Sentenza n. 188 del 1996

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SENTENZA N. 188

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 280, 287 e 381, comma 1, numero 1 e comma 2, lettera c) e g) del codice di procedura penale e dell'art. 207 disp. att. codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 24 aprile 1995 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma, il 2 agosto 1995, il 17 e il 24 luglio 1995 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova, rispettivamente iscritte ai nn. 431, 695, 733 e 789 del registro ordinanze 1995 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 30, 44, 46 e 48, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Udito nella camera di consiglio del 17 aprile 1996 il

Giudice relatore Valerio Onida.

Ritenuto in fatto

1.-- Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma, al quale veniva chiesta, in sede di giudizio di convalida di arresto in flagranza per diversi reati, l'adozione di una misura cautelare coercitiva a carico di un militare in relazione al delitto di insubordinazione con violenza, rilevato che la pena edittale massima prevista per quel delitto è inferiore al limite generale -- reclusione superiore nel massimo a tre anni -- fissato dall'art. 280 del codice di procedura penale per l'applicazione di misure cautelari coercitive, e che l'insubordinazione con violenza non è compresa nell'elenco dei reati per i quali, ai sensi dell'art. 381, comma 2, cod. proc. pen., può comunque procedersi all'arresto facoltativo in flagranza, con la conseguenza che la misura cautelare non avrebbe potuto essere adottata nemmeno ai sensi dell'art. 391, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen., ha sollevato d'ufficio, con ordinanza del 24 aprile 1995, pervenuta a questa Corte il 21 giugno 1995 (R.O. n. 431 del 1995), questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, del medesimo art. 381, comma 2, lettera c), cod. proc. pen., in relazione all'art. 207 disp. att. del cod. proc. pen., nella parte in cui, mentre consentono l'arresto in flagranza per il reato di violenza o minaccia a pubblico ufficiale (art. 336, secondo comma, cod. pen.), non lo consentono per il reato di insubordinazione con violenza previsto dall'art. 186, primo comma, del codice penale militare di pace.

Premette il giudice remittente che, a seguito della sentenza n. 503 del 1989 di questa Corte, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 308, primo comma, cod. pen. mil. di pace, a determinare i casi in cui si può procedere ad arresto in flagranza non possono che essere le disposizioni del diritto processuale ordinario: ma, al di sotto del limite di pena fissato in via generale dall'art. 381, comma 1, cod. proc. pen., l'arresto è consentito solo in relazione ai reati comuni elencati nel comma 2 dello stesso art. 381, mentre non lo è in relazione a reati militari che hanno identici elementi costitutivi dei reati comuni elencati.

La differenza di trattamento fra reati comuni e reati militari sarebbe, secondo il remittente, priva di fondamento razionale. In particolare, sarebbe palese l'irragionevolezza della discriminazione tra il reato comune di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale e quello militare di insubordinazione con violenza. Infatti i reati militari di insubordinazione con violenza e di abuso di autorità, previsti dal codice penale militare, sarebbero in rapporto di specialità rispetto alla normativa comune concernente i delitti dei privati contro pubblici ufficiali, onde apparirebbe del tutto irrazionale che soltanto per i primi non si possa procedere all'arresto facoltativo in flagranza.

Tale preclusione assumerebbe poi un ulteriore profilo di irragionevolezza in quanto sarebbe del tutto incongruo che, di fatto, non si possa procedere con giudizio direttissimo in casi in cui fatti analoghi potrebbero invece essere perseguiti con quel procedimento se di competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria.

Né l'obiezione secondo cui la decisione di accogli-mento avrebbe effetto in malam partem apparirebbe tale da precludere la proposizione della questione, posto che a ben vedere l'eventuale declaratoria di incostituzionalità si porrebbe piuttosto come ulteriore esplicazione della pronuncia di questa Corte (sentenza n. 503 del 1989) che espunse dall'ordinamento una norma di maggior sfavore come l'art. 308 cod. pen. mil. di pace; e che già con la sentenza n. 469 del 1990 la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma che non consentiva il procedimento in contumacia nei confronti degli imputati dei reati di diserzione e di mancanza alla chiamata, eliminando un privilegio ingiustificato.

