Sentenza n.26 del 1981
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SENTENZA N. 26

ANNO 1981

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Avv. Leonetto AMADEI, Presidente

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudiz riuniti sull'ammissibilità, ai sensi dell'art. 75, comma secondo, della Costituzione, delle richieste di referendum popolare per l'abrogazione:

1) degli articoli: 1; 4; 5; 6, lettera b), limitatamente alle parole: "tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro"; 7; 8; 9 comma primo limitatamente alle parole: "alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed", e comma quarto limitatamente alle parole: "l'espletamento delle procedure previste dall'articolo 7 e", nonché alle parole: "secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8"; 10, comma primo, limitatamente alle parole: "nelle circostanze previste dagli articoli 4 e 6,", nonché alle parole: "di cui all'articolo 8", e comma terzo, limitatamente alle parole: "secondo quanto previsto dal secondo comma dell'articolo 5 e dal primo comma dell'articolo 2"; 11, comma primo (L'ente ospedaliero, la casa di cura o il poliambulatorio nei quali l'intervento è stato effettuato sono tenuti ad inviare al medico provinciale competente per territorio una dichiarazione con la quale il medico che lo ha eseguito dà notizia dell'intervento stesso e della documentazione sulla base della quale è avvenuto, senza fare menzione dell'identità della donna.); 12; 13; 14; 19, comma primo (Chiunque cagiona l'interruzione volontaria della gravidanza senza l'osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8, è punito con la reclusione sino a tre anni.), comma secondo (La donna è punita con la multa sino a lire centomila.), comma terzo limitatamente alle parole: "o comunque senza l'osservanza delle modalità previste dallo articolo 7,", comma quinto (Quando l'interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l'osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile.) e comma settimo (Le pene stabilite dal comma precedente sono aumentate se la morte o la lesione della donna derivano dai fatti previsti dal quinto comma.); 22, comma terzo (Salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, non è punibile per il reato di aborto di donna consenziente chiunque abbia commesso il fatto prima dell'entrata in vigore della presente legge, se il giudice accerta che sussistevano le condizioni previste dagli articoli 4 e 6.), della legge 22 maggio 1978, n. 194, recante: "Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza" (n. 22 reg. ref.);

2) degli articoli: 4; 5; 6; 7; 8; 9; 10; 11; 12; 13; 14; 15; 19, primo comma, limitatamente alle parole: "senza l'osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8", terzo comma (Se l'interruzione volontaria della gravidanza avviene senza l'accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell'articolo 6 o comunque senza l'osservanza delle modalità previste dall'articolo 7, chi la cagiona è punito con la reclusione da uno a quattro anni.), quarto comma (La donna è punita con la reclusione sino a sei mesi.), quinto comma (Quando l'interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l'osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile.), settimo comma (Le pene stabilite dal comma prece dente sono aumentate se la morte o la lesione della donna derivano dai fatti previsti dal quinto comma.) e degli articoli 20 e 21 della legge 22 maggio 1978, n. 194, recante: "Norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza" (n. 23 reg. ref.);

3) degli articoli: 4; 5; 6, limitatamente alle parole "dopo i primi novanta giorni", "tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro", "e psichica"; 8; 12; 13; 14; 15; 19, primo comma, limitatamente alle parole "negli articoli 5 o 8", terzo comma (Se l'interruzione volontaria della gravidanza avviene senza l'accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell'articolo 6 o comunque senza l'osservanza delle modalità previste dall'articolo 7, chi la cagiona è punito con la reclusione da uno a quattro anni.), quarto comma (La donna è punita con la reclusione sino a sei mesi.), quinto comma (Quando l'interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l'osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile.), settimo comma (Le pene stabilite dal comma precedente sono aumentate se la morte o la lesione della donna derivano dai fatti previsti dal quinto comma.), della legge 22 maggio 1978, n. 194, recante: "Norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza" (n. 24 reg. ref.).

Viste le ordinanze in data 15 dicembre 1980 con le quali l'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato legittime le suddette richieste;

udito nella camera di consiglio del 14 gennaio 1981 il Giudice relatore Livio Paladin;

uditi gli avvocati Mauro Mellini, Marcello Gallo e Francesco Migliori per i comitati promotori e l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con tre ordinanze, emesse il 15 dicembre e comunicate a questa Corte il 19 dicembre 1980,l'Ufficio centrale per il referendum, istituito presso la Corte di cassazione, ha dichiarato legittime altrettante richieste di referendum popolare, per la parziale abrogazione della legge 22 maggio 1978, n. 194, recante" "Norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza".

Precisamente, la prima di tali richieste (reg. ref. n. 22) - presentata il 26 giugno 1980 dai promotori Rippa Giuseppe, Chernbini Laura, Passeri Maria Grazia, Pergameno Silvio, Berger Franca - concerne un referendum da indire sul seguente quesito: "Volete voi l'abrogazione degli articoli 1; 4; 5; 6 lettera b) limitatamente alle parole: "tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro"; 7; 8; 9 comma primo, limitatamente alle parole: "alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 e", e comma quarto limitatamente alle parole: "l'espletamento delle procedure previste dall'articolo 7 e", nonché alle parole: "secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8"; 10 comma primo limitatamente alle parole: "nelle circostanze previste dagli articoli 4 e 6", nonché alle parole: di "cui all'articolo 8", e comma terzo limitatamente alle parole: "secondo quanto previsto dal secondo comma dell'articolo 5 e dal primo comma dell'articolo 7"; 11 comma primo (L'ente ospedaliero, la casa di cura o il poliambulatorio nei quali l'intervento è stato effettuato sono tenuti ad inviare al medico provinciale competente per territorio una dichiarazione con la quale il medico che lo ha eseguito dà notizia dell'intervento stesso e della documentazione sulla base della quale è avvenuto senza fare menzione dell'identità della donna.); 12; 13; 14; 19 comma primo (Chiunque cagiona l'interruzione volontaria della gravidanza senza l'osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8, è punito con la reclusione sino a tre anni.), comma secondo (La donna è punita con la multa fino a lire centomila.), comma terzo limitatamente alle parole: "o comunque senza l'osservanza delle modalità previste dall'articolo 7,", comma quinto (Quando l'interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l'osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile.) e comma settimo (Le pene stabilite dal comma precedente sono aumentate se la morte o la lesione della donna derivano dai fatti previsti dal quinto comma.); 22 comma terzo (Salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, non è punibile per il reato di aborto di donna consenziente chiunque abbia commesso il fatto prima dell'entrata in vigore della presente legge, se il giudice accerta che sussistevano le condizioni previste dagli articoli 4 e 6.) della legge 22 maggio 1978, n. 194, recante "Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza".

