Sentenza n. 217 del 2010

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SENTENZA N. 217

ANNO 2010

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-          Francesco                     AMIRANTE                                      Presidente

-          Ugo                              DE SIERVO                                        Giudice

-          Paolo                            MADDALENA                                         "

-          Alfio                             FINOCCHIARO                                       "

-          Alfonso                         QUARANTA                                            "

-          Franco                          GALLO                                                     "

-          Luigi                             MAZZELLA                                              "

-          Gaetano                        SILVESTRI                                               "

-          Sabino                          CASSESE                                                 "

-          Maria Rita                    SAULLE                                                   "

-          Giuseppe                      TESAURO                                                "

-          Paolo Maria                  NAPOLITANO                                        "

-          Giuseppe                      FRIGO                                                      "

-          Alessandro                   CRISCUOLO                                           "

-          Paolo                            GROSSI                                                    "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre1991, n. 413), promosso dalla Commissione tributaria regionale della Campania, nel procedimento cautelare vertente tra Giovanni Mario Annunziata e l’Agenzia delle entrate, ufficio di Nola, con ordinanza pronunciata il 13 ottobre 2008, iscritta al n. 322 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto  l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 maggio 2010 il Giudice relatore Franco Gallo.

Ritenuto in fatto

1. – Nel corso di un procedimento instaurato a séguito dell’istanza proposta da un contribuente per ottenere, in via cautelare, la sospensione dell’esecuzione di una sentenza tributaria di secondo grado, la Commissione tributaria regionale della Campania, con ordinanza pronunciata il 13 ottobre 2008, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 23, 24, 111 e 113 della Costituzione, nonché, quale norma interposta all’art. 10 Cost., in riferimento all’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata ed eseguita con legge 4 agosto 1955, n. 848 – questione di legittimità dell’art. 49, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre1991, n. 413), il quale stabilisce che «Alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto».

2. – La Commissione tributaria rimettente premette, in punto di fatto, che: a) con propria sentenza n. 417/07/2004, emessa in grado di appello e depositata il 27 aprile 2005, aveva rigettato – in riforma della sentenza di primo grado ed in accoglimento del gravame proposto dall’Agenzia delle entrate – il ricorso proposto da un contribuente avverso l’avviso di accertamento, ai fini dell’IRPEF, dei redditi derivanti dalla sua partecipazione ad una società di persone nell’anno 1993; b) il contribuente aveva successivamente presentato ricorso per cassazione («depositato il 20 giugno 2007») avverso la predetta sentenza di appello, deducendo che solo nel 2007 aveva avuto notizia, in occasione della ricezione della notificazione di una cartella di pagamento, dell’esistenza della citata sentenza di appello (e, quindi, del correlativo giudizio) riguardante il sopra menzionato avviso di accertamento; c) il ricorso per cassazione, in particolare, era basato sull’assunto che nel secondo grado di giudizio era stato violato il contraddittorio, perché la notifica dell’atto di appello, avvenuta a mezzo posta con la consegna del plico al portiere dell’appellato, non era stata seguita dall’invio di altra lettera raccomandata per informare il destinatario dell’avvenuta notificazione e l’appellato contribuente, pertanto, non aveva avuto notizia del proposto gravame; d) nelle more del giudizio di cassazione, il medesimo contribuente aveva presentato alla Commissione tributaria regionale un’istanza di sospensione, in via cautelare, dell’esecuzione dell’impugnata sentenza di secondo grado, invocando l’applicazione dell’art. 373 cod. proc. civ. e degli artt. 47, 49 e 61 del d.lgs. n. 546 del 1992 e deducendo che dall’esecuzione della sentenza poteva derivargli grave ed irreparabile danno, a séguito sia della notificazione nei suoi confronti della menzionata cartella di pagamento, basata sull’avviso di accertamento di cui alla sentenza di appello, sia della comunicazione (con nota del 25 luglio 2008) dell’eseguita iscrizione ipotecaria immobiliare effettuata – ai sensi dell’art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) – a garanzia, ad un tempo, del credito tributario risultante dalla suddetta sentenza di appello (pari ad € 210.988,62), nonché di un ulteriore credito, per altro titolo (pari ad altri € 342.951,48).