2.-- Nel corso di un giudizio di convalida dell'arresto in flagranza di un militare per il reato di furto militare a danno dell'amministrazione militare, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova, con ordinanza del 17 luglio 1995, pervenuta a questa Corte il 3 ottobre 1995 (R.O. n. 733 del 1995), ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale, in relazione all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 381, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui esclude l'arresto facoltativo in flagranza per i reati puniti con la reclusione militare per una durata uguale a quella prevista dallo stesso comma in relazione ai reati puniti con la reclusione, nonché dello stesso art. 381, comma 2, lettera g), nella parte in cui esclude l'arresto in flagranza per il reato di furto militare, mentre lo prevede per il reato di furto comune.

Il remittente rileva che il reato per il quale si procede è punito con la reclusione militare, mentre l'art. 381, comma 1, cod. proc. pen. prevede l'arresto facoltativo in flagranza per i delitti non colposi per i quali sia stabilita la pena della "reclusione" superiore nel massimo a tre anni. Il principio di tassatività sancito dall'art. 13, terzo comma, della Costituzione non consentirebbe di estendere la previsione dell'arresto in flagranza ai casi in cui la pena prevista non è quella della reclusione ma quella della reclusione militare; e d'altra parte si tratterebbe di pene diverse, come è confermato dal fatto che determinati reati militari sono puniti con la pena della reclusione, tant'è che l'art. 23 del codice militare accomuna la reclusione e la reclusione militare sotto le dizioni di "pene detentive" o "restrittive della libertà personale", e proprio alla prima di queste dizioni si riferivano le previgenti disposizioni dello stesso codice che disciplinavano le misure restrittive della libertà.

Inoltre il remittente rileva che l'art. 381, comma 2, lettera g), cod. proc. pen. consente l'arresto facoltativo in flagranza per il reato di furto, non per il reato di furto militare: sarebbe, a suo giudizio, del tutto irrazionale che fatti sostanzialmente uguali e connotabili di uguale gravità, come il furto e il furto militare, sottostiano ad un diverso trattamento quanto all'applicabilità dell'arresto in flagranza.

Benché si tratti di questione in malam partem, essa sarebbe -- rileva il giudice a quo -- ugualmente sollevabile trattandosi di materia processuale e comunque perché altrimenti si dovrebbe riconoscere la non impugnabilità di norme costitutive di privilegi positivi.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale dovrebbe, a parere del remittente, estendersi, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, agli artt. 380, comma 1 (arresto obbligatorio in flagranza), 384, comma 1 (fermo di indiziato di delitto), 280 (condizioni di applicabilità delle misure coercitive) e 287 (condizioni di applicabilità delle misure interdittive) del codice di procedura penale, che presenterebbero gli stessi vizi.

3.-- Il Giudice per le indagini preliminari presso il medesimo Tribunale militare di Padova, investito di una richiesta di applicazione di misura coercitiva a carico di un militare indagato per concorso in truffa militare aggravata, ha sollevato d'ufficio, con ordinanza del 2 agosto 1995, pervenuta a questa Corte il 26 settembre 1995 (R. O. n. 695 del 1995), questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, dell'art. 280 cod. proc. pen. nella parte in cui non consente l'applicabilità di misure cautelari coercitive nel caso di reati militari puniti con la reclusione militare superiore nel massimo a tre anni, come invece prevede per i reati comuni puniti con la reclusione.

Il giudice remittente esclude che in via di interpretazione l'art. 280 possa applicarsi ai reati puniti con la reclusione militare, ritenendo tale interpretazione preclusa dal principio di tassatività dei casi di limitazione della libertà personale, di cui all'art. 13 della Costituzione, e dal divieto di interpretazione analogica di leggi che fanno eccezione alla regola generale della libertà personale.

Tuttavia, secondo il remittente, sarebbe del tutto irrazionale e perciò lesivo del principio di uguaglianza che fatti come quelli puniti dal codice militare, ontologicamente uguali e connotabili di uguale gravità rispetto a quelli previsti dal codice penale comune, sottostiano ad un diverso trattamento quanto all'applicabilità di misure cautelari; né sussisterebbero giustificazioni per tale diversità di trattamento, ché anzi la qualità militare del soggetto attivo del reato può rendere in talune fattispecie ancor più concrete e pressanti le esigenze cautelari.