La seconda richiesta (reg. ref. n. 23) - presentata il 29 settembre 1980 dai promotori Cerletti Giovanni Battista, Achille Antonio, De Marinis Pierluigi, Montaldo Corrado - mira invece all'abrogazione degli articoli 4,5, 6, 7,8,9,10,11,12, 13, 14, 15, 19, primo comma, limitatamente alle parole: "senza l'osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8"; terzo comma "Se l'interruzione volontaria della gravidanza avviene senza l'accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell'articolo 6 o comunque senza l'osservanza delle modalità previste dall'articolo 7, chi la cagiona è punito con la reclusione sino a sei mesi."; quinto comma: "Quando l'interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l'osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile."; settimo comma: "Le pene stabilite dal comma precedente sono aumentate se la morte o la lesione della donna derivano dai fatti previsti dal quinto comma."; articoli 20,21.

Infine, la terza richiesta (reg. ref. n. 24) - anch'essa presentata il 29 settembre 1980 dai promotori Verduchi Paolo Maria, Scognamiglio Simona, Cecina Angelo, Monacchi Riccardo - ha per oggetto gli articoli 4,5, 6, limitatamente alle parole "dopo i primi novanta giorni", "tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro", "o psichica"; 8,12,13,14,15,19, primo comma, limitatamente alle parole "negli articoli 5 o 8"; terzo comma: "Se l'interruzione volontaria della gravidanza avviene senza l'accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell'articolo 6 o comunque senza l'osservanza delle modalità previste dallo articolo 7, chi la cagiona è punito con la reclusione da uno a quattro anni."; quarto comma: "La donna è punita con la reclusione sino a sei mesi."; quinto comma: "Quando l'interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l'osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile."; settimo comma: "Le pene stabilite dal comma precedente sono aumentate se la morte o la lesione della donna derivano dai fatti previsti dal quinto comma".

2. - In tutti e tre i casi, l'Ufficio centrale per il referendum ha verificato in primo luogo che era stato raggiunto e superato il numero di 500.000 sottoscrizioni, indicato dalla legge 25 maggio 1970, n.352 (conformemente all'art.75 Cost.). Circa la seconda e la terza richiesta, l'Ufficio ha anzi sospeso, "in quanto superflue", le ulteriori operazioni di verifica delle firme raccolte.

L'Ufficio stesso, per stabilire a questo punto se occorresse concentrare o mantenere distinte le tre richieste, ha quindi affrontato una serie di questioni riguardanti l'interpretazione e la legittimità costituzionale dell'art. 32, sesto comma, della legge n. 352 del 1970; ai sensi del quale si deve provvedere alla concentrazione, allorché le richieste in esame "rivelano uniformità o analogia di materia".

Quanto all'interpretazione, l'Ufficio ha ipotizzato - in base ad "una prima possibile lettura della norma" - che per materia debba intendersi in tal senso "la disciplina giuridica del settore dell'ordinamento, investita dalla richiesta abrogatrice". Sennonché la constatazione che, a questa stregua, dovrebbero venire "accomunate in un solo quesito richieste divergenti", il che concreterebbe un risultato "inaccettabile" e verosimilmente incostituzionale, ha indotto l'Ufficio ad accantonare la predetta ipotesi interpretativa, concludendo piuttosto che "uniformità di materia" significa sostanziale "identità della richiesta": con la conseguenza che in casi come quello in esame, nell'impossibilità di esprimere un unico quesito referendario secondo il criterio della "bipolarità" o della "formulazione dilemmatica" non sarebbe dato procedere alla concentrazione.

Quanto alla legittimità costituzionale dell'art. 32 sesto comma - premesso che anche in un giudizio sulla legittimità delle richieste referendarie potrebbero venire sollevate "questioni di costituzionalità delle norme della legge n.352 del 1970 da applicare" nei giudizi stessi - l'Ufficio ha rilevato che essa determina una serie di dubbi, pur quando le varie richieste (concernenti una medesima disciplina normativa) siano mantenute distinte. Infatti, "la giustapposizione delle singole votazioni" sarebbe suscettibile di produrre esiti "equivoci e incoerenti", risultando "di incerta decifrazione e persino contraddittoria nel caso estremo, ma non impossibile, di approvazione di proposte di segno contrario o comunque non coincidenti"; né si potrebbero ignorare "le possibili distorsioni o alterazioni della volontà popolare con riguardo al diverso significato che le astensioni dal voto assumono in presenza di una molteplicità di proposte referendarie relative alla medesima legge"; ed anzi andrebbe osservato, prima ancora, che "l'eventualità del contemporaneo svolgimento di più referendum abrogativi "impedirebbe al legislatore di rispondere adesivamente alla proposta e di evitare la consultazione popolare, poiché sarebbe impossibile armonizzare il diritto vigente con tutte le divergenti, o comunque non coincidenti, proposte abrogatrici".

Tuttavia, le tre ordinanze hanno dato atto - aderendo agli scritti difensivi presentati in tal senso da tutti i comitati promotori interessati - "che le incoerenze sistematiche e le incongruenze di risultati cui mette capo la vigente disciplina", pur assumendo rilievo sullo stesso piano della legittimità costituzionale, "incidono su fasi distinte ed ulteriori del procedimento referendario, il cui controllo non ricade entro la sfera delle attribuzioni nel presente momento esercitate dall'Ufficio centrale per il referendum" (salva ovviamente restando "la potestà di altri organi competenti di rilevare - ove del caso, anche di ufficio - eventuali sospetti di incostituzionalità dei disposti della legge n. 352 del 1970, "in rapporto alla situazione o fattispecie emergente dalla convergenza di una stessa serie o ciclo referendario di proposte di segno opposto o divergenti"). Con questo fondamento - una volta accertato "il carattere legislativo dell'atto normativo sottoposto a referendum" e visto che al riguardo non erano "intervenuti atti di abrogazione, né pronunce di illegittimità costituzionale" - è stata perciò dichiarata la legittimità delle tre richieste referendarie, distintamente prese in considerazione.

3. - Ricevuta comunicazione delle ordinanze, il Presidente di questa Corte ha fissato per le conseguenti deliberazioni il giorno 14 gennaio 1981, dandone a sua volta comunicazione ai presentatori delle richieste ed al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell'art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970. Si sono avvalsi della facoltà di depositare memorie - prevista dall'art. 33, terzo comma - tanto i comitati promotori dei tre referendum quanto l'Avvocatura dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri.

a) La memoria relativa alla richiesta del 26 giugno 1980 premette che la depenalizzazione dell'aborto nei termini sanciti dalla legge n. 194 del 1978, non violerebbe alcuna disposizione costituzionale. Con la sentenza 18 febbraio 1975, n. 27, la Corte avrebbe in effetti risolto la sola questione dei limiti di punibilità dell'aborto su donna consenziente (non già dei limiti eventualmente frapposti alla depenalizzazione dell'aborto stesso); ed anche la motivazione della predetta pronuncia andrebbe riguardata in vista dello specifico problema che la Corte era allora chiamata ad affrontare, per cui non si potrebbe comunque desumerne la necessità di una qualche previsione punitiva. In linea generale, del resto, la tutela del nascituro si presterebbe a venire assicurata senza far ricorso a misure repressive dell'aborto, che oltre tutto sarebbero solo simboliche (come già risulterebbe dalla "sistematica disapplicazione dell'art. 546 C.P."). Né sarebbe indispensabile che tutti i beni costituzionalmente garantiti divengano oggetto di apposite sanzioni penali: - specialmente qualora si tratti - come nel caso in esame - di "incidere sempre più evidentemente in una sfera intima della vita della donna".

In ogni caso, secondo la legge n. 194, l'aborto non potrebbe dirsi "libero", in quanto non sarebbe stato concepito come un "diritto soggettivo" bensì come un mero "interesse legittimo", "solo casualmente ed eventualmente protetto", allorché ricorrano tutti i presupposti indicati dalla legge stessa. Proprio in tal senso, però, una violazione delle norme costituzionali concernenti i diritti della donna potrebbe se mai prospettarsi nella parte in cui la legge n. 194 priverebbe le interessate di ogni "utile e tempestiva forma di tutela giurisdizionale", mettendo in dubbio finanche l'interesse legittimo ad abortire e pregiudicando in vario senso "la praticabilità dell'aborto": il quale verrebbe, pertanto, rigettato nella clandestinità. Di conseguenza si afferma il referendum promosso dal partito radicale rappresenterebbe "addirittura uno strumento per l'eliminazione di norme incostituzionali".

Al di là dei problemi specifici, la memoria in questione sottolinea comunque la "tassatività delle materie" escluse dal referendum ai sensi dell'art. 75 Cost.; e critica perciò l'integrazione delle ipotesi costituzionalmente previste, che questa Corte avrebbe operato con la sentenza n. 16 del 1978. La Corte, in effetti, non potrebbe arrogarsi interventi che non fossero di pura e semplice "verifica" sul piano giuridico, bensì di "accettazione" delle iniziative referendarie; così procedendo, ne discenderebbe l'autoattribuzione di poteri non previsti da alcuna norma, né costituzionale né legislativa ordinaria, con il rischio di trasformare il sindacato sull'ammissibilità delle richieste di referendum in un sindacato preventivo sulla legittimità delle abrogazioni cui potrebbero dar adito le richieste medesime. D'altronde, proprio in tema di aborto, la sentenza n. 251 del 1975 avrebbe già escluso che, nell'accertare l'ammissibilità del referendum, la Corte possa valutare la stessa legittimità delle modifiche normative suscettibili di derivarne.

Dopo aver accennato alle ragioni della richiesta in esame, con particolare riguardo agli artt. 1 e 12 della legge n. 194, la memoria conclude insistendo nelle considerazioni - già svolte in occasione del previo giudizio di legittimità, spettante all'Ufficio centrale per il referendum - per cui nulla escluderebbe l'ammissibilità di molteplici e contemporanee richieste referendarie, sebbene concernenti una medesima legge.

b) Premesso che l'effettuazione di varie consultazioni referendarie aventi per oggetto la legge n. 194 del 1978 non colliderebbe affatto con il principio della sovranità popolare (e sarebbe in ogni caso imposta dall'esigenza di non alterare le regole del procedimento già in corso), il comitato promotore del referendum c.d. massimale del "movimento per la vita", prospetta tuttavia, "per tuziorismo", una serie di eccezioni riguardanti quello che viene definito il "referendum radicale sull'aborto". In quanto ispirato ad una "totale indifferenza ... rispetto all'aborto nei primi tre mesi", tale referendum lederebbe il "fondamento costituzionale" della tutela del concepito, già riconosciuto dalla sentenza n. 27 del 1975, con cui la Corte avrebbe stabilito la necessità di un serio accertamento delle condizioni atte a giustificare l'interruzione della gravidanza. D'altra parte si aggiunge non si potrebbe richiamare, a favore dell'ammissibilità di consultazioni del genere, la sentenza n. 251 del 1975, che dichiarò ammissibile il referendum per l'abrogazione degli artt. 546 - 555 cod. pen.: in quel caso, difatti, il referendum tendeva alla riforma del codice penale, mentre nel caso in esame lo scopo consisterebbe nella "pura e semplice abrogazione" delle norme vigenti.

Dopo aver insistito sull'indispensabile tutela del nascituro sin dall'atto del concepimento, la memoria in esame sottolinea però che la legge n. 194 non risponderebbe, nel complesso delle sue disposizioni, ai precetti della Costituzione; ma ritiene pur sempre inammissibile il referendum "radicale" - comunque la Corte risolva le questioni di legittimità costituzionale della legge medesima, attualmente sottoposte al suo giudizio - perchè esso intenderebbe abrogare le stesse disposizioni più fondamentali, a cominciare dall'art. 1 della legge, che invece "sviluppano principi costituzionali". Del resto, dovrebbe pur sempre concludersi che il principio ispiratore di tale referendum "conflitto con la costituzione più intensamente della legge" n. 194.

Per contro, la memoria afferma l'ammissibilità del referendum "massimale": sia perchè la Corte dovrebbe cogliere l'occasione per rimeditare gli assunti della sentenza n. 27 del 1975, riconoscendo che la vita del concepito non può "valere meno della salute della madre"; sia perchè, in ogni caso, la legge n. 194, pur modificata nel senso voluto dai promotori del referendum in questione, infliggerebbe "pene estremamente miti, praticamente simboliche", e dunque ben diverse da quelle già previste nel codice penale, in considerazione delle quali la Corte avrebbe allora adottato quella decisione di parziale accoglimento.

c) La memoria concernente il referendum c.d. minimale, proposto dal "movimento per la vita", esordisce anch'essa valutando se i tre referendum in esame siano ammissibili, nella ipotesi di una loro "contemporanea esecuzione". Nella memoria si riafferma, da un lato, l'inammissibilità del referendum "radicale" e, d'altro lato, l'ammissibilità del referendum c.d. massimale. Tuttavia, si contesta che la Corte possa, in sede di giudizio sull'ammissibilità - e dunque in applicazione del'art. 33 della legge n. 352 del 1970 - ritenere rilevanti questioni di legittimità costituzionale "attinenti alla organizzazione della fase successiva" del procedimento referendario (e, meno ancora, questioni relative alla fase precedente, vale a dire all'art. 32 l. cit., già applicato dalla Corte di cassazione). D'altronde, tali questioni potrebbero venire sollevate a suo tempo, quando i loro presupposti "si fossero verificati", in conseguenza dell'effettuazione dei tre referendum.

La memoria in esame esclude, comunque, che la legge n. 352 del 1970 abbia mancato di prevedere "la possibilità di più referendum concorrenti"; il contrario sarebbe dimostrato dagli artt. 30, secondo comma (quanto alle richieste parallelamente avanzate da vari Consigli regionali), e 32 della legge medesima (quanto all'eventuale concentrazione dei quesiti). Del resto, l'art. 34 della legge non vieterebbe "un voto plurimo in più domeniche successive", malgrado l'opportunità di svolgere le varie operazioni in un medesimo giorno, anche per non introdurre nelle consultazioni "un elemento di casualità" e per non determinare alcun "effetto preclusivo". Né avrebbero peso gli inconvenienti prospettati dall'Ufficio centrale per il referendum, altro essendo le "difficoltà politiche" inerenti alla contemporanea effettuazione di più consultazioni, altro gli ostacoli di ordine giuridico. Le ordinanze dell'Ufficio centrale trascurerebbero, poi, "che il sistema democratico si fonda sulla fiducia nelle capacità intellettive del popolo", la cui sovranità verrebbe anzi esaltata da una pluralità di quesiti (e non terrebbero conto dell'ovvio "elemento di distinzione", costituito dal diverso colore delle schede). Concretamente, l'ipotesi di una "contemporanea vittoria" di più referendum contrapposti sarebbe dunque "di pura fantasia"; e la correzione di "eventuali anomalie" resterebbe pur sempre affidata al Parlamento. Ciò sarebbe tanto più vero per i due referendum proposti dal "movimento per la vita", in quanto il loro sarebbe un rapporto di "coerenza logica", tale da escludere a priori un "risultato indecifrabile" del voto.

Con riferimento specifico al referendum "minimale", la memoria ne sostiene l'ammissibilità, in quanto esso non chiederebbe "l'abrogazione delle norme che danno rilievo alla salute della madre". Né si opporrebbe la considerazione che il referendum minimale incide sulla tutela della "salute psichica", perchè la legge n. 194 avrebbe operato in questa parte uno "snaturamento del concetto di salute", in vista di una "qualsiasi gravidanza non desiderata". Non a caso, il dispositivo della sentenza n. 27 del 1975 tratterebbe di "salute" in generale; e la salute "fisica" comprenderebbe pur sempre le "affezioni attinenti alla sfera cerebrale".

Conclusivamente, la memoria dà atto che il referendum minimale si riflette sulle stesse circostanze giustificative dell'aborto agli effetti penali. Ma, anche in tal senso, essa afferma che "il potere abrogativo del popolo non può ritenersi meno esteso del potere abrogativo del Parlamento".

d) Quanto infine alla memoria depositata dall'Avvocatura dello Stato, nella parte concernente le tre richieste in esame, essa rileva per un primo verso che le ordinanze dell'Ufficio centrale per il referendum farebbero chiaro riferimento a questa Corte, là dove si ipotizza che venga sollevata questione di legittimità costituzionale relativa alle carenze della legge n. 352 del 1970. Per un altro verso, la memoria aggiunge che, nel valutare l'ammissibilità delle singole richieste, dovrebbero farsi valere i principi già affermati dalla Corte nella sentenza n. 27 del 1975, circa la necessaria tutela sia del concepito sia della salute della madre e circa i "seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire nella gestazione".

4. - Ad integrazione del contraddittorio espressamente previsto dall'art. 33, terzo comma, della legge n. 352 del 1970 - nella camera di consiglio del 14 gennaio 1981 sono stati uditi l'avv. Mauro Mellini, per il comitato promotore del referendum c.d. radicale, gli avv. Francesco Migliori e Marcello Gallo per i comitati promotori dei referendum c.d. massimale e c.d. minimale promossi dal "movimento per la vita", nonché il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio ministri.

Considerato in diritto

1. - I giudizi sull'ammissibilità delle tre richieste referendarie ("radicale", "massimale" e "minimale" descritte in narrativa nonché nel seguito della presente sentenza) vanno riuniti e congiuntamente decisi, malgrado l'Ufficio centrale per il referendum abbia dovuto mantenere distinte le richieste stesse, anziché concentrarle. Oltre ad avere per oggetto l'abrogazione parziale di una medesima fonte legislativa, coinvolgendo in più punti le medesime disposizioni (come quelle contenute negli artt. 4, 5, 8, 12, 13, 14 della legge 22 maggio 1978, n. 194), le tre richieste suscitano infatti una serie di problemi comuni o almeno interferenti: sia relativi al procedimento referendario, in vista di un contemporaneo svolgimento di vari referendum, miranti a realizzare - ma con finalità diverse o addirittura opposte - effetti abrogativi suscettibili di sovrapporsi o sommarsi; sia concernenti i peculiari limiti di ammissibilità, che referendum del genere potrebbero in ipotesi incontrare.

2. - Nel dichiarare legittime le richieste in esame, le rispettive ordinanze dell'Ufficio centrale per il referendum hanno tutte insistito sugli inconvenienti e sui dubbi di legittimità costituzionale, cui darebbe luogo la legge 25 maggio 1970, n. 352, non avendo previsto l'ipotesi concretata dai tre referendum per la parziale abrogazione della legge n. 194: là dove l'antitesi o il divario comunque riscontrabili fra più richieste così concorrenti non consentissero di provvedere alla concentrazione (in base all'art. 32, quarto e sesto comma, della legge n. 352 del 1970), rimarrebbe cioè insoddisfatta l'esigenza di evitare che le consultazioni referendarie determinino esiti incerti o contraddittori o perfino indecifrabili, compromettendo - prima ancora - la stessa libertà di voto dei singoli elettori. Ora, la parte finale delle tre ordinanze, riconosce l'irrilevanza di simili questioni ai fini dei giudizi spettanti all'Ufficio centrale, ma lascia espressamente salva l'eventualità "che norme diverse dall'art. 32 della legge n. 352 del 1970" vengano invece impugnate e sindacate - a questi effetti - da parte di "altri organi competenti": con un riferimento che la memoria dell'Avvocatura dello Stato, pur non sollevando alcuna formale eccezione di legittimità, considera chiaramente rivolto a questa Corte.

Nell'ambito degli attuali giudizi, tuttavia, la Corte è chiamata a valutare la sola ammissibilità delle singole richieste referendarie, come dichiarate legittime da parte dell'Ufficio centrale, in applicazione del solo art. 33, quarto comma, della legge n. 352 del 1970: verificando, cioè, se ognuna di tali richieste non contrasti con le indicazioni dell'art. 75, secondo comma, Cost. o con altri limiti impliciti del referendum abrogativo, già evidenziati dalla sentenza n. 16 del 1978. Non soltanto dalla lettera dell'art. 33, quarto comma ("la Corte costituzionale ... decide con sentenza ... quali tra le richieste siano ammesse e quali respinte ..."), ma anche e soprattutto dalla stessa natura dei giudizi di ammissibilità si desume con chiarezza che - non sarebbe possibile applicare in blocco, costringendo in un'artificiosa unità quesiti referendari autonomi ed inconfondibili, nessuno dei vari criteri di valutazione. In particolar modo, le esigenze di omogeneità, di chiarezza, di non contraddittorietà dei quesiti non avrebbero senso (o assumerebbero significati completamente diversi da quelli che la Corte ha finora tenuto presenti), qualora le richieste non fossero più sindacate una per una, ma venissero prese in esame tutte assieme, in vista della coerenza di questo o di quel risultato complessivo della consultazione. In altre parole, richieste ritenute ammissibili di per se stesse non potrebbero essere respinte dalla Corte per il solo fatto di concorrere tra loro, proponendosi in vario senso od in varia misura l'abrogazione parziale di una medesima legge. Conseguenze del genere sarebbero comunque inaccettabili sul piano costituzionale: sia che si decidesse di respingere tutte le richieste concorrenti, producendo in tal modo un effetto di preclusione reciproca; sia che, viceversa, venissero precluse le sole richieste presentate successivamente alla prima, che diverrebbero dunque inammissibili a causa dell'ammissibilità della richiesta precedente.

Certo, la coesistenza di più referendum aventi per oggetto la medesima legge rischia di determinare inconvenienti, che sono attenuati ma non eliminati dal loro necessario svolgimento nello stesso giorno (da fissare in base all'art. 34, primo comma, della legge n. 352 del 1970). Ma i rimedi si affidano, da un lato, alla maturità degli elettori e, d'altro lato, ai futuri interventi del legislatore. Quanto invece alla Corte, ad essa non compete di incidere sulla vigente disciplina del procedimento referendario, là dove si tratti - come nel caso in questione - di optare fra una serie di riforme astrattamente ipotizzabili, nessuna delle quali si dimostri costituzionalmente obbligata.

3. - Secondo l'ordine di presentazione, va presa anzitutto in esame la richiesta "radicale" (reg. ref. n. 22).

Per questa come anche per le altre richieste concorrenti, il quesito risulterebbe oscuro ed anzi incomprensibile, se l'elettore dovesse apprezzarlo in vista della sola formula dichiarata legittima dall'Ufficio centrale. Ma tali difficoltà di lettura non sono imputabili ai promotori del referendum, bensì discendono dall'art. 27 della legge n. 352 del 1970, quale esso è stato costantemente inteso ed applicato: per cui si è ritenuto che i "termini del quesito" si riducano - nel caso di "abrogazione parziale" - alla sola indicazione numerica degli articoli sottoposti al voto popolare, mentre l'integrale trascrizione del "testo letterale" concerne unicamente le più specifiche "disposizioni di legge" da abrogare, comunque contenute in singoli commi degli articoli stessi. E la Corte deve esprimere, anche a questo proposito, il rammarico che non sia stato dato alcun seguito alle sollecitazioni fatte dalla sentenza n. 16 del 1978, circa "l'introduzione delle necessarie garanzie di semplicità, di univocità, di completezza dei quesiti, presentemente trascurate od ignorate dal legislatore".

Sostanzialmente e complessivamente, tuttavia, la richiesta in questione corrisponde al requisito dell'omogeneità, ponendo agli elettori - secondo la predetta sentenza - "un quesito comune e razionalmente unitario". Le argomentazioni svolte nella memoria del comitato promotore - per cui si tratterebbe di "depenalizzare l'aborto" e, principalmente, di far cadere quello che viene definito il "regime amministrativo monopolistico" caratterizzante la legge n. 194 del 1978 - trovano riscontro nella serie degli effetti abrogativi che obiettivamente la richiesta mira a conseguire. Si chiede, infatti, che il corpo elettorale abroghi le dichiarazioni di principio enunciate dall'art. 1 e coerentemente renda inefficaci l'indicazione delle "circostanze" in presenza delle quali l'art. 4 consente l'interruzione volontaria della gravidanza nei primi novanta giorni, le corrispondenti "procedure" di cui all'art. 5 e le "modalità" di cui all'art. 8; quanto invece al successivo periodo di gravidanza, la richiesta non incide sulle "circostanze" indicate dall'art. 6 (salvo lo specifico riferimento ai processi patologici "relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro"), ma investe anche in tal fase le "procedure" di cui all'art. 7, nonché i richiami agli articoli dei quali si prospetta l'abrogazione, contenuti negli artt. 9 e 10; del pari, vengono coinvolti nel quesito i referti medici imposti dal primo comma dell'art. 11, le "modalità" che gli artt. 12 e 13 prevedono per le minori di diciotto anni e per le donne inferme di mente, le informazioni che il medico è tenuto a fornire alla donna in virtù dell'art. 14, le corrispondenti sanzioni penali disposte dall'art. 19, nonché dal terzo comma dell'art. 22. In definitiva, dunque, attraverso questa somma di effetti abrogativi il referendum "radicale" si propone di sopprimere tutti i procedimenti, gli adempimenti e i controlli di tipo amministrativo (od anche giurisdizionale), che attualmente si riferiscono all'interruzione volontaria della gravidanza, come pure tutte le sanzioni per l'inosservanza delle "modalità configurate dalla legge n. 194".

Precisamente in tal senso, però, l'ammissibilità del referendum "radicale" è stata variamente messa in dubbio, poiché l'abrogazione così progettata risulterebbe costituzionalmente illegittima. Vero è che la legge n. 194 del 1978 rientra fra le leggi ordinarie, non già fra le leggi costituzionali o comunque rinforzate. Per altro, la memoria dell'Avvocatura dello Stato osserva che la Corte dovrebbe verificare la conformità degli effetti abrogativi, derivanti in ipotesi dall'approvazione della richiesta in esame, con i principi affermati dalla Corte stessa, nella sentenza n. 27 del 1975: vale a dire, con il "fondamento costituzionale" spettante alla "tutela del concepito" e con il conseguente obbligo che il legislatore predisponga "le cautele necessarie per impedire che l'aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e la gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire nella gestazione". Sul medesimo piano, ma più recisamente, nel giudizio relativo alla richiesta "minimale" quel comitato promotore nega - per il fine tuzionistico ricordato in narrativa - che da un referendum abrogativo possa validamente derivare la "totale irrilevanza giuridica dell'aborto nei primi tre mesi di gravidanza, ossia l'affermazione completa... della libertà di aborto, con una totale contestazione del diritto alla vita del concepito"; mentre il comitato promotore della richiesta "massimale" insiste a sua volta nell'assunto che la proposta "radicale" produrrebbe, qualora approvata dal corpo elettorale, un "insanabile contrasto" con svariate norme costituzionali (dagli artt. 2 e 31, secondo comma, fino agli artt. 3, secondo comma, 30, primo e secondo comma, 32, primo comma, e 37, primo comma).

Ma una tale impostazione del problema non appare corretta ed è in ogni caso difforme dai criteri che la Corte ha finora seguito nel valutare l'ammissibilità dei referendum abrogativi. Per negare che determinate richieste referendarie siano ammissibili, non rileva che l'approvazione di esse darebbe luogo ad effetti incostituzionali: sia nel senso di determinare vuoti, suscettibili di ripercuotersi sull'operatività di qualche parte della Costituzione; sia nel senso di privare della necessaria garanzia situazioni costituzionalmente protette. Ciò è tanto meno vero in quanto il legislatore ordinario potrebbe intervenire, dettando una disciplina sostanzialmente diversa da quella abrogata, anche prima del prodursi dell'effetto abrogativo (nell'ipotesi che si ritardasse "l'entrata in vigore dell'abrogazione", per il tempo fissato dall'art. 37, terzo comma, della legge n. 352 del 1970).

In realtà, perchè sotto questo profilo sia dato impedire lo svolgimento di un referendum, occorre che il voto popolare coinvolga la Costituzione stessa (ovvero altre fonti normative equiparate, ai sensi dell'art. 75 Cost.), anziché incidere sulle sole disposizioni legislative ordinarie formalmente indicate nel quesito. Più di preciso, occorre che la legge ordinaria da abrogare incorpori determinati principi o disposti costituzionali, riproducendone i contenuti o concretandoli nel solo modo costituzionalmente consentito (anche nel senso di apprestare quel minimo di tutela che determinate situazioni esigano secondo Costituzione); sicché la richiesta di referendum, attraverso la proposta mirante a privare di efficacia quella legge, tenda in effetti ad investire la corrispondente parte della Costituzione stessa. Appunto in questi limitati termini la Corte ha sostenuto - nella sentenza n. 16 del 1978 - l'inammissibilità dei "referendum aventi per oggetto disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato": senza dunque confondere l'ambito dei giudizi sull'ammissibilità delle richieste referendarie con quello dei giudizi sulla legittimità costituzionale delle leggi (come già precisato dalla sentenza n. 251 del 1975 e come riaffermato dalla sentenza n. 24 di quest'anno).

Ora, tutto ciò non si verifica per quelle disposizioni della legge n. 194 del 1978, sulle quali verte la richiesta "radicale".

Nel loro complesso, tali disposizioni sono il frutto di scelte discrezionali del legislatore ordinario: così poco imposte o necessitate dal punto di vista costituzionale, che tanto da parte "radicale" quanto dal "movimento per la vita" ne viene messa in dubbio la legittimità. Nè giova replicare che alcuni fra i disposti stessi darebbero puntuale attuazione al principio del bilanciamento degli interessi costituzionalmente garantiti in tema d'interruzione volontaria della gravidanza (quali dovrebbero desumersi dagli artt. 2, 31 e 32 Cost.), su cui la Corte ha fondato la sentenza n. 27 del 1975: come nel caso dell'art. 1 della legge n. 194, là dove si afferma che "lo Stato .. riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio"; o come anche nel caso dell'art. 4, là dove l'aborto è consentito, ma in vista di un "serio pericolo per la ... salute fisica o psichica" della gestante. Sarebbe infatti arbitrario isolare simili disposti dal contesto normativo in cui si collocano, per trarne un qualche contenuto costituzionalmente vincolato. Quanto all'art. 1, pur senza ridurlo ad un mero "cappello declamatorio" (come vorrebbe la memoria relativa alla richiesta "radicale"), è chiaro che le sue proclamazioni non possono venir considerate per sè sole, senza ricollegarle alle opzioni effettuate dal legislatore nel configurare l'intero complesso delle norme - discrezionalmente stabilite - sull'interruzione volontaria della gravidanza; e lo stesso vale per l'art. 4, che va comunque letto per intero, senza ignorare il rilievo attribuito alla volontà della gestante, nell'ambito delle "procedure" previste dall'art. 5.

Conclusivamente, la richiesta "radicale" non ha per oggetto che una serie di disposizioni contenute in una legge ordinaria, l'eventuale abrogazione delle quali non si ripercuote sul principio costituzionale del bilanciamento degli interessi concorrenti in materia e nemmeno sugli obblighi che ne possano discendere per il legislatore. Su questa base, la Corte deve dunque dichiarare ammissibile la richiesta stessa.

4. - La richiesta "massimale" (reg. ord. n. 23) prospetta a sua volta l'abrogazione della legge n. 194 del 1978, nell'intera parte in cui si disciplina e si consente - a certe condizioni - l'interruzione volontaria della gravidanza.

La proposta abrogativa coinvolge, cioè, le "circostanze" previste dagli artt. 4 e 6, tanto per il primo quanto per il secondo periodo di gravidanza; e parallelamente investe le "procedure" e le "modalità" di cui agli artt. 5, 7 ed 8, l'"obiezione di coscienza" del personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie, come regolata dall'art. 9, i relativi compiti che l'art. 10 assegna alle Regioni ed alle istituzioni sanitarie, i referti medici imposti dall'art. 11, le speciali "modalità" configurate dagli artt. 12 e 13, circa le minori di diciotto anni e circa le donne interdette per infermità di mente, "le informazioni e le indicazioni" di cui all'art. 14, l'aggiornamento dei sanitari e degli ausiliari interessati, nei termini previsti dall'art. 15. In contrapposto alla richiesta "radicale", si tende però ad allargare la sfera dell'illecito, sino a farla coincidere - in sostanza - con quella già determinata dal codice penale del 1930 (anche se viene promossa la soppressione delle particolari ipotesi criminose di cui al terzo, quarto, quinto e settimo comma dell'art. 19, nonché agli interi disposti degli artt. 20 e 21). Mediante l'abrogazione dell'inciso che nel primo comma dell'art. 19 riguarda "l'osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8", si mira infatti ad una integrale ridefinizione di quella figura di reato: la cui fattispecie non sarebbe più rappresentata - una volta intervenuto l'effetto abrogativo - dall'aver omesso di seguire le "modalità" prescritte, bensì dall'avere comunque cagionato l'interruzione volontaria della gravidanza (al pari di ciò che disponeva - pur differenziandosi sul piano terminologico e per la più grave sanzione comminata - il primo comma dell'art. 546 cod. pen.). Così ricostruita, tuttavia, la richiesta corrisponde al requisito dell'omogeneità, in quanto sorretta da un criterio ispiratore fondamentalmente comune (malgrado la prevista abrogazione dell'intero art. 15, sia nella parte concernente le "tecniche ... per l'interruzione della gravidanza", sia nella parte che attiene ad altre forme di aggiornamento professionale). La principale questione di ammissibilità, suscitata dalla richiesta "massimale", riguarda invece la completa abrogazione dell'art. 6: vale a dire la proposta che sia resa inefficace la stessa previsione dell'aborto terapeutico, da praticarsi "quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita", oppure "quando siano accertati processi patologici..., che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna". L'art. 6 della legge n. 194 del 1978 - considerato non già nei suoi dettagli, bensì nel suo contenuto normativo essenziale - ha dato infatti attuazione al primo comma dell'art. 32 Cost. (per cui "la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività"), in tema d'interruzione volontaria della gravidanza: dettando una disciplina che fondamentalmente si adegua, per ciò che riguarda la tutela del diritto alla salute della gestante, a quella risultante dal dispositivo della sentenza n. 27 del 1975 (dove si "dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 546 del codice penale, nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venir interrotta quando l'ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre". Per contro, la richiesta "massimale" tende non solo a sopprimere l'art. 6, ma anche a restaurare - come già si è notato, trattando dell'art. 19, primo comma - una disciplina penale il cui precetto appare identico a quello annullato dalla predetta decisione della Corte.

Nelle deduzioni svolte per il comitato promotore della richiesta in esame, si risponde che gli assunti della sentenza n. 27 del 1975 dovrebbero essere rimeditati dalla Corte; e che, in ogni caso, l'abrogazione dell'art. 6 della legge n. 194 del 1978 potrebbe trovare rimedio attraverso una larga applicazione della scriminante dello stato di necessità, prevista dall'art. 54 cod. pen., Sennonché il richiamo dell'art. 54 non è risolutivo. L'argomento è stato infatti esaminato e respinto dalla sentenza n. 27 del 1975, là dove la Corte ha chiarito che "la condizione della donna gestante è del tutto particolare e non trova adeguata tutela in una norma di carattere generale come l'art. 54 c.p. che esige non soltanto la gravità e l'assoluta inevitabilità del danno o del pericolo, ma anche la sua attualità, mentre il danno o pericolo conseguente al protrarsi di una gravidanza può essere previsto, ma non è sempre immediato"; ed ha aggiunto che "la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare" non può farsi prevalere né sul diritto alla vita né sul diritto alla salute "proprio di chi è già persona, come la madre". Con questo fondamento, sé allora affermata la necessità di introdurre una scriminante specifica; e si è ritenuto che dall'art. 32 della Costituzione derivasse in tal senso un obbligo così stringente, da rendere indispensabile una decisione di accoglimento che ha modificato il precetto di una norma penale. Ora, la Corte è dell'avviso che quella necessità sussista, anche agli effetti del presente giudizio: con la conseguenza che l'art. 6 della legge n. 194, in quanto tutela non soltanto la vita ma anche la salute, non può esser ricondotto ad una scelta discrezionale del legislatore ordinario, ma rappresenta nel suo contenuto essenziale una norma costituzionalmente imposta dall'art. 32.

Di qui si ricava che l'intera richiesta "massimale" va dichiarata inammissibile; mentre rimane assorbita l'ulteriore questione di ammissibilità, che potrebbe porsi in relazione all'art. 19, primo comma, per l'effetto creativo di una fattispecie penale affatto nuova che la richiesta tenderebbe in sostanza a produrre, sotto specie di abrogazione parziale di una vigente figura di reato.

5. - Quanto alla richiesta "minimale" (reg. ref. n. 24), il quesito che essa prospetta agli elettori può essere così sintetizzato: volete che sia abrogata ogni circostanza giustificativa ed ogni modalità dell'interruzione volontaria della gravidanza, quali sono previste dalla legge n. 194 del 1978, fatta eccezione per l'aborto terapeutico?

Al pari della richiesta "massimale", qui pure si propone di abrogare le "circostanze" configurate dall'art. 4 e le "procedure" prescritte dall'art. 5, relativamente ai primi novanta giorni di gravidanza (nonché l'intero testo degli artt. 8, 12, 13, 14 e 15). Viceversa, non vengono investite le disposizioni dell'art. 6 (né le connesse "procedure" o "modalità" prescritte dall'art. 7), salvo l'inciso riguardante le "rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro", nonché il riferimento alla salute "psichica" della gestante; ed anzi si prevede che tali disposizioni riguardino l'intero periodo di gravidanza, per effetto dell'abrogazione delle parole "dopo i primi novanta giorni". Il conseguente problema delle relative sanzioni penali, oggi risolto per mezzo di statuizioni diverse, in vista del primo o del secondo periodo di gestazione, viene infine, affrontato attraverso una parziale abrogazione dell'art. 19, primo comma (cui si aggiunge l'abrogazione totale del terzo, quarto, quinto e settimo comma); senza però configurare un nuovo tipo di reato, ma sostanzialmente mantenendo la fattispecie incriminatrice del terzo e quarto comma, attraverso la soppressione del richiamo degli artt. 5 ed 8, operato nel primo comma. In questi termini, dunque, anche la richiesta "minimale" si risolve in un quesito sufficientemente omogeneo.

D'altra parte non regge la tesi che il referendum in esame tenda ad abrogare disposizioni legislative ordinarie aventi un contenuto costituzionalmente vincolato (alla stregua della sentenza n. 27 del 1975). In particolar modo, tale non è il caso di quel passo dell'art. 6, lettera b), in cui si menzionano e si tutelano distintamente salute "fisica" e salute "psichica" della gestante. Non rileva in contrario che la sentenza n. 27, del 1975 abbia ritenuto fondata una questione di legittimità costituzionale, posta da un'ordinanza che impugnava l'art. 546 cod. pen., in quanto rivolto a punire l'aborto di donna consenziente anche quando venisse "accertata la pericolosità della gravidanza": con distinto riferimento al "benessere fisico" ed all'"equilibrio psichico" della donna stessa. Già in quella sede, a proposito dei "seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo", il fattore dell'"equilibrio psichico" non è stato preso in specifica e separata considerazione dalla Corte; tanto è vero che il dispositivo della ricordata decisione fa perno sulla "salute della madre", complessivamente intesa.

Da questo stesso angolo visuale va considerata la richiesta "minimale": che appare pertanto ammissibile, anche nella parte in cui propone che si abroghino le parole "o psichica", contenute nella lettera b) dell'art. 6. Sul piano costituzionale rimane fermo, però, che la salute della gestante dev'essere compiutamente garantita dai gravi pericoli che ogni effettiva malattia, di qualsiasi natura, possa produrre nel corso dell'ulteriore gestazione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara ammissibili:

a) la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione parziale della legge 22 maggio 1978, n. 194, iscritta al n. 22 reg. ref., nei termini indicati in epigrafe, dichiarata legittima con ordinanza del 15 dicembre 1980 dell'Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione;

b) la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione parziale della legge 22 maggio 1978, n. 194, iscritta al n. 24 reg. ref., nei termini indicati in epigrafe, dichiarata legittima con ordinanza del 15 dicembre 1980 dell'Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione;

2) dichiara inammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione parziale della legge 22 maggio 1978, n. 194, iscritta al n.23 reg. ref., nei termini indicati in epigrafe, dichiarata legittima con ordinanza del 15 dicembre 1980 dell'Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 1981.

Leonetto AMADEI – Giulio  GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI.

Giovanni VITALE – Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 10 febbraio 1981.