3. – Il giudice rimettente premette altresí, in punto di diritto, che: a) il denunciato comma 1 dell’art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 esclude espressamente l’applicabilità al processo tributario dell’art. 337 cod. proc. civ. e quindi, secondo «la giurisprudenza assolutamente prevalente», esclude l’applicabilità anche delle disposizioni menzionate da tale articolo, tra le quali è compreso l’art. 373 cod. proc. civ., il quale prevede, al secondo periodo del primo comma, che «il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata può, su istanza di parte e qualora dall’esecuzione possa derivare grave ed irreparabile danno, disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa o che sia prestata congrua cauzione»; b) l’interpretazione della disposizione censurata fornita da tale giurisprudenza, secondo cui l’art. 373 cod. proc. civ. non è applicabile al processo tributario, costituisce «fedele applicazione delle regole ermeneutiche»; c) nella specie, «il rischio di danno irreparabile (in presenza di una sentenza annullatoria dell’accertamento in primo grado) nasce per la prima volta dalla sentenza di appello che ha “ribaltata” la prima sentenza, sicché sulla domanda di cautela (che non poteva che essere formulata dopo la sentenza di appello) mai vi è stata la pronuncia di giudice (né mai in precedenza avrebbe potuto esservi)».

4. − Tanto premesso, il giudice a quo afferma che la disposizione denunciata víola: a) il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., perché nel caso in cui – come nella specie – la pronuncia di appello abbia riformato la sentenza di primo grado favorevole al contribuente, irragionevolmente esclude la tutela cautelare «a fronte di atti impositivi esecutivi per la prima volta emessi in esecuzione di una sentenza di secondo grado» e, pertanto, consente il «sacrificio inevitabile ed irreparabile» dei diritti del contribuente, nonostante che il sistema processuale sia stato «creato a garanzia di diritti soggettivi tributari (a versare il giusto tributo)» e che la giurisprudenza della Corte di giustizia CE tenda ad «ampliare la sfera della tutela cautelare e ad affermare l’esigenza della effettiva e sostanziale tutela dei diritti derivanti dalla normativa comunitaria» (sentenze: Factorame del 19 giugno 1990, in causa C-231/89; Zuckerfabrik del 21 febbraio 1991, in cause C-143/88 e C-92/88; Atlanta del 9 novembre 1989, in causa C-465/92; Kofisa Italia dell’11 gennaio 2001, in causa C-1/99); b) gli artt. 23 e 24 Cost., perché consente «l’assoggettamento ad esecuzione forzata […] senza che in base alla legge il debitore possa adire un giudice in sede cautelare», pur essendo la disponibilità di misure cautelari componente essenziale della tutela giurisdizionale garantita dall’art. 24 Cost. (come sottolineato da numerose pronunce della Corte costituzionale); c) l’art. 113 Cost., perché, escludendo «aprioristicamente» un rimedio cautelare avverso l’esecuzione di una sentenza di secondo grado che abbia riformato la sentenza di primo grado favorevole al contribuente, per ciò stesso esclude anche che la tutela giurisdizionale dei diritti ed interessi legittimi sia «sempre» ammessa, come invece richiesto dall’evocato parametro costituzionale; d) gli artt. 111 Cost. e 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali adottata a Roma il 4 novembre 1950, «in relazione all’art. 10 Cost.», perché «il ritardo di giustizia non può tradursi, nelle more della sentenza della Corte di cassazione» sulla sentenza di appello impugnata, «in perdita irreversibile del patrimonio del contribuente che, in ipotesi, risulterà avere ragione».

Il rimettente osserva, infine, che alla prospettata dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione denunciata non ostano i precedenti giurisprudenziali della Corte costituzionale concernenti l’art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 (sentenza n. 165 del 2000; ordinanze n. 217 del 2000, n. 325 del 2001 e n. 119 del 2007).