In riferimento all'art. 112 della Costituzione, il remittente osserva che privare il pubblico ministero del potere di richiesta di misure cautelari implicherebbe un sostanziale indebolimento dell'azione penale che finirebbe col non essere più assistita dai mezzi e supporti necessari per un corretto esercizio.

4.-- La stessa autorità giudiziaria, investita di una richiesta di applicazione di una misura cautelare coercitiva ovvero di una misura cautelare interdittiva nei confronti di un militare indagato per truffa militare, con ordinanza del 24 luglio 1995, pervenuta a questa Corte il 25 ottobre 1995 (R.O. n. 789 del 1995), ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, degli artt. 280 e 287 cod. proc. pen. nella parte in cui non consentono l'applicazione di misure coercitive, e rispettivamente di misure interdittive, per reati militari puniti con la reclusione militare, alle stesse condizioni che le rendono applicabili ai reati comuni o ai reati militari puniti con la reclusione.

Seguendo una linea argomentativa analoga a quella esposta nella ordinanza di cui sopra, al numero 3, il remittente esclude che gli artt. 280 e 287 cod. proc. pen. possano trovare applicazione per i reati puniti con la reclusione militare, trattandosi di pena diversa da quella della reclusione; e rileva che tale diversità di trattamento sarebbe irrazionale, e quindi lesiva del principio di uguaglianza.

Considerato in diritto

1.-- I quattro giudizi instaurati con le ordinanze dei Giudici per le indagini preliminari presso i Tribunali militari di Roma e di Padova possono essere riuniti e definiti con unica sentenza, data la connessione fra le questioni sollevate.

2.-- Queste hanno ad oggetto due gruppi di norme -- rispettivamente l'art. 381, comma 1 e comma 2, lettere c) e g), del codice di procedura penale, concernente l'arresto in flagranza (ordinanza n. 431 del Giudice per le indagini preliminari di Roma e ordinanza n. 733 del Giudice per le indagini preliminari di Padova), e l'articolo 280 (ordinanze nn. 695 e 789 del Giudice per le indagini preliminari di Padova) nonché l'articolo 287 (per la sola ordinanza n. 789) del codice di procedura penale, concernenti le misure cautelari personali coercitive e interdittive -- accomunate, nella prospettazione delle questioni, dal fatto che esse non consentirebbero di disporre l'arresto in flagranza, e rispettivamente le misure cautelari, per i reati militari puniti con la pena della reclusione militare, ovvero per reati militari di gravità uguale a quella di reati comuni per i quali l'arresto in flagranza, e conseguentemente anche l'adozione di misure coercitive, sono viceversa possibili.

Più precisamente, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma ritiene bensì applicabile anche ai reati militari puniti con la reclusione militare l'art. 381, comma 1, cod. proc. pen., secondo cui l'arresto facoltativo in flagranza è consentito per i delitti non colposi per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni; ma dubita della legittimità costituzionale, in riferimento al principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., dell'art. 381, comma 2, cod. proc. pen. -- ove si prevedono i reati per i quali l'arresto in flagranza è consentito comunque, al di fuori del limite di pena di cui al comma 1 --, in relazione all'art. 207 disp. att. cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono l'arresto in flagranza e conseguentemente precludono l'adozione di misure cautelari coercitive al di fuori dei limiti previsti dall'art. 280, ai sensi dell'art. 391, comma 5, secondo periodo, dello stesso codice, per il reato di insubordinazione con violenza (art. 186 cod. pen. mil. di pace), laddove lo consentono per il reato di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale previsto dall'art. 336, secondo comma, cod. pen. comune.

A sua volta il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova da un lato nega -- in contrasto con l'altro giudice remittente -- che l'art. 381, comma 1, cod. proc. pen., prevedendo l'arresto facoltativo in flagranza per i reati puniti con la pena della reclusione superiore nel massimo edittale a tre anni, sia applicabile anche ai reati militari puniti con la reclusione militare, e per questa ragione dubita, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale di detta norma; e dubita altresì della legittimità del comma 2, lettera g), dello stesso art. 381, nella parte in cui non consente l'arresto facoltativo in flagranza per il reato di furto militare, mentre lo consente per il reato di furto previsto dal codice penale comune (ordinanza n. 733). Dall'altro lato, lo stesso giudice dubita, sempre in riferimento all'art. 3 Cost., e in un caso anche in riferimento all'art. 112 Cost., della legittimità costituzionale degli artt. 280 e 287 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono, secondo l'interpretazione da lui seguita, l'adozione di misure cautelari coercitive, e rispettivamente interdittive, per i reati puniti con la reclusione militare (ordinanze nn. 695 e 789).

