fondamentali quali la primazia del diritto comunitario,
l’effettività della tutela, il giusto processo e l’unità funzionale della
giurisdizione.
Privo di fondamento è il riferimento a quest’ultimo principio, attese le
opposte conclusioni − già evidenziate − cui è giunta questa Corte
circa la non coincidenza fra unità funzionale e unità organica.
Quanto all’effettività della tutela e al giusto processo, non c’è dubbio
che essi vadano garantiti, ma a cura degli organi giurisdizionali a ciò
deputati dalla Costituzione e non in sede di controllo sulla giurisdizione.
Né l’allargamento del concetto di giurisdizione può essere giustificato
dalla presunta eccessiva espansione delle ipotesi di giurisdizione esclusiva,
poiché esse, come è noto, sono state da questa Corte contenute nei limiti
tracciati dalla Costituzione (sentenze n. 191 del 2006
e n. 204 del
2004); d’altro canto, «è la stessa Carta costituzionale a prevedere che
siano sottratte al vaglio di legittimità della Corte di cassazione le pronunce
che investono i diritti soggettivi nei confronti dei quali, nel rispetto della
"particolarità” della materia nel senso sopra chiarito, il legislatore
ordinario prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo» (sentenza n. 204 del
2004).
14.1.− L’intervento delle sezioni unite, in sede di controllo di
giurisdizione, nemmeno può essere giustificato dalla violazione di norme
dell’Unione o della CEDU, non essendo peraltro chiaro, nell’ordinanza di
rimessione e nella stessa giurisprudenza ivi richiamata, se ciò valga sempre
ovvero solo in presenza di una sentenza sopravvenuta della Corte di giustizia o
della Corte di Strasburgo. In ogni caso, ancora una volta, viene ricondotto al
controllo di giurisdizione un motivo di illegittimità (sia pure particolarmente
qualificata), motivo sulla cui estraneità all’istituto in esame non è il caso
di tornare.
Rimane il fatto che, specialmente nell’ipotesi di sopravvenienza di una
decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente
esiste, ma deve trovare la sua soluzione all’interno di ciascuna giurisdizione,
eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all’art. 395 cod. proc.
civ., come auspicato da questa Corte con riferimento alle sentenze della Corte
EDU (sentenza n.
123 del 2017).
15.− L’«eccesso di potere giudiziario», denunziabile con il ricorso
in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato
inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito, dunque,
alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il
Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella
sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o
sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la
materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale
(cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di
giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria
giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la
neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici.
16.− Il concetto di controllo di giurisdizione, così delineato nei
termini puntuali che ad esso sono propri, non ammette soluzioni intermedie,
come quella pure proposta nell’ordinanza di rimessione, secondo cui la lettura
estensiva dovrebbe essere limitata ai casi in cui si sia in presenza di
sentenze "abnormi” o "anomale” ovvero di uno "stravolgimento”, a volte definito
radicale, delle "norme di riferimento”.
Attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul
piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e,
sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni
contingenti e soggettive.
17.− Alla stregua del così precisato ambito di controllo sui "limiti
esterni” alla giurisdizione non è consentita la censura di sentenze con le
quali il giudice amministrativo o contabile adotti una interpretazione di una
norma processuale o sostanziale tale da impedire la piena conoscibilità del merito
della domanda.
Ne consegue, nel caso di specie, l’inammissibilità della questione
sollevata per difetto di rilevanza, in ragione della mancanza di legittimazione
del giudice a quo.
18.− Anche la questione di legittimità costituzionale sollevata dal
TAR Campania è inammissibile.
A differenza della Corte di cassazione, il Tribunale amministrativo non
invoca un’ablazione (parziale) della disposizione censurata, ma una pronuncia
additiva che attribuisca al giudice ordinario la giurisdizione sulle
controversie relative al rapporto di pubblico impiego (anche) per fatti
anteriori al 30 giugno 1998 proposte dopo il 15 settembre del 2000.
Il rimettente, tuttavia, nel motivare le ragioni della richiesta, si limita
ad affermare che essa sarebbe in linea con la finalità di concentrazione avanti
ad un unico giudice − finalità sottesa alla riforma recata dal d.lgs. n.
165 del 2001 − e con la esigenza di non coinvolgere troppo a lungo il
giudice amministrativo in una giurisdizione ormai perduta.
La scarna motivazione nulla dice sul perché l’addizione invocata sia
considerata costituzionalmente obbligata, specie ove si consideri che la
giurisdizione che si vorrebbe attribuire al giudice ordinario riguarderebbe
anche fatti relativi al rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica
amministrazione per il periodo anteriore all’entrata in vigore del decreto
legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione della organizzazione
delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di
pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421),
quando, cioè, quel rapporto era ancora pienamente pubblicistico e quindi
notoriamente contrassegnato anche e soprattutto da posizioni di interesse
legittimo, che così verrebbero distratte dal giudice naturale, che è quello
amministrativo (sentenza
n. 140 del 2007).
19.− La questione di costituzionalità sollevata dal TAR Lazio non è
fondata.
20.− L’assunto da cui muove il rimettente, secondo cui l’art. 69,
comma 7, nel prevedere la decadenza dall’azione, si pone in contrasto con i parametri
interposti, come acclarato dalle sentenze Mottola e Staibano, e, per questa
via, con l’art. 117, primo comma, Cost., non è corretto.
20.1.− Come già rilevato da questa Corte, le sentenze della Corte EDU
«hanno accertato, in primo luogo, la violazione del diritto dei ricorrenti
all’equo processo, non essendo stato loro consentito, in concreto, di accedere
a un tribunale, dal momento che il termine dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n.
165 del 2001, prima interpretato dalla giurisprudenza come termine di
proponibilità dell’azione davanti al giudice amministrativo con salvezza di
azione davanti al giudice ordinario, è stato poi ritenuto termine di decadenza
sostanziale. Secondo la Corte EDU, il mutamento di indirizzo giurisprudenziale
(e non il termine previsto dalla norma, "finalizzato alla buona amministrazione
della giustizia” e "in sé non eccessivamente breve”) ha impedito ai ricorrenti
di ottenere tutela, nonostante avessero "adito i tribunali amministrativi in
completa buona fede e sulla base di un’interpretazione plausibile delle norme
sulla ripartizione delle competenze”» (sentenza n. 123 del
2017).
Sempre secondo la Corte di Strasburgo, in base a quest’ultima
interpretazione − secondo cui l’art. 69, comma 7, non pone una decadenza
dall’azione ma è un mero spartiacque temporale tra le giurisdizioni − i
ricorrenti che avessero adito erroneamente il giudice amministrativo avrebbero
potuto «riassumere» o proseguire il giudizio davanti al giudice ordinario; a
seguito di un «mutamento giurisprudenziale», tuttavia, il Consiglio di Stato
avrebbe impedito ai ricorrenti «di godere di questa importante tutela».
20.2.− Non è inopportuno rilevare, innanzitutto, come una più
completa ricostruzione del panorama giurisprudenziale interno possa far
dubitare che nel caso che ha dato origine alle sentenze Mottola e Staibano vi sia stata
davvero la "sorpresa” della buona fede dei ricorrenti su cui esse poggiano.
Le pronunce in questione sembrano ignorare, infatti, che la giurisprudenza
della Corte di cassazione, quanto meno dal 2001 (sezioni unite civili, 27 marzo
2001, n. 139; 4 giugno 2002, n. 8089; 30 gennaio 2003, n. 1511; 3 maggio 2005,
n. 9101; 3 novembre 2005, n. 21289; 27 febbraio 2013, n. 4846; 30 settembre 2014,
n. 20566), afferma che l’art. 69, comma 7, non pone una questione di riparto di
giurisdizione ma di decadenza dall’azione, con la conseguenza che il giudice
regolatore della giurisdizione ha sempre escluso la cognizione del giudice
ordinario sulle controversie in esame.
Tale incompleta ricostruzione del quadro giurisprudenziale interno sarebbe
dovuta, secondo l’Università di Napoli, che lamenta di non aver potuto prendere
parte al processo convenzionale, ad una carente esposizione dei fatti ad opera
dello Stato italiano, unica parte (oltre ai ricorrenti) nel giudizio davanti
alla Corte EDU (il serio problema della mancata partecipazione dei terzi a tale
giudizio è già stato messo in luce da questa Corte con la citata sentenza n. 123 del
2017).
20.3.− In ogni caso, quello che non è in discussione nelle sentenze
della Corte EDU è la coerenza della norma censurata dai rimettenti con i
parametri convenzionali, poiché essa, di per sé, fissa un termine ispirato ad
una finalità legittima e (più che) ragionevole, il che, evidentemente, esclude
anche la sua illegittimità costituzionale.
Del resto, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7,
sollevate sulla base di diversi parametri interni − nella sostanza
coincidenti con quelli convenzionali invocati dal rimettente − sono state
sempre rigettate da questa Corte (ordinanze n. 197
del 2006, n.
328 e n. 213
del 2005, n.
214 del 2004).
L’assunto da cui muove la Corte EDU − e cioè l’effetto sorpresa
derivante dal mutamento giurisprudenziale nell’interpretazione della norma −
potrebbe condurre, semmai, sussistendone i presupposti, all’applicazione
dell’istituto della rimessione in termini per errore scusabile, attualmente
disciplinato dall’art. 37 del d.lgs. n. 104 del 2010, ai sensi del quale «il
giudice può disporre anche d’ufficio la rimessione in termini in presenza di
oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti
di fatto».
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i
giudizi,
1) dichiara inammissibile la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), sollevata, in riferimento
all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione,
sezioni unite civili, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara inammissibile la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n.
165 del 2001, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della
Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con
l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n.
165 del 2001, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della
Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 5 dicembre 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giancarlo CORAGGIO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 gennaio 2018.