In particolare, con la sentenza n. 165 del 2000 la Corte costituzionale ha affermato che la previsione di mezzi di tutela cautelare nelle fasi di giudizio successive alla pronuncia di merito sulla domanda, in favore della parte soccombente nel merito, deve ritenersi rimessa alla discrezionalità del legislatore. Tuttavia – osserva il giudice a quo – tale pronuncia riguarda la «tutela ordinaria» del contribuente in sede cautelare e non quella «eccezionale», la cui esigenza sorga cioè, come nel caso di specie, solo a séguito della sentenza di appello che, riformando la sentenza di primo grado, abbia rigettato il ricorso del contribuente avverso un atto impositivo.

Con le ordinanze n. 217 del 2000 e n. 325 del 2001, la medesima Corte ha rilevato, poi, che gli art. 3 e 24 Cost. non impongono né il doppio grado cautelare né l’uniformità tra i vari tipi di processo, con la conseguenza che la previsione di cui all’art. 373 cod. proc. civ. può ben restare confinata nel processo civile. Tuttavia – osserva ancora il rimettente – nella presente questione non si invocano né «un parallelismo […] di tutela cautelare tra processo tributario e processo civile o anche processo amministrativo», «né il doppio grado cautelare», ma si richiama solo la necessità di garantire nel processo tributario una tutela cautelare, in unico grado, quando per la prima volta, a séguito della pronuncia di appello, «ne sorgano i presupposti e l’esigenza».

Con l’ordinanza n. 119 del 2007, infine, la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione sottopostale in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., sia perché nel giudizio a quo l’istanza di sospensione era stata reiterata dopo il suo rigetto, in limine dell’appello; sia perché «l’oggetto del provvedimento di sospensione non potrebbe mai essere la sentenza che ha respinto l’impugnazione, bensí semmai il provvedimento impositivo la cui impugnazione è stata rigettata in primo grado». Tuttavia – argomenta il medesimo rimettente – la sentenza di primo grado, nel caso in esame, non è stata sfavorevole al contribuente e, pertanto, a differenza dell’ipotesi esaminata dalla citata ordinanza n. 119 del 2007, l’istanza di sospensione non è stata né proposta né rigettata in sede di appello, ma è stata proposta solo dopo la sentenza di secondo grado, con riferimento proprio al «“provvedimento impositivo”, ossia» alla «iscrizione a ruolo effettuata dall’Agenzia (da cui, a sua volta, deriva la iscrizione ipotecaria effettuata dall’agente della riscossione) in quanto è tale iscrizione (e la sua attuazione mediante ipoteca e consequenziale espropriazione forzata) a costituire il sopravvenuto pericolo di danno grave ed irreparabile».