La stretta connessione fra tutte le questioni è messa ulteriormente in luce dall'ordinanza n. 733 del Giudice per le indagini preliminari di Padova là dove il giudice remittente -- sia pure andando oltre il compito a lui affidato -- esprime l'avviso che la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 381 cod. proc. pen. debba estendersi, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, agli artt. 380 (arresto obbligatorio in flagranza), 384, comma 1 (fermo di indiziato di delitto), 280 (condizioni di applicabilità delle misure coercitive) e 287 (condizioni di applicabilità delle misure interdittive) del codice di procedura penale, disposizioni che, ad avviso del medesimo remittente, "tutte presentano gli stessi vizi delle disposizioni direttamente impugnate".

3.-- E' opportuno premettere un cenno sulle vicende normative da cui deriva la situazione oggi denunciata dai giudici remittenti.

Il codice penale militare di pace, che contiene la generale norma di rinvio di cui all'art. 261, in forza della quale "salvo che la legge disponga diversamente, le disposizioni del codice di procedura penale si osservano anche per i procedimenti davanti ai tribunali militari", disciplinava all'origine in modo autonomo e compiuto l'adozione delle misure restrittive della libertà personale dell'imputato di reati militari. Precisamente, l'art. 308 di detto codice prevedeva l'arresto obbligatorio di chiunque fosse colto in flagranza di un reato militare punibile con pena detentiva; l'art. 309 prevedeva che, fuori dei casi di flagranza, il militare in servizio alle armi, imputato di un reato, ancorché non soggetto alla giurisdizione militare, non potesse essere arrestato se non in dipendenza di un mandato od ordine di cattura o di arresto dell'autorità giudiziaria, salve le misure precauzionali che il comandante da cui il militare dipendeva ritenesse di adottare; a loro volta gli artt. 313 e 314 disciplinavano i casi in cui il mandato di cattura era obbligatorio (in particolare riferendosi, oltre che ad alcuni reati elencati, a tutti i reati non colposi soggetti alla giurisdizione militare per i quali la legge stabilisse una pena detentiva superiore nel massimo a tre anni, con la sola eccezione dei reati di duello: art. 313, primo comma, numero 3), ovvero facoltativo (in particolare riferendosi ai reati non colposi per i quali la legge stabilisse una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni, con eccezione dei reati di duello, e dunque, in sostanza, pressoché a tutti i restanti reati puniti con pena detentiva: art. 314); l'art. 322 disciplinava la concessione della libertà provvisoria all'imputato che si trovava nello stato di custodia cautelare, vietandola nei casi in cui il mandato di cattura fosse obbligatorio.

4.-- Su questa normativa, ispirata a largo impiego delle misure restrittive di libertà ante causam, sono venute ad incidere varie pronunce di questa Corte, e più radicalmente le innovazioni legislative apportate a partire dal 1988 in materia di provvedimenti restrittivi della libertà personale degli imputati.

In particolare, la sentenza n. 68 del 1974, nel dichiarare l'illegittimità dell'art. 322, secondo comma, cod. pen. mil. di pace nella parte in cui non consentiva la concessione della libertà provvisoria nei casi in cui era obbligatorio il mandato di cattura, osservò, fra l'altro, che la carcerazione preventiva "non si atteggia in modo diverso, quanto alla sua funzione e alla sua finalità, nel rito ordinario e nel rito militare", pur ammettendo che, in via generale, possano essere legittime le disposizioni integrative e derogative dei codici penali militari, ragionevolmente giustificate, nonostante la loro differenza da quelle del codice comune; e la sentenza n. 50 del 1985, dopo l'introduzione legislativa della richiesta di riesame dei provvedimenti sulla libertà personale, chiarì che essa trovava applicazione anche con riguardo agli imputati soggetti alla giurisdizione militare, in forza del generale richiamo alle norme del codice comune contenuto nell'art. 261 del codice penale militare di pace.

L'art. 309 cod. pen. mil. di pace, che disciplinava in generale l'arresto dei militari fuori dei casi di flagranza, fu poi dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 74 del 1985, la quale, pur fondandosi essenzialmente sul contrasto con l'art. 13 della Costituzione di quella parte di detto art. 309 che prevedeva "misure precauzionali" adottate dal comandante del corpo, ritenne che la declaratoria di illegittimità dovesse coinvolgere l'intero articolo, per lo stretto collegamento fra le varie sue parti, e dunque colpire anche la parte che prevedeva l'arresto "in dipendenza di un mandato od ordine di cattura o di arresto dell'autorità giudiziaria". In quella sede la Corte affermò esplicitamente, come conseguenza "ovvia" della pronuncia, che "a disciplinare l'"arresto fuori dei casi di flagranza" nei confronti dei militari in servizio alle armi potranno subentrare -- nell'attesa di un intervento legislativo, soprattutto ipotizzabile in sede di sempre più auspicata riforma del codice penale militare di pace -- le vigenti disposizioni del diritto processuale penale ordinario, com'è logico che sia, quando si tratta di reati non soggetti alla giurisdizione militare, e come discende automaticamente dall'art. 261 cod. pen. mil. di pace, quando si tratta di reati soggetti alla giurisdizione militare"; e richiamò l'assunto, già espresso nella sentenza n. 68 del 1974, secondo cui la funzione e la finalità della carcerazione preventiva non sono diverse nel rito ordinario e in quello militare.

Infine con la sentenza n. 503 del 1989, intervenuta dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, la Corte dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 308 cod. pen. mil. di pace, concernente l'arresto in flagranza, osservando che la previsione in esso contenuta dei casi di arresto difettava dei requisiti di eccezionalità prescritti dall'art. 13, terzo comma, della Costituzione, per le misure restrittive di libertà adottate dalle autorità di pubblica sicurezza. Anche in quella occasione la Corte affermò, come conseguenza "evidente" della pronuncia, che "a determinare i casi di arresto in flagranza nei confronti di reati militari commessi da militare non potranno che essere, allo stato della legislazione, le disposizioni del diritto processuale penale ordinario", vale a dire gli artt. 380 e 381 del nuovo codice, in forza del "lineare" dettato dell'art. 261 cod. pen. mil. di pace.

Nel frattempo, peraltro, l'entrata in vigore del nuovo codice di rito penale, e ancor prima della legge 5 agosto 1988, n. 330, che ne anticipava alcune linee in tema di disciplina dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, pose il problema della sopravvivenza delle norme che in questa materia erano dettate dal codice militare. La conclusione cui pervenne la giurisprudenza della Corte di cassazione, nonché quella dei tribunali militari, e che ha trovato largo appoggio nella dottrina, nonostante perplessità e dissensi sulle argomentazioni di supporto ad essa, fu nel senso che debbano ritenersi inapplicabili, per effetto dell'entrata in vigore del nuovo codice, le disposizioni degli artt. 313 fino a 323 del codice penale militare di pace, che disciplinavano i mandati di cattura e la custodia cautelare, applicandosi dunque integralmente anche ai reati di competenza dei tribunali militari le norme del nuovo codice di procedura penale (v. ad esempio Cass., sez. I, 22 marzo-22 maggio 1991, Pagliarini).

Questa conclusione era sorretta dalla consapevolezza della totale dissonanza della normativa già contenuta nel codice militare con i principî in materia di misure restrittive della libertà personale accolti nel nuovo codice di rito comune. Era dunque evidente l'esigenza di provvedere in via legislativa al coordinamento del codice militare, tuttora non riformato, con il nuovo codice di procedura penale: dato che quest'ultimo, anche in forza dei limiti della delega sulla cui base era stato emanato, non aveva potuto dettare in proposito una adeguata disciplina.

5.-- Da tale mancato coordinamento traggono origine anche i dubbi di costituzionalità prospettati dai giudici remittenti.

In primo luogo, infatti, le norme del codice comune, che prevedono le condizioni generali per l'adozione delle misure coercitive e interdittive (artt. 280 e 287 cod. proc. pen.), per l'arresto in flagranza (artt. 380 e 381 cod. proc. pen.), nonché per il fermo di indiziato di delitto (art. 384 cod. proc. pen.), si riferiscono a tale fine ai limiti della pena edittale comminata per i vari reati: ergastolo o reclusione superiore nel massimo a tre anni per le misure coercitive e interdittive, o non inferiore nel massimo a quattro anni per la custodia cautelare in carcere (art. 280, comma 1 e 2, e art. 287); ergastolo o reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni per l'arresto obbligatorio in flagranza (art. 380, comma 1); reclusione superiore nel massimo a tre anni, o a cinque anni in caso di delitti colposi, per l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, comma 1); ergastolo o reclusione non inferiore nel minimo a due anni e superiore nel massimo a sei anni, per il fermo di indiziato di delitto (art. 384, comma 1, prima parte).

Tutte queste norme fanno riferimento alla pena della "reclusione". Ora, i reati previsti dal codice penale militare sono talvolta anch'essi puniti con le pene comuni dell'ergastolo e della reclusione (v. art. 23, secondo comma, cod. pen. mil. di pace), ma per lo più sono invece puniti con l'unica pena militare principale rimasta dopo l'abolizione della pena di morte: la "reclusione militare" (art. 22, primo comma, numero 2, e art. 26 cod. pen. mil. di pace).

Di qui la tesi interpretativa, peraltro minoritaria ancorché non isolata -- e fatta propria anche da uno dei giudici remittenti --, secondo cui il mancato riferimento, nelle citate norme del codice di procedura, ai delitti puniti con la reclusione militare non consentirebbe di applicarle in tutti i casi in cui si procede per reati militari puniti con tale pena, e dunque per la grande maggioranza dei reati previsti dal codice militare.

Sussisterebbe in proposito una vera e propria lacuna, sulla quale si appuntano le censure di costituzionalità del Giudice per le indagini preliminari di Padova, il quale ritiene che tale situazione normativa, che non consentirebbe all'autorità giudiziaria militare di disporre misure coercitive o interdittive, né alla polizia giudiziaria di procedere all'arresto in flagranza, in caso di reati militari puniti con la reclusione militare, contrasti con l'art. 3 nonché, per quanto riguarda l'art. 280 cod. proc. pen., anche con l'art. 112 della Costituzione.

6.-- La questione così prospettata è infondata sotto tutti i profili, in quanto è errata, a giudizio di questa Corte, la premessa interpretativa sulla quale essa si fonda.

Il letterale riferimento delle norme in questione, ai fini di individuare i reati per i quali è prevista l'adozione delle diverse misure cautelari, a determinati minimi o massimi di pena della "reclusione" non impedisce, secondo una lettura ragionevole e sistematica delle norme stesse, che tenga conto dell'evoluzione normativa accennata, di considerarle applicabili anche ai reati per i quali la pena prevista è quella della "reclusione militare".

E' ben vero, infatti, che la reclusione militare è stata considerata, anche da questa Corte, come pena autonoma, diversa dalla reclusione comune e dotata di autonoma disciplina giuridica, così da far ritenere legittima e non irrazionale la diversa disciplina della rispettiva durata minima (v. ordinanza n. 220 del 1987): e che le due pene sono accomunate dal codice penale militare sotto la denominazione di "pene detentive" o "restrittive della libertà personale" (cfr. art. 23 cod. pen. mil. di pace). Ma il fondamento, considerato dalla Corte tuttora "apprezzabile" pur "nel quadro della odierna integrazione dell'ordinamento militare in quello statale", della "specialità della reclusione militare" è stato indicato solo nelle diverse modalità di esecuzione della pena, che caratterizzerebbero in senso militare i fini rieducativi perseguiti con la pena stessa, e precisamente comporterebbero una finalità di "recupero al servizio militare" (sentenza n. 503 del 1989).

A tali differenti modalità di esecuzione non fa riscontro una vera e propria differenza di natura fra le due pene. Nemmeno può dirsi che l'esecuzione di ciascuna delle due pene corrisponda e consegua sempre alla condanna per reati o categorie di reati distinte. Non solo infatti il codice penale militare commina per taluni reati militari, soggetti alla giurisdizione militare, la pena della reclusione comