Sentenza n. 25 del 2011

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SENTENZA N. 25

ANNO 2011

 

 

Commento alla decisione di

 

Roberto Pinardi

Ancora sulla "completezza” delle richieste referendarie

 

nella Rubrica "Studi e Commenti” di Consulta OnLine

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Ugo                             DE SIERVO                                    Presidente

-           Paolo                           MADDALENA                                 Giudice

-           Alfio                            FINOCCHIARO                                     "

-           Alfonso                       QUARANTA                                           "

-           Franco                         GALLO                                                    "

-           Luigi                            MAZZELLA                                            "

-           Gaetano                       SILVESTRI                                             "

-           Sabino                         CASSESE                                                "

-           Giuseppe                     TESAURO                                               "

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       "

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     "

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          "

-           Paolo                           GROSSI                                                   "

-           Giorgio                        LATTANZI                                              "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di ammissibilità, ai sensi dell’articolo 2, primo comma, della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’articolo 150 (Scelta della forma di gestione e procedure di affidamento) del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), come modificato dall’art. 2, comma 13 del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4, nel testo risultante dall’articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 168, giudizio iscritto al n. 150 registro referendum.

Vista l’ordinanza del 7 dicembre 2010 con la quale l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato conforme a legge la richiesta;

udito nella camera di consiglio del 12 gennaio 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi  gli avvocati Ugo Mattei per il Comitato referendario Siacquapubblica, Pietro Adami per l’Associazione nazionale giuristi democratici, Federico Sorrentino per l’ANFIDA, Associazione nazionale fra gli industriali degli acquedotti, Tommaso Edoardo Frosini e Giovanni Pitruzzella per il Comitato contro i referendum per la statalizzazione dell’acqua – AcquaLiberAtutti – , Tommaso Frosini per Fare Ambiente Movimento ecologista europeo onlus, Massimo Luciani per i presentatori D’Antonio Luciano, Lutrario Severo e Maggi Andrea e l’avvocato dello Stato Antonio Tallarida per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. — L’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), e successive modificazioni, con ordinanza pronunciata il 6 dicembre 2010, pervenuta a questa Corte il successivo 9 dicembre, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge, tra le altre, la richiesta di referendum popolare (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 76 del 1° aprile 2010), promossa da tredici cittadini italiani, sul seguente quesito: «Volete voi che sia abrogato l’art. 150 (Scelta della forma di gestione e procedure di affidamento) del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 "Norme in materia ambientale”, come modificato dall’art. 2, comma 13 del decreto legislativo n. 4 del 16 gennaio 2008?».

Con riferimento a tale richiesta l’Ufficio ha rilevato che l’art. 150, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, è stato parzialmente abrogato dall’art. 12, comma 1, lettera b) del decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 168 (Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133).

Pertanto, sentito il Comitato promotore, il quale ha chiesto che si proceda alla modifica del quesito con l’aggiunta «per come modificato dall’art. 12, comma 1, lett. b) del d.P.R. 7 settembre 2010 n. 168», ha ammesso il quesito stesso nella seguente formulazione: «Volete voi che sia abrogato l’art. 150 (Scelta della forma di gestione e procedure di affidamento) del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 "Norme in materia ambientale”, come modificato dall’art. 2, comma 13 del decreto legislativo n. 4 del 16 gennaio 2008, nel testo risultante dall’art.12 del d. P. R. 7 settembre 2010 n. 168?».

Il referendum, cui è stato assegnato il numero 2, è stato denominato: «Servizio idrico integrato. Forma di gestione e procedure di affidamento in materia di risorse idriche. Abrogazione».

2. — Ricevuta la menzionata ordinanza, il Presidente della Corte costituzionale ha fissato la data del 12 gennaio 2011 per la deliberazione in camera di consiglio sull’ammissibilità del referendum, dandone comunicazione ai presentatori della richiesta ed al Presidente del Consiglio dei ministri, a norma dell’art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970.

3. — In data 23 dicembre 2010 tre presentatori della suddetta richiesta di referendum hanno depositato memoria di costituzione e deduzioni, esponendo una serie di argomenti a sostegno dell’ammissibilità della richiesta medesima.

In particolare, dopo avere rimarcato che la normativa oggetto del quesito non rientra, neppure in via indiretta, nell’ambito delle leggi per le quali il referendum popolare non è ammesso, ai sensi dell’art. 75, secondo comma, della Costituzione, essi osservano che la normativa de qua non ha rango costituzionale e non si traduce in norme a contenuto costituzionalmente vincolato, oppure in norme obbligatorie. Al riguardo, è richiamata la sentenza di questa Corte n. 325 del 2010, la quale ha posto in luce che, in materia di servizi pubblici locali, il legislatore dispone di ampia discrezionalità.

Quanto ai requisiti di omogeneità e chiarezza del quesito referendario, i promotori rilevano che esso è ammissibile sia per la sussistenza di una sua «matrice razionalmente unitaria» (è richiamata la sentenza n. 16 del 1978), sia per la «chiarezza del suo fine intrinseco» (sentenza n. 29 del 1987).

Tanto dovrebbe desumersi dalla normativa di risulta, che sarebbe applicabile a seguito dell’auspicato esito positivo della consultazione popolare.

A tal fine, richiamato il dettato dell’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, i presentatori deducono che, dopo il deposito della richiesta di referendum, è sopravvenuto il d.P.R. n. 168 del 2010 che, all’art. 12, comma 1, lettera b), stabilisce l’abrogazione dell’«art. 150, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni, ad eccezione della parte in cui individua la competenza dell’Autorità d’ambito per l’affidamento e l’aggiudicazione».

Ad avviso dei promotori, l’auspicata abrogazione dell’art. 150 si risolverebbe nella necessaria applicabilità, alla gestione del servizio idrico integrato, dell’art. 114 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), quale normativa di risulta.

Infatti, andrebbe considerato che il citato art. 150 rinvia ampiamente all’art. 113 del detto testo unico (TUEL). Anzi, il contenuto precettivo dell’art. 150 sarebbe limitato e la sua funzione prevalente (ancorché non esclusiva) sarebbe quella di fonte "rinviante” all’art. 113 TUEL (fonte "rinviata”).

Stando così le cose, «l’abrogazione dell’art. 150 non potrebbe certo determinare l’applicabilità dell’art. 113 TUEL. Proprio il fatto che si abroghi la norma rinviante, infatti, ha per logico e consequenziale effetto che, almeno limitatamente alla fattispecie coperta dalla norma rinviante, risulti inapplicabile la norma rinviata. Se il contenuto normativo dell’art. 150 è (anche) il rinvio all’art. 113 TUEL, è chiaro, l’abrogazione della prima delle due norme non può che avere per effetto l’inapplicabilità in parte qua della seconda».