5. − In ordine alla rilevanza della sollevata questione, il rimettente afferma che «sussisterebbero nella specie i presupposti per l’accoglimento dell’istanza di sospensione sia dell’efficacia dell’impugnata sentenza di secondo grado, sia dell’efficacia della iscrizione a ruolo e dell’iscrizione di ipoteca emessi, in via consequenziale e derivata ex art. 68, comma 1, lett. c), d.lgs. nr. 546/1992». Ad avviso del giudice a quo sussisterebbero, infatti, i presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora: a) quanto al primo, perché, in base ad una «delibazione sommaria incidenter tantum e limitatamente ai […] fini cautelari», il ricorso per cassazione proposto dal contribuente è fondato, posto che «il mancato invio della raccomandata di conferma» della notificazione effettuata «tramite agente postale con consegna […] al portiere» appare «in contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 139, comma 4, c.p.c. e 16, comma 2, e 61 d.lgs. nr. 546/1992 […], 60, comma 1, D.P.R. nr. 600/1973», soprattutto in considerazione del fatto che «l’art. 37, comma 27, lett.a) d.l. nr. 223/2006, conv. con modifiche in legge nr. 248/2006 ha chiarito che le notifiche a mezzo di messi di atti o avvisi di accertamento, se effettuata a mani di accipiens diverso dal destinatario, deve essere seguita dalla c.d. seconda raccomandata» e che «siffatta esigenza di una seconda raccomandata appare ancora piú pregnante, in caso di notifica a mezzo posta, quando si tratti di notifica di atti di appello»; b) quanto all’altro presupposto, perché è evidente il pericolo del grave ed irreparabile danno «che deriverebbe al contribuente dalla vendita forzata dei 18 immobili ipotecati […] e dalla consequenziale irrecuperabilità di quei beni, una volta coattivamente alienati», a fronte dell’adeguata salvaguardia dell’interesse dell’amministrazione finanziaria tramite la «garanzia reale» operante anche nel periodo di eventuale sospensione dell’efficacia della sentenza di secondo grado e della consequenziale iscrizione ipotecaria, fino alla decisione della Corte di cassazione. In proposito, il rimettente aggiunge che l’autonoma impugnabilità del provvedimento di iscrizione ipotecaria – prevista dal comma 1, lettera e-bis), dell’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 – non fa venir meno la rilevanza della questione, perché tale impugnazione può essere proposta solo per i vizi propri dell’iscrizione, senza che il giudice possa sindacare «il presupposto di essa (nella fattispecie, la sentenza di secondo grado […] impugnata con ricorso per cassazione)».

6. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

La difesa dello Stato osserva che la Corte costituzionale si è costantemente pronunciata nel senso della legittimità costituzionale del denunciato art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 (ordinanze n. 119 e n. 4 del 2007; n. 325 del 2001; n. 310, n. 217 e n. 165 del 2000) e «ritiene che tale orientamento debba essere confermato anche nel presente caso», senza che il giudice possa sindacare «il presupposto di essa (nella fattispecie, la sentenza di secondo grado […] impugnata con ricorso per cassazione)». Deduce, al riguardo, che la suddetta disposizione non si pone in contrasto con alcuno dei parametri costituzionali evocati dal rimettente: a) non con l’art. 3 Cost. – sotto l’aspetto della parità di trattamento rispetto ad altri sistemi processuali e della ragionevolezza –, perché non sussiste alcun principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità tra i vari tipi di processo (vengono citate le sentenze n. 18 del 2000 e n. 82 del 1996; nonché l’ordinanza n. 325 del 2001) e perché la spiccata specificità del processo tributario, nel quale occorre ricercare il contemperamento tra la preminente esigenza pubblica di assicurare il flusso delle entrate tributarie e le pretese del contribuente, rende non irragionevole l’attribuzione di una minore ampiezza di poteri cautelari all’organo giudicante tributario, rispetto a quella dei giudici civili od amministrativi; b) non con l’art. 23 Cost., perché la pretesa dell’amministrazione tributaria trova il suo fondamento proprio nella legge; c) non con l’art. 24 Cost., perché, come sottolineato dalla giurisprudenza costituzionale, «la garanzia costituzionale della tutela cautelare» deve ritenersi «imposta solo fino al momento in cui non intervenga, nel processo, una pronuncia di merito che accolga – con efficacia esecutiva – la domanda […] ovvero la respinga» (sentenze n. 217 e n. 165 del 2000; ordinanza n. 325 del 2001) e perché a nulla rileva «che, nel caso di specie, non sia stata possibile, per l’andamento del processo, una doppia tutela cautelare avendo avuto il contribuente ragione nel primo grado e torto nel secondo»; d) non «con l’art. 111 Cost.», perché tale parametro è stato erroneamente evocato – in luogo dell’art. 117, primo comma, Cost. – con riferimento all’obbligo internazionale derivante dall’art. 6 della Convenzione dei diritti dell’uomo (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007); e) non con l’art. 113 Cost., «atteso che il diritto azionato dalla parte pubblica, che si vuole paralizzare, è attualmente all’esame della Corte di cassazione». L’Avvocatura generale dello Stato sottolinea infine, sotto il profilo della rilevanza, che l’iscrizione ipotecaria immobiliare effettuata con riferimento alla sentenza di appello impugnata per cassazione costituisce un atto autonomamente impugnabile e, pertanto, può essere sospesa in via cautelare, ove da essa possa derivare un danno grave ed irreparabile.

Considerato in diritto

1. – La Commissione tributaria regionale della Campania dubita – in riferimento agli artt. 3, 23, 24, 111 e 113 della Costituzione, nonché, quale norma interposta all’art. 10 Cost., in riferimento all’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata ed eseguita con legge 4 agosto 1955, n. 848 – della legittimità dell’art. 49, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), il quale stabilisce che «Alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto».

La suddetta Commissione tributaria afferma che la norma denunciata víola gli evocati parametri costituzionali, «nella parte in cui non prevede, in unico grado, la possibilità di sospensione della sentenza di appello tributaria, impugnata con ricorso per cassazione, allorquando ivi sopravvenga, per la prima volta, il pericolo di un “grave ed irreparabile danno”, con carattere di irreversibilità e non altrimenti evitabile». In particolare, secondo la medesima Commissione, la disposizione censurata si pone in contrasto con: a) il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., perché, nel caso in cui la pronuncia di appello abbia riformato la sentenza di primo grado favorevole al contribuente, irragionevolmente esclude la tutela cautelare «a fronte di atti impositivi esecutivi per la prima volta emessi in esecuzione di una sentenza di secondo grado» sfavorevole all’appellato e, pertanto, consente il «sacrificio inevitabile ed irreparabile» dei diritti del contribuente; b) gli artt. 23 e 24 Cost., perché prevede l’assoggettamento ad esecuzione forzata […] senza che in base alla legge il debitore possa adire un giudice in sede cautelare», pur essendo la disponibilità di misure cautelari componente essenziale della tutela giurisdizionale garantita dall’art. 24 Cost.; c) gli artt. 111 Cost. e 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata ed eseguita con legge 4 agosto 1955, n. 848), «in relazione all’art. 10 Cost.», perché «il ritardo di giustizia non può tradursi, nelle more della sentenza della Corte di cassazione» avente ad oggetto la sentenza di appello impugnata, «in perdita irreversibile del patrimonio del contribuente che, in ipotesi, risulterà avere ragione»; d) l’art. 113 Cost., perché «aprioristicamente impedisce un rimedio cautelare avverso l’attuazione di una pretesa tributaria, fondata su una sentenza di secondo grado, che abbia “ribaltato” in appello, una sentenza di primo grado pienamente favorevole al contribuente» e, pertanto, si pone in contrasto con il precetto costituzionale secondo cui la tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi legittimi è «sempre» ammessa.

2. – La questione è inammissibile per tre distinti motivi.

2.1. – Il primo motivo di inammissibilità discende dal fatto che il rimettente, nonostante la mancanza di un diritto vivente sul punto, non ha esperito alcun tentativo di interpretare la disposizione censurata nel senso che essa consenta l’applicazione al processo tributario della sospensione cautelare prevista dall’art. 373 cod. proc. civ., con conseguente insussistenza del prospettato contrasto con gli evocati parametri costituzionali.

Il giudice a quo muove da due premesse interpretative: una, esplicita, per la quale la denunciata disposizione vieta espressamente l’applicazione, nel processo tributario, della sospensione cautelare di cui al citato art. 373 cod. proc. civ.; l’altra, implicita, per la quale, ove si potesse prescindere dal denunciato comma 1 dell’art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992, la menzionata sospensione cautelare sarebbe pienamente compatibile con la complessiva disciplina del processo tributario.

La prima di tale premesse, tuttavia, non è argomentata in alcun modo dal giudice rimettente, il quale, al riguardo, si limita a richiamare genericamente la «giurisprudenza assolutamente prevalente» e ad affermare, altrettanto genericamente, che tale interpretazione della disposizione censurata deriverebbe, secondo una «fedele applicazione delle regole ermeneutiche», dal divieto di estendere al processo tributario l’art. 337 cod. proc. civ., il quale richiama, appunto, l’art. 373 dello stesso codice. Il rimettente, pertanto, omette di valutare se la disposizione denunciata sia interpretabile diversamente. Non tiene conto, infatti, che: a) non v’è, in proposito, alcuna pronuncia della Corte di cassazione, ma solo contrastanti orientamenti della giurisprudenza di merito, che non assurgono a diritto vivente; b) il contenuto normativo dell’art. 337 cod. proc. civ. (inapplicabile al processo tributario, per l’espresso disposto della norma censurata) è costituito da una regola («L’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione di essa») e da una eccezione alla stessa regola («salve le disposizioni degli artt. […] 373 […]»); c) l’art. 373 consta anch’esso, al primo comma, di una regola (primo periodo: «Il ricorso per cassazione non sospende l’esecuzione della sentenza») e di una eccezione (secondo periodo: «Tuttavia il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata può, su istanza di parte e qualora dall’esecuzione possa derivare grave ed irreparabile danno, disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa o che sia prestata congrua cauzione»); d) l’inapplicabilità al processo tributario – in forza della disposizione censurata – della regola, sostanzialmente identica, contenuta nell’art. 337 cod. proc. civ. e nel primo periodo del primo comma dell’art. 373 dello stesso codice, non comporta necessariamente l’inapplicabilità al processo tributario anche delle sopraindicate “eccezioni” alla regola e, quindi, non esclude di per sé la sospendibilità ope iudicis dell’esecuzione della sentenza di appello impugnata per cassazione.

Da tale possibile interpretazione, alternativa a quella immotivatamente adottata dal rimettente, conseguirebbe che il comma 1 dell’art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 non costituisce ostacolo normativo ad applicare al processo tributario l’inibitoria cautelare di cui all’art. 373 cod. proc. civ. e che, pertanto – nella stessa prospettiva del giudice a quo, il quale ritiene l’art. 373 cod. proc. civ. astrattamente compatibile con il processo tributario –, la sollevata questione sarebbe irrilevante. Il mancato tentativo di una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione denunciata si risolve, dunque, nella carenza di motivazione sulla rilevanza della questione e nella conseguente inammissibilità della questione medesima.

2.2. – Il secondo motivo di inammissibilità discende dal fatto che, contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, nella specie non sussiste il requisito del fumus boni iuris dell’istanza cautelare.

In proposito, il giudice a quo osserva che il ricorso per cassazione proposto dal contribuente avverso la sentenza tributaria di secondo grado sarebbe fondato (sia pure in base ad una sommaria delibazione), perché il contraddittorio nel giudizio di appello sarebbe stato violato per effetto dell’illegittimità della notificazione dell’atto di appello, effettuata «tramite agente postale con consegna […] al portiere» e non seguita dall’«invio della raccomandata di conferma» della notificazione stessa, previsto dalla legge.

Tuttavia il giudice rimettente non considera che la notificazione di atti a mezzo del servizio postale, ivi compresi gli atti di appello nel processo tributario, è regolata dall’art. 7 della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari). In relazione alle diverse formulazioni di tale articolo, derivanti dalle sue modificazioni legislative, occorre distinguere, per il caso di consegna del piego postale al portiere dello stabile del destinatario, tra le notificazioni effettuate anteriormente al 1° marzo 2008 e quelle effettuate a partire da tale data, cioè dalla data di entrata in vigore del comma 2-quater dell’art. 36 del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31 (che ha introdotto il comma 8 del citato art. 7 della legge n. 890 del 1982). Nella prima ipotesi (cioè per il periodo anteriore al 1° marzo 2008), la notificazione si perfeziona con la consegna del piego al portiere; nell’altra ipotesi, invece, la legge prevede, dopo la consegna del piego al portiere, anche l’invio al destinatario, da parte dell’agente postale, di una lettera raccomandata contenente la «notizia […] dell’avvenuta notificazione». In relazione al caso in esame, che concerne – come sopra visto – la consegna al portiere del piego contenente l’atto di appello, la suddetta modificazione dell’art. 7 della legge n. 890 del 1982 non ha effetti retroattivi, come espressamente stabilito dal primo periodo del comma 2-quinquies dell’art. 36 del citato decreto-legge n. 248 del 2007 e come riconosciuto anche dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione civile, sentenza n. 23589 del 2008). Nella specie, l’atto di appello è stato notificato sicuramente prima del 1° marzo 2008, perché la correlativa sentenza di appello risulta pronunciata nel 2004 e depositata nel 2005. Ne deriva che alla notificazione a mezzo posta di tale atto di appello era applicabile ratione temporis la formulazione originaria dell’art. 7 della legge n. 890 del 1982, secondo la quale l’agente postale, dopo la consegna del piego al portiere, non doveva inviare al destinatario alcuna lettera raccomandata. Di qui l’infondatezza dell’istanza cautelare e, per l’effetto, l’inammissibilità, per irrilevanza, della sollevata questione.

2.3 – Il terzo motivo di inammissibilità discende dal fatto che, diversamente da quanto ulteriormente affermato dal rimettente, nella specie non v’è neppure la prova del requisito del periculum in mora.

Al riguardo, il rimettente afferma che tale istanza soddisfa il suddetto requisito, perché: a) è stata notificata al contribuente una cartella di pagamento comprensiva del debito tributario risultante dalla sentenza di appello impugnata per cassazione; b) è stata comunicata allo stesso contribuente l’avvenuta iscrizione ipotecaria effettuata a garanzia del soddisfacimento, ad un tempo, sia del debito tributario risultante dalla medesima sentenza di appello, sia di un ulteriore debito, per altro titolo, di importo di poco superiore; c) la cartella e l’iscrizione ipotecaria possono essere impugnate (ed eventualmente sospese in via cautelare) solo in relazione a vizi propri di tali atti e non in relazione all’invalidità dell’avviso di accertamento da essi presupposto ed oggetto della statuizione contenuta nella sentenza di appello impugnata per cassazione.

Va tuttavia rilevato che tali affermazioni del rimettente non investono la caratteristica propria ed essenziale del periculum in mora di cui all’art. 373 cod. proc. civ., cioè la sussistenza di un «danno grave ed irreparabile» derivante dall’esecuzione della sentenza impugnata per cassazione. Il rimettente, infatti, non fornisce alcuna motivazione in ordine né alla situazione economica del debitore, né alla possibilità per quest’ultimo di evitare, nelle more, l’esecuzione forzata immobiliare, né agli effetti lesivi irreversibili ed inadeguatamente ristorabili di tale esecuzione. Siffatta motivazione sarebbe stata necessaria anche in considerazione del consolidato orientamento giurisprudenziale (tale da costituire “diritto vivente”), secondo il quale, l’«irreparabilità del danno» di cui all’art. 373 cod. proc. civ. va intesa, quantomeno, nel senso di un intollerabile scarto tra il pregiudizio derivante dall’esecuzione della sentenza nelle more del giudizio di cassazione e le concrete possibilità di risarcimento in caso di accoglimento del ricorso per cassazione. Ne consegue l’omessa motivazione circa la sussistenza del periculum in mora e l’ulteriore profilo di inammissibilità della sollevata questione, per difetto di motivazione sulla rilevanza.

3. – La riscontrata inammissibilità della questione impedisce, ovviamente, l’esame del merito e, in particolare, non consente di valutare la richiesta del rimettente di procedere ad un riesame della giurisprudenza di questa Corte relativa all’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, in tema di tutela cautelare nel processo tributario.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre1991, n. 413), sollevata dalla Commissione tributaria regionale della Campania con l’ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento agli artt. 3, 23, 24, 111 e 113 della Costituzione, nonché, quale norma interposta all’art. 10 Cost., in riferimento all’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata ed eseguita con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 giugno 2010.