In questo quadro, secondo i presentatori, sembrerebbero applicabili il d.P.R. n. 168 del 2010 o l’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008. Ma, in realtà, non sarebbe così.

Invero, l’art. 150 rinvia, per la determinazione delle forme di gestione del servizio idrico integrato, all’art. 113, comma 7, del TUEL. Ma l’art. 12, comma 2, del d.P.R. n. 168 del 2010 stabilisce che «Le leggi, i regolamenti, i decreti, o altri provvedimenti, che fanno riferimento al comma 7 dell’articolo 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, abrogato dal comma 1, lettera a), si intendono riferiti al comma 1 dell’art. 3 del presente regolamento». Questa sarebbe, oggi, la norma rinviata. Per conseguenza, varrebbe il medesimo ragionamento già svolto in riferimento all’art. 113 TUEL: l’abrogazione della norma rinviante comporterebbe l’inapplicabilità in parte qua (e cioè in riferimento alla specifica fattispecie che ne costituisce oggetto) della norma rinviata.

Del pari non applicabile, poi, sarebbe l’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008. Infatti, il d.P.R. n. 168 del 2010 sarebbe attuativo dell’autorizzazione a delegificare contenuta nel comma 10 di quella norma. Autorizzando il Governo a delegificare, il citato art. 23-bis si sarebbe "sostanzialmente svuotato”, in particolare per quanto concerne il servizio idrico. Invero, nel comma 10 di detta norma, alla lettera d), si stabiliva che il regolamento delegificante (quello che sarebbe poi stato il d.P.R. n. 168 del 2010) doveva «armonizzare la nuova disciplina e quella di settore applicabile ai diversi servizi pubblici locali, individuando le norme applicabili in via generale per l’affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica in materia di rifiuti, trasporti, energia elettrica e gas, nonché in materia di acqua».

L’inapplicabilità del d.P.R. n. 168 del 2010, dunque, non potrebbe determinare la reviviscenza della disciplina dell’art. 23-bis, ormai sostituita (proprio ai sensi della previsione legislativa ora riportata), da quella regolamentare appunto nello specifico settore del servizio idrico, del quale l’art. 23-bis non farebbe menzione se non per autorizzare il Governo alla delegificazione.

In questa condizione di sostanziale vuoto normativo, che sarebbe generata dall’auspicata abrogazione referendaria, resterebbe applicabile, per analogia, soltanto una previsione in materia di servizi locali, cioè l’art. 114 TUEL. Richiamati alcuni profili di tale norma, i promotori rilevano che, in mancanza di disposizioni relative ai servizi pubblici di rilevanza economica, solo la disciplina concernente la gestione dei servizi sociali potrebbe trovare ragionevolmente applicazione, in forza dei comuni criteri propri dell’interpretazione analogica.

Così ricostruita la normativa di risulta, la richiesta referendaria in esame sarebbe «caratterizzata da una limpida chiarezza degli effetti normativi prodotti ed anche dall’univocità del "fine intrinseco” perseguito». Infatti, l’intento dei promotori sarebbe quello di «assoggettare lo specifico e affatto peculiare settore del servizio idrico alla disciplina, specchiatamente pubblicistica, dell’art. 114 TUEL, escludendo qualunque forma di gestione privata».

La richiesta non risulterebbe disomogenea, in quanto l’art. 150 sarebbe caratterizzato proprio dall’opposta scelta di fondo (cioè l’apertura alla gestione privata del servizio idrico), scelta rispetto alla quale il complesso delle sue disposizioni sarebbe in sostanza soltanto strumentale.

A tal proposito, si dovrebbe aggiungere che non sarebbe stato necessario coinvolgere nella richiesta anche l’art. 15, comma 1-ter, del d.l. n. 135 del 2009, perché, per un verso, esso non sarebbe in contraddizione con la richiesta stessa (in quanto il soggetto gestore, ivi contemplato, ben potrebbe essere l’azienda speciale), per l’altro farebbe esplicito riferimento al servizio idrico, come disciplinato dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, cioè da una disposizione destinata a divenire inapplicabile in forza dell’auspicato esito positivo della votazione referendaria.

Dalle considerazioni ora esposte emergerebbe anche il pieno rispetto del cosiddetto limite internazionale e comunitario. Al riguardo, sarebbe sufficiente richiamare ancora la sentenza di questa Corte n. 325 del 2010, nella quale sarebbe stata messa in luce l’ampiezza del margine di discrezionalità a disposizione del legislatore nazionale nella regolazione di tutto quanto attiene alla gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica. Inoltre, nella citata sentenza si legge che «La normativa comunitaria consente, ma non impone, agli Stati membri di prevedere, in via di eccezione e per alcuni casi determinati, la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale». Ciò starebbe a significare che il legislatore nazionale ben può isolare un singolo settore e per esso escludere il ricorso alle procedure concorrenziali e alla gestione privata.

Nella specie, il settore sarebbe quello del servizio idrico, che gestisce il bene materiale primario per eccellenza, ossia l’acqua. Sarebbe dunque ragionevole, e comunque rientrerebbe nell’ambito della discrezionalità riconosciuta agli Stati, riservare il servizio idrico alla gestione pubblica.

Infine, i rilievi fin qui svolti avrebbero trattato della richiesta referendaria in epigrafe nella sua distinta individualità, senza collegarla alle altre richieste di referendum che, in quanto depositate nella medesima "finestra” temporale, sono oggi sottoposte allo scrutinio di questa Corte. Ciò perché, ad avviso dei promotori, l’ammissibilità delle richieste referendarie va verificata esclusivamente con riguardo al distinto contenuto di ciascuna, «poiché ciascuna ha seguito un distinto iter e ciascuna è sorretta da distinte manifestazioni di volontà dei sottoscrittori». Inoltre, tale autonomia permarrebbe anche quando le richieste riguardino la medesima materia, non essendo possibile alcuna valutazione di ammissibilità che «possa tenere conto del complesso incastro delle abrogazioni eventualmente assentite e delle abrogazioni eventualmente negate dal corpo elettorale».

Tuttavia, "per supremo tuziorismo”, andrebbe rilevato che le richieste rubricate dall’Ufficio Centrale con i numeri 1, 2 e 3 sono legate da un medesimo intento "politico”, mirando a contenere al massimo – nel rispetto dei limiti internazionali, comunitari e costituzionali – gli eccessi delle cosiddette "privatizzazioni”, ora ponendo la gestione diretta dei servizi pubblici locali di rilevanza economica sul medesimo piano della gestione privata (ciò per la generalità dei servizi: richiesta n. 1), ora escludendo la gestione privata per il limitato e del tutto peculiare settore del servizio idrico (richiesta n. 2), ora, sempre in riferimento al solo servizio idrico, contenendo i profitti della gestione privata (richiesta n. 3). Anche nella denegata ipotesi che tali richieste fossero vagliate, per il profilo della loro ammissibilità, come collegate, nessun dubbio sull’ammissibilità delle stesse potrebbe essere nutrito.

4. — In data 29 dicembre 2010 il Comitato referendario "Siacquapubblica”, in persona del legale rappresentante pro tempore, ha depositato memoria ad adiuvandum per l’ammissibilità dei referendum abrogativi (reg. ref. n. 149, n. 150, n. 151), promossi dal Forum Italiano per i Movimenti dell’Acqua.

Il citato Comitato, nell’esporre il quadro politico-culturale d’insieme sotteso ai tre quesiti referendari, sottolinea come essi costituiscano un essenziale passo politico-istituzionale, diretto alla difesa di un bene comune fondamentale come l’acqua, contro i gravi rischi insiti nella privatizzazione.

Ad avviso del suddetto Comitato, il decreto Ronchi (decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 recante «Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee», convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166) avrebbe posto le premesse per una massiccia dismissione del servizio idrico integrato italiano attraverso l’obbligo d’immissione di esso sul mercato alla data del 31 dicembre 2001.

A seguito del decreto Ronchi l’acqua non avrebbe potuto più ricevere un regime di tutela particolarmente accentuato in virtù della sua natura di bene comune, ma al contrario sarebbe stata oggetto, con gran parte delle infrastrutture per la sua gestione, di un frettoloso processo di privatizzazione. Il detto provvedimento legislativo avrebbe introdotto un elemento di sostanziale irreversibilità di un assetto sbilanciato a favore del privato nella gestione e nel controllo dell’acqua, il più importante tra i beni comuni. Lo squilibrio tra pubblico e privato da esso prodotto sarebbe apparso, dunque, in profondo contrasto con la speciale natura del servizio idrico, non soltanto perché tale servizio avrebbe ad oggetto un bene comune, ma anche in virtù della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), cosiddetta legge Galli.

Proprio la ricerca, perseguita dalla legge ora citata (art. 1), del regime più desiderabile per l’acqua, intesa come bene comune, avrebbe costituito la riduzione ad unità dei quesiti referendari iscritti ai nn. 149, 150 e 151 del registro referendum.

Il popolo sovrano sarebbe chiamato ad esprimersi su una questione chiara ed univoca: se si possa continuare nel presente squilibrio in favore del settore privato for profit nella gestione del bene comune acqua (votando NO) o se si debba invertire la rotta (votando SI).

Dopo aver trattato diffusamente del quesito n. 149, avente ad oggetto l’art. 23-bis della legge n. 133 del 2008, come modificato dall’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009, sostenendone la piena ammissibilità, il Comitato afferma che i tre quesiti referendari mirerebbero a superare l’opzione eccessivamente manichea dello stesso art. 23-bis (quesito n. 149), ad escludere modelli di gestione fondati su una ratio incompatibile con la speciale natura dell’acqua (quesito n. 150) e, infine, ad escludere il profitto tra le motivazioni accettabili per un soggetto che vuole gestire il servizio idrico integrato (quesito n. 151). A seguito dell’auspicata abrogazione delle norme di cui ai tre quesiti, emergerebbero con chiarezza i tratti fondanti di un sistema coerente con il riconoscimento dell’acqua come bene comune.

Avuto riguardo alla particolare natura dei beni comuni, compatibile tanto con un regime pubblicistico quanto con uno privatistico a vocazione pubblicistica, il nostro diritto positivo conoscerebbe un ricco strumentario di istituti fondamentali, sia di diritto pubblico sia di diritto privato a dimensione pubblicistica, idonei ad evitare il presunto vuoto normativo lasciato dall’accoglimento dei quesiti.

Secondo il Comitato esponente, con l’abrogazione dell’art. 23-bis della legge n. 133 del 2008, si realizzerebbe anche l’inapplicabilità del d.P.R. n. 168 del 2010 (regolamento delegato), in quanto verrebbe meno il suo fondamento giuridico, e si avrebbe la riespansione dell’art. 113 TUEL.

L’abrogazione dell’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006 – norma ritenuta speciale in quanto riferita al servizio idrico integrato, ma che nella sostanza rinvia ad una normativa generale qual è quella contenuta nell’art. 113 del TUEL – comporterebbe l’abrogazione di tale norma. In realtà, però, essendo stato parzialmente abrogato l’art. 113 del TUEL dal d.P.R. n. 168 del 2010, è a quest’ultima norma che, nella sostanza, l’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006 rinvia. Pertanto, l’abrogazione dell’art. 150 comporterebbe la perdita di efficacia della norma oggetto del rinvio, con la conseguenza che, in via analogica, resterebbe applicabile l’art. 114 TUEL, tuttora vigente.

L’abrogazione dell’art. 23-bis della legge n. 133 del 2008 e dell’art. 150 del d.lgs. n.152 del 2006 non produrrebbero un vuoto normativo, in quanto sarebbe sempre possibile il ricorso all’azienda speciale.

Peraltro, ad avviso del suddetto Comitato, oltre all’azienda speciale sarebbero rinvenibili nel vigente ordinamento molteplici strumenti sia di diritto pubblico (Consorzi tra Comuni ai sensi dell’art. 31 del TUEL), sia di diritto privato a dimensione pubblicistica in grado di colmare ipotetici vuoti normativi. Quali istituti privatistici privi di scopo di lucro e a vocazione pubblicistica, applicabili una volta abrogate le norme oggetto di referendum, il Comitato fa riferimento alle cooperative, a scopo mutualistico alternativo al lucro, alle associazioni, ai comitati, alle fondazioni.

Infine, l’esponente rileva che l’attuale instabilità politica non consente di escludere l’ipotesi di un rinvio delle operazioni referendarie come conseguenza di un eventuale scioglimento delle Camere. La produzione degli effetti, a data certa, dell’art. 23-bis della legge n. 133 del 2008, prima della celebrazione del referendum rischierebbe di vanificare nei fatti, almeno per quanto riguarda il quesito iscritto al n. 149, l’auspicata sentenza di accoglimento ai sensi dell’art. 75 Cost. Un allineamento temporale, in via interpretativa, dell’art. 23-bis con slittamento dei suoi effetti a data successiva alla consultazione referendaria, per quanto non rientrante nei compiti attribuiti dalla Costituzione alla Corte costituzionale, potrebbe essere auspicabile in coerenza con l’alta funzione di garanzia costituzionale propria di questa Corte.

5 .— L’associazione «Fare Ambiente» e l’associazione«Comitato contro i referendum per la statalizzazione dell’acqua-AcquaLiberAtutti», con atti depositati in data 5 gennaio 2011, si sono costituite nel presente giudizio di ammissibilità, chiedendo a questa Corte, previa declaratoria di ammissibilità delle memorie di costituzione e conseguente autorizzazione all'audizione dei difensori, di dichiarare l’inammissibilità del quesito referendario.

Con atto depositato in data 7 gennaio 2011 si è, altresì, costituita in giudizio l’ associazione nazionale fra gli industriali degli acquedotti – ANFIDA – chiedendo, anch’essa, di dichiarare l’inammissibilità del quesito referendario.

In via preliminare, l’associazione «Fare Ambiente» e l’associazione «Comitato contro i referendum per la statalizzazione dell’acqua-AcquaLiberAtutti» hanno posto in evidenza come il loro intervento debba essere ritenuto ammissibile alla luce della giurisprudenza costante di questa Corte ed, al riguardo, hanno richiamato le sentenze n. 31 e n. 41 del 2000.

Le predette associazioni premettono che due dei quattro quesiti appaiono strettamente legati fra di loro, al punto che ove la norma indicata nel primo quesito (art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 e successive modificazioni) dovesse essere abrogata, allora si dovrebbe ipotizzare la reviviscenza della normativa da quest’ultimo a sua volta (implicitamente) abrogata, ovvero l’art. 150 del decreto legislativo n. 152 del 2006 (c.d. Codice dell'Ambiente), che sarebbe però nuovamente soggetta ad abrogazione, come previsto nel secondo (e in parte nel quarto) quesito referendario. L’associazione «Fare Ambiente» pone in evidenza i seguenti motivi di inammissibilità afferenti il quesito in oggetto.

In primo luogo, poiché esso mira a chiedere l’abrogazione dell’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, il quale sarebbe stato implicitamente abrogato dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e potrebbe rivivere giuridicamente soltanto in caso di abrogazione dell’art. 23-bis, si determinerebbe un «inganno nei riguardi degli elettori e l’incoerenza sul piano della normativa soggetta ad ablazione referendaria».

L’inganno consisterebbe nel fatto che con il quesito in esame si chiederebbe di abrogare una norma che potrebbe essere valida e, quindi, oggetto di referendum, soltanto nel caso in cui venisse esclusa la disposizione di cui si chiede l’abrogazione nel quesito n. 1. L’elettore, inoltre, verrebbe chiamato a pronunciarsi sullart. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, il quale essendo stato abrogato è privo di rilievo giuridico.

Il quesito n. 2, inoltre, incontrerebbe, ad avviso della citata associazione, il limite della mancanza di omogeneità, della chiarezza e della matrice razionalmente unitaria; sotto tale profilo il principale ostacolo all’ammissibilità deriverebbe, come già sopra posto in evidenza, dall’inefficacia della disciplina in esso inclusa: l’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, pur essendo una disciplina specifica per la gestione del servizio idrico integrato, è infatti da considerarsi, al momento, una disciplina implicitamente abrogata dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008.

Il «Comitato contro i referendum per la statalizzazione dell’acqua-AcquaLiberAtutti», invece, ritiene che il quesito sarebbe inammissibile dal momento che inciderebbe su «legge a contenuto comunitariamente vincolato».

In caso di eventuale accoglimento del quesito n. 2, il difensore del Comitato osserva che l’affidamento e la gestione del servizio idrico integrato risulterebbe del tutto svincolata da qualsivoglia disciplina e ciò con evidente violazione del principio di concorrenza, in quanto gli enti competenti sarebbero sostanzialmente liberi nel procedere a qualsiasi tipo di affidamento.

Il quesito n. 2, infatti, ad avviso del predetto Comitato, intende sottoporre ad abrogazione l’art. 150 del decreto legislativo n. 152 del 2006, il quale detta le modalità di scelta della forma di gestione e procedure di affidamento del servizio idrico integrato.

Dall’eventuale accoglimento dei quesiti referendari e, dunque, dall’eventuale abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, e dell’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, potrebbe determinarsi un vulnus nel sistema di affidamento del servizio de quo non risultando in linea con la forte connotazione a tutela della concorrenza voluta dalle cogenti norme comunitarie.

Ne conseguirebbe l’apertura di una sicura procedura d’infrazione a carico dell’Italia, come già avvenuto con riferimento alla normativa previgente a quella in oggetto (il richiamo è alla "procedura di infrazione 1999/2184 ex art. 226 Trattato. Legislazione in materia di servizi pubblici locali” trasmessa con nota del 4 luglio 2002, n. 8622).

Sussisterebbe, dunque, l’inammissibilità del quesito in base a quanto previsto dall’art. 75 Cost., nella parte in cui vieta lo svolgimento di referendum abrogativo sulle leggi di autorizzazione alla ratifica dei Trattati internazionali «e anche sulle altre disposizioni normative che producano effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività di tali leggi tanto da ritenersi implicita nel sistema la preclusione» (sentenza n. 31 del 2000).

Il quesito sarebbe inammissibile, inoltre, in quanto incidente su legge a contenuto costituzionalmente vincolato.

In particolare, le norme oggetto dei quesiti referendari risultano espressione diretta di principi costituzionali che, in materia di concorrenza nei servizi pubblici locali, possono ritenersi contenuto sostanzialmente vincolato. Sul punto, il Comitato richiama la ricostruzione operata proprio dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 325 del 2010, in cui essa ha chiarito come la disciplina posta dall’art. 23-bis d.l. n. 112 del 2008, e dall’art. 150 d.lgs. n. 156 del 2010, rappresenti espressione di una potestà normativa, sostanzialmente vincolata, dello Stato.

A sostegno di tale argomentazione, proprio con specifico riferimento al servizio idrico integrato, il Comitato rinvia, inoltre, alla già più volte menzionata sentenza n. 325 del 2010.

Altro profilo di inammissibilità atterrebbe alla carenza di chiarezza ed omogeneità del quesito referendario.

Le stesse modalità di formulazione dei titoli dei quesiti referendari e le tecniche di persuasione già adottate per la raccolta delle sottoscrizioni, le quali probabilmente verranno riutilizzate ed amplificate ove dovesse ammettersi la consultazione referendaria, testimoniano come l’elettore non abbia, in realtà, espresso liberamente il proprio convincimento. Sotto tale profilo, con riferimento all’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, il Comitato pone in rilievo come lo stesso si appalesi inammissibile in quanto inutile, superfluo ed ultroneo rispetto alle finalità perseguite.

L’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, la cui abrogazione è richiesta con il quesito in esame, regola le modalità di gestione del servizio idrico e le procedure per la scelta del soggetto gestore.

Detta norma, al momento, dovrebbe ritenersi superata dalla disciplina dettata dall’art. 23-bis, d.l. n. 112 del 2008, ma non può sfuggire come il risultato sarebbe del tutto ininfluente in relazione alle intenzioni perseguite e ciò in quanto l’art. 23-bis, avendo portata generale, risulterebbe interamente applicabile anche alle modalità di affidamento dei servizi idrici.

La situazione sarebbe diversa, qualora l’elettore, pur coartato nella scelta, dovendo decidere di azzerare interamente la disciplina di affidamento di tutti i servizi pubblici, dovesse votare positivamente per entrambi i quesiti in esame.

Il citato Comitato ritiene che la disciplina di affidamento del servizio idrico non contemplerebbe in ogni caso il ritorno alla gestione totalmente pubblica delle acque ma, al più, sembrerebbe applicabile l’art. 113 TUEL.

Infine, un ulteriore motivo di inammissibilità è ravvisato in ragione del cosiddetto vuoto legislativo nella normativa di risulta. Il quesito, infatti, mirerebbe a chiedere l’abrogazione dell’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, il quale, come detto sopra, è stato implicitamente abrogato dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e potrebbe rivivere giuridicamente solo e soltanto in caso di abrogazione dell’art. 23-bis.

L’associazione nazionale fra gli industriali degli acquedotti – ANFIDA –, inoltre, sostiene che il quesito referendario sia inammissibile in quanto incongruo e inidoneo.

In particolare, essa osserva come la disposizione oggetto di richiesta referendaria abbia introdotto una disciplina speciale in materia di affidamento e di gestione del servizio idrico integrato, rinviando alla disciplina generale dettata, all’epoca della sua entrata in vigore, dall’art. 113 TUEL e prevedendo alcuni elementi di specialità.

Benché l’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006 contenesse il rinvio al quinto comma dell’art. 113 TUEL, abrogato dall'art. 23-bis del d.l. n. 118 del 2008, l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha, però, ritenuto che l’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006 sia stato abrogato solo in parte.

Da ciò si dovrebbe dedurre che dell’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006 restino in vigore le sole parti in cui s’individua la competenza dell’Autorità d’ambito e si prevede che, per il servizio idrico integrato, l’affidamento in house e l’affidamento diretto a società miste devono rispettare – oltre ai requisiti previsti dalla disciplina generale e, quindi, oggi dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 – anche quello della titolarità delle partecipazioni pubbliche in capo agli enti locali compresi nell’ambito territoriale ottimale.

La disposizione oggetto di richiesta referendaria avrebbe, quindi, un contenuto servente alla disciplina generale sull’affidamento dei servizi pubblici di rilevanza economica di cui all’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008: sarebbe quest’ultimo articolo, infatti, ad individuare le forme di affidamento del servizio idrico, mentre l’art. 150, nella parte superstite, detta norme speciali di dettaglio, che restano di per sé prive di autonoma operatività.

Dunque, il quesito volto alla sua abrogazione sarebbe infruttuoso e, per tale ragione, inammissibile (al riguardo è richiamata la sentenza n. 43 del 2000).

L’abrogazione dell’art. 150, da sola, non consentirebbe, dunque, di produrre effetti significativi sulla disciplina dell’affidamento dei servizi idrici e, soprattutto, non consentirebbe di produrre effetti conformi al risultato prefigurato dai promotori.

Un ulteriore motivo di inammissibilità consisterebbe nell’inidoneità dello strumento referendario al raggiungimento dell’obiettivo di "ripubblicizzazione" dei servizi pubblici locali.

L’intento perseguito dai promotori con la formulazione dei tre quesiti esaminati è quello di portare alla configurazione di un servizio idrico «strutturalmente e funzionalmente privo di rilevanza economica», la cui gestione potesse essere affidata solo ad enti disciplinati dal diritto pubblico (e mai a società, ancorché in mano pubblica) e fosse assolutamente estranea a logiche tariffarie, ponendosi i relativi costi "a carico della fiscalità generale (così si legge nella Relazione introduttiva ai quesiti referendari).

Pur ammettendo che queste siano le conseguenze dell’eventuale accoglimento dei tre quesiti si tratterebbe di una proposta referendaria non puramente ablativa, bensì innovativa.

La proposta sarebbe, pertanto, inammissibile, posto che l’art. 75 Cost. consente il referendum abrogativo, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge e non invece il referendum introduttivo di discipline legislative completamente nuove (si vedano, in particolare, le sentenze n. 50 del 2000 e n. 36 del 1997).

Infine si tratterebbe di una proposta referendaria mediante la quale si vuole produrre l’effetto di una radicale riforma dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, risultato non perseguibile con lo strumento referendario.

Quanto alle effettive conseguenze dell’eventuale accoglimento del secondo quesito, esso inciderebbe in modo marginale sulla disciplina dell’affidamento e della gestione del servizio idrico, facendo venir meno essenzialmente la norma che impone, per la legittimità dell’affidamento in house e dell’affidamento diretto a società miste, il requisito – ulteriore rispetto a quelli previsti dalla disciplina generale – della titolarità delle partecipazioni pubbliche in capo agli enti locali compresi nell’ambito territoriale ottimale.

Al fine di non andare incontro a sanzioni da parte dell’Unione Europea, la lacuna che si verrebbe a creare con l’accoglimento dei quesiti referendari dovrebbe essere colmata con l’applicazione generalizzata del principio della gara ad evidenza pubblica e con l’applicazione delle norme contenute nel Codice dei contratti.

Se così è, però, l’eventuale accoglimento dei tre referendum porterebbe ad un esito opposto a quello desiderato: anziché legittimare l’affidamento diretto dei servizi a soggetti pubblici, renderebbe obbligatorio – senza eccezione alcuna – il ricorso alla gara e l’affidamento a privati.

6. — Con atto depositato in data 5 gennaio 2011, l’Associazione Nazionale Giuristi Democratici è intervenuta nel giudizio al fine si sostenere l’ammissibilità del quesito referendario per le considerazioni di seguito indicate.

L’Associazione ritiene che l’ammissibilità del referendum derivi dalla constatazione che il fine perseguito dal Comitato promotore è chiaro ed esplicito, in quanto l’abrogazione referendaria dell’art. 150 d.lgs. n. 152 del 2006, mira a non permettere che l’Autorità d’ambito possa affidare l’intera gestione del servizio a soggetti terzi.

In particolare, con l'abrogazione referendaria si vuole porre una cesura netta e definitiva tra regime dell’acqua pubblica e regime degli altri servizi pubblici locali; cioè, si vorrebbe che sia l’Autorità d’ambito a gestire direttamente le risorse idriche. A seguito di referendum abrogativo dell’art. 150, il modello gestionale dell’acqua pubblica sarebbe, infatti, quello determinato dall’art. 148 (Autorità d’ambito territoriale ottimale) del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006, con la conseguenza che l’Autorità d’ambito, «dotata di personalità giuridica», potrà gestire il servizio «in proprio».

Tale conseguenza sarebbe, peraltro, rispettosa di quanto disposto dal diritto comunitario dal momento che l’Unione europea interviene unicamente quando l’ente delibera di affidare il servizio ad un altro soggetto, non interferendo nelle scelte gestionali. Tale principio risulta sancito dalla Corte di Giustizia UE con la decisione dell’11gennaio 2005, in causa C – 26/03, Stadt Halle, punto 48.

Il quesito sarebbe, inoltre, idoneo al raggiungimento del proposito referendario anche nell’ipotesi in cui l’art. 23-bis permanga nell’ordinamento.

Infatti, venendo meno l’art. 150, l’Autorità d’ambito recupererebbe tutte le possibili scelte gestionali previste in generale per la gestione di un servizio pubblico locale (gestione diretta, affidamento ad un organismo di diritto pubblico, affidamento ad una società cd. mista o ancora affidando il servizio all’esterno con le forme della procedura ad evidenza pubblica).

In primo luogo, la detta Autorità non sarebbe più obbligata ad affidare la "gestione” del servizio; non le sarebbe impedito di affidare, con gara, parti o porzioni di attività, mantenendo la titolarità del servizio.

Impedire, dunque, l’affidamento della "gestione” del servizio non significherebbe assolutamente che debba essere l’Autorità d’ambito, direttamente, a dover provvedere alle diverse porzioni di attività, ma comporterebbe soltanto che la titolarità del servizio resti pubblica.

Lo scopo del referendum sarebbe, quindi, realizzato in quanto l’obiettivo è proprio quello di «ripubblicizzare» il servizio di distribuzione dell’acqua, bene comune.

Anche l’art. 23-bis nella ipotesi di una sua sopravvivenza non si opporrebbe a tale modalità di gestione. Ciò per varie ragioni.

 In primo luogo l’art. 23-bis, ad avviso dell’Associazione, attiene e regola (modellandosi sul diritto comunitario) l’affidamento” di servizi pubblici locali e, dunque, non attiene alla scelta, di pertinenza dell’ente locale, se disporre un affidamento, ovvero gestire direttamente (in senso proprio) il servizio.

L’art. 23-bis non vieterebbe la gestione diretta del servizio (diretta in senso proprio), quella che non avviene attraverso le aziende speciali, gli affidamenti in economia (che sono pur sempre appalti), le società miste e così via, ma che avviene attraverso il diretto controllo dell’ente e con suo personale.

In caso di vittoria referendaria, dunque, anche là dove non fosse abrogato nel contempo l’art. 23-bis, ad avviso dell’Associazione, il modello previsto da quella norma non sarebbe comunque applicabile al settore idrico, che resterebbe regolato dal Titolo II della Sezione III del d.lgs. n. 152 del 2006.

Inoltre, poiché la rilevanza economica di un servizio è unicamente un criterio politico-discrezionale, non certo oggettivo, secondo l’Associazione una pronuncia referendaria chiara e netta, come quella che si propone, avrebbe l’effetto di sancire l’uscita, per effetto della volontà popolare democraticamente espressa, del servizio di gestione dell’acqua dai servizi a rilevanza economica.

A seguito dell’abrogazione referendaria dell’art. 150, venendo meno la possibilità di affidare in toto il servizio all’esterno (ed anche alle società di diritto privato a capitale pubblico), la titolarità del servizio resterà ancorata alle Autorità d’ambito, che potrebbero naturalmente ricorrere ad appalti esterni, mantenendo però il controllo pubblico sulla gestione e distribuzione di un bene primario qual è l’acqua.

7. — In data 7 gennaio 2011 il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha depositato una memoria nella quale ha formulato alcune deduzioni volte a sostenere l’inammissibilità del quesito.

Dopo aver riepilogato le modifiche apportate alla disposizione de qua dal d.P.R. n. 168 del 2010 e dall’art. 1, comma 1-quinquies, del d.l. n. 2 del 2010, convertito dalla legge n. 42 del 2010, che ha soppresso le Autorità d’ambito, ritiene che il quesito non presenti i caratteri di semplicità, chiarezza e completezza, in quanto non si comprenderebbe «a cosa tenda la richiesta referendaria».

In particolare, la difesa dello Stato sostiene che «la partecipazione sarebbe fittizia, solo nominale, meramente rituale (Corte cost. sentenza n. 27 del 1981)», in quanto, permanendo tutte le altre disposizioni sull’affidamento del servizio idrico integrato, il risultato del referendum sarebbe del tutto contraddittorio ed incoerente ed addirittura contrario alle finalità degli stessi promotori.

Conclusivamente la volontà popolare non sarebbe messa in condizione di esprimersi in maniera consapevole (è citata la sentenza n. 43 del 2000).

8. — Nella camera di consiglio del 12 gennaio 2011 sono intervenuti, per le rispettive parti assistite come indicate in epigrafe, gli avvocati Ugo Mattei, Pietro Adami, Federico Sorrentino, Tommaso Edoardo Frosini, Giovanni Pitruzzella, Massimo Luciani, nonché l’avvocato dello Stato Antonio Tallarida.

Considerato in diritto

1. — La richiesta di referendum abrogativo, dichiarata conforme alle disposizioni di legge dall’Ufficio centrale per il referendum con ordinanza del 6 dicembre 2010, ha per oggetto l’articolo 150 (Scelta della forma di gestione e procedure di affidamento) del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale).

Al relativo quesito sono stati assegnati il n. 2 e il seguente titolo: «Servizio idrico integrato. Forme di gestione e procedure di affidamento in materia di risorse idriche. Abrogazione». Successivamente, a seguito di rilievo del detto Ufficio e su conforme richiesta del Comitato promotore, il quesito è stato così modificato: «Volete voi che sia abrogato l’art. 150 (Scelta della forma di gestione e procedure di affidamento) del Decreto legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 "Norme in materia ambientale”, come modificato dall’art. 2, comma 13 del decreto legislativo n. 4 del 16 gennaio 2008, nel testo risultante dall’art. 12 del d. P. R. 7 settembre 2010 n. 168?».

2. — In via preliminare, si deve rilevare che, nella camera di consiglio del 12 gennaio 2011, la Corte costituzionale ha disposto, come già avvenuto più volte in passato (ex multis: sentenze nn. 16 e 15 del 2008; n. 45 del 2005), sia di dar corso all’illustrazione orale delle memorie depositate dai soggetti presentatori del referendum e dal Governo, ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), sia di ammettere gli scritti presentati da soggetti diversi da quelli contemplati dalla disposizione citata, e tuttavia interessati alla decisione sull’ammissibilità della richiesta referendaria, come contributi contenenti argomentazioni ulteriori rispetto a quelle altrimenti a disposizione della Corte.

Tale ammissione, che deve essere qui confermata, non si traduce però in un diritto di questi soggetti di partecipare al procedimento – che, comunque, «deve tenersi e concludersi secondo una scansione temporale definita» (sentenza n. 35 del 2000) – con conseguente facoltà ad illustrare le relative tesi in camera di consiglio, a differenza di quanto vale per i soggetti espressamente indicati dall’art. 33 della legge n. 352 del 1970, ossia per i promotori del referendum e per il Governo.

In ogni caso, è fatta salva la facoltà della Corte, qualora lo ritenga opportuno, di consentire brevi integrazioni orali degli scritti pervenuti in camera di consiglio, prima che i soggetti di cui al citato art. 33 illustrino le rispettive posizioni.

3. — Sempre in premessa, si deve ribadire che, nell’ambito del presente giudizio, la Corte costituzionale è chiamata a giudicare della sola ammissibilità della richiesta referendaria e che tale competenza si atteggia, per giurisprudenza costante, «con caratteristiche specifiche ed autonome nei confronti degli altri giudizi riservati a questa Corte, ed in particolare rispetto ai giudizi sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti con forza di legge» (sentenze nn. 16 e 15 del 2008 e n. 45 del 2005). Non è quindi in discussione, in questa sede, la valutazione di eventuali profili di illegittimità costituzionale della normativa oggetto dell’iniziativa referendaria.

4. — L’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, e successive modificazioni, si compone di quattro commi.

Il primo demanda all’Autorità d’ambito, nel rispetto del piano e del principio di unitarietà della gestione per ciascun ambito, di deliberare la forma di gestione. Nel testo originale tale forma andava individuata «fra quelle di cui all’art. 113, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267». L’art. 12, comma 1, lettere a) e b), del decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 168 (Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133) ha abrogato, a decorrere dalla data di entrata in vigore del regolamento stesso, il detto art. 113, commi 5, 5-bis, 6, 7, 8, 9 (escluso il primo periodo), 14, 15-bis, 15-ter e 15-quater del detto decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), e successive modificazioni, nonché l’art. 150, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, e successive modificazioni, «ad eccezione della parte in cui individua la competenza dell’Autorità d’ambito per l’affidamento e l’aggiudicazione». Inoltre, il comma 2 del citato art. 12 del d.P.R. n. 168 del 2010 ha stabilito che «Le leggi, i regolamenti, i decreti, o altri provvedimenti, che fanno riferimento al comma 7 dell’art. 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, abrogato dal comma 1, lettera a), si intendono riferiti al comma 1 dell’art. 3 del presente regolamento». Quest’ultima norma dispone che «Le procedure competitive ad evidenza pubblica, di cui all’articolo 23-bis, comma 2, sono indette nel rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e di sicurezza definiti dalla legge, ove esistente, dalla competente autorità di settore o, in mancanza di essa dagli enti affidanti».

L’art. 150, comma 2, del d.lgs., n. 152 del 2006 stabilisce che l’Autorità d’ambito aggiudica la gestione del servizio idrico integrato mediante gara disciplinata dai principi e dalle disposizioni comunitarie. Nel testo iniziale si richiamavano i criteri di cui all’art. 113, comma 7, del d.lgs. n. 257 (recte: 267) del 2000, «secondo modalità e termini stabiliti con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare nel rispetto delle competenze regionali in materia». Stante l’abrogazione della norma da ultimo citata, a seguito del menzionato regolamento di delegificazione, il richiamo deve ora intendersi all’art. 3, comma 1, del regolamento stesso, che contempla le procedure competitive ad evidenza pubblica, di cui all’art. 23-bis, comma 2.

L’art. 150, comma 3, dispone che la gestione può essere altresì affidata a società partecipate esclusivamente e direttamente da comuni o altri enti compresi nell’ambito territoriale ottimale, qualora ricorrano obiettive ragioni tecniche o economiche.

Il testo iniziale rinviava alla previsione dell’art. 113, comma 5, lettere b) e c) del d.lgs. n. 267 del 2000, ma tale disposizione è stata abrogata a seguito dell’emanazione del citato regolamento di delegificazione.

Infine, il comma 4 stabilisce che «I soggetti di cui al presente articolo gestiscono il servizio idrico integrato su tutto il territorio degli enti locali ricadenti nell’ambito territoriale ottimale, salvo quanto previsto dall’articolo 148, comma 5».

5. — La richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art.150 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, è inammissibile.

5.1. — Si deve in primo luogo rilevare che la Corte costituzionale, in sede di giudizio di ammissibilità, deve valutare separatamente ciascun quesito referendario dichiarato legittimo dall’Ufficio centrale per il referendum; ciò anche nel caso in cui sia stata dichiarata legittima una pluralità di quesiti attinenti alla stessa materia. Il potere attribuito dalla legge all’Ufficio centrale (e non alla Corte costituzionale) di "concentrare” le richieste referendarie «che rivelano uniformità od analogia di materia» e di stabilire la denominazione di ciascuna richiesta (eventualmente già oggetto di "concentrazione”), nonché la possibilità che le varie richieste presentate perseguano obiettivi diversi, dimostrano che la Corte deve valutare ciascun quesito indipendentemente dagli altri e, in particolare, dagli effetti che l’esito degli altri referendum potrebbe avere sulla normativa di risulta.

In altri termini, la coerenza di tali quesiti (la «matrice razionalmente unitaria» richiesta dalla giurisprudenza costituzionale) va valutata in relazione a ciascuno di essi, e non nel loro complesso, senza che assuma rilievo l’eventualità che siano stati promossi, in tutto o in parte, dai medesimi promotori.

In questo quadro deve essere valutato, in via preliminare, l’obiettivo perseguito mediante il singolo referendum.

La richiesta referendaria è atto privo di motivazione, sicché l’obiettivo dei sottoscrittori va desunto non da una loro dichiarazione d’intenti, ma soltanto dalla finalità incorporata nel quesito, cioè dalla finalità oggettivamente ricavabile dal nesso che viene a porsi tra le norme di cui si chiede l’abrogazione e quelle che residuerebbero dopo tale abrogazione. In altri termini, il quesito va interpretato esclusivamente in base alla sua formulazione ed all’incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento.

Si deve aggiungere che, in base alla giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978, il giudizio di ammissibilità del referendum è diretto ad accertare: a) l’insussistenza dei limiti (indicati o rilevabili in via sistematica dall’art. 75, secondo comma, Cost.), attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario (leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali; leggi tributarie; leggi di bilancio; leggi di amnistia e di indulto; leggi costituzionali; leggi a contenuto costituzionalmente vincolato o costituzionalmente necessarie); b) la sussistenza dei requisiti concernenti la formulazione del quesito referendario (omogeneità; chiarezza e semplicità; univocità; completezza; coerenza; idoneità a conseguire il fine perseguito; rispetto della natura essenzialmente ablativa dell’operazione referendaria).

Da quanto sopra esposto deriva che il giudizio di ammissibilità ha carattere oggettivo e ad esso è estranea qualsiasi valutazione di merito, in ordine sia alla normativa oggetto di referendum sia a quella risultante dall’eventuale abrogazione referendaria (ex plurimis: sentenza n. 26 del 1981; nello stesso senso, in sostanza, anche le sentenze n. 45 del 2005 e n. 16 del 2008).

Tuttavia ciò non significa che alla Corte sia inibita l’individuazione della normativa di risulta. Invero, la stessa Corte ha individuato alcuni limiti e requisiti di ammissibilità del referendum, che esigono non soltanto di verificare quale possa essere tale normativa ma anche (in alcuni casi eccezionali) di valutarne la conformità a Costituzione. Tali sono i casi in cui viene in rilievo il limite di ammissibilità costituito da leggi a contenuto vincolato, per effetto o di trattati internazionali o di norme comunitarie o di norme costituzionali, e da leggi costituzionalmente necessarie.

Tanto premesso per valutare l’idoneità, la congruità e la chiarezza del quesito referendario in esame è necessario: a) individuare l’intento con esso perseguito; b) individuare la normativa di risulta; c) porre a confronto i risultati di cui alle predette indagini.

Orbene, stando al tenore del quesito, il referendum si propone l’obiettivo – da realizzare attraverso l’abrogazione dell’art. 150 del codice dell’ambiente – di rendere inapplicabile al servizio idrico integrato la disciplina concernente le modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica (SPL); disciplina dettata in generale, per quasi tutti i servizi pubblici locali (ivi compreso il servizio idrico integrato) dall’art. 23-bis del d. l. n. 112 del 2008. Quest’ultima norma è diretta, nel suo complesso, a favorire la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica da parte di soggetti scelti a seguito di gara ad evidenza pubblica, ammettendo soltanto in casi eccezionali la gestione in house del servizio pubblico locale e limitando, quindi, a tali ipotesi eccezionali la gestione diretta del servizio (senza gara pubblica) da parte dell’ente pubblico.

Ciò posto, si deve osservare che la normativa di risulta non può mai comportare l’abrogazione delle norme di cui all’art. 23-bis, limitatamente al settore del servizio idrico integrato.

Infatti, il referendum n. 2 ha per oggetto soltanto l’art. 150 del codice dell’ambiente, il quale è stato già in buona parte abrogato, sia in modo espresso, sia per incompatibilità, dall’art. 23-bis (direttamente e per mezzo del regolamento di delegificazione autorizzato dallo stesso art. 23-bis). Più precisamente, l’art. 150 del codice dell’ambiente rinvia all’art. 113 del d.lgs. n. 267 del 2000 (TUEL), il quale, come si è detto, è stato abrogato (in parte) dal citato art. 23-bis, anche mediante il suddetto regolamento di delegificazione.

Quest’ultimo, poi, ha disposto che il richiamo al comma 7 dell’art. 113 TUEL (contenuto nell’art. 150) è sostituito dal richiamo all’art. 3, comma 1, del medesimo regolamento, il quale rinvia all’art. 23-bis, comma 2, concernente il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali in via ordinaria.

La disposizione da ultimo citata stabilisce in modo espresso (comma 1, secondo periodo) che le sue norme si applicano a tutti i settori di SPL (tranne alcuni esclusi, tra cui non è compreso il servizio idrico), prevalendo sulle normative di settore e, quindi, anche su quella relativa al servizio idrico.

Ne deriva che l’abrogazione referendaria dell’art. 150 del Codice dell’ambiente (attualmente consistente, peraltro, in una mera armonizzazione delle norme sul servizio idrico integrato con quelle, già autoapplicative, dell’art. 23-bis), in difetto dell’abrogazione di quest’ultima norma, non è idonea a far venire meno l’applicazione al solo servizio idrico delle forme di gestione fissate, anche per tale servizio, proprio dal detto art. 23-bis. In altre parole questo articolo è applicabile al settore idrico indipendentemente dalla vigenza dell’art. 150 del codice dell’ambiente.

Per i limiti strutturali suoi propri, lo strumento referendario applicato a detta norma – in quanto di natura ablativa e privo, dunque, di efficacia propositiva o additiva – non è in grado nell’attuale quadro normativo di escludere l’efficacia dell’art. 23-bis per il solo settore idrico.

Né varrebbe addurre che quest’ultima norma è, a sua volta, oggetto di altro (e distinto) referendum. Invero, un giudizio anticipato sulla situazione normativa risultante dall’avvenuta (in ipotesi) abrogazione referendaria della norma da ultimo citata verterebbe su norme future e incerte, perciò inidonee a dare fondamento ad una decisione che, invece, va adottata sulla base del quadro normativo in vigore al momento della decisione medesima.

In conclusione, alla luce dei rilievi fin qui esposti il quesito in esame si rivela inidoneo e non coerente (con conseguente difetto di chiarezza) rispetto al fine, che l’iniziativa referendaria si propone, di rendere inapplicabile al servizio idrico integrato la disciplina delle modalità di affidamento della gestione dei SPL a rilevanza economica.

Da tanto consegue l’inammissibilità del referendum

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’articolo 150 (Scelta della forma di gestione e procedure di affidamento) del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), come modificato dall’articolo 2, comma 13, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), nel testo risultante dall’articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 168 (Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), richiesta dichiarata legittima con ordinanza emessa in data 6 dicembre 2010, depositata in data 7 dicembre 2010, dall’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 gennaio 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 gennaio 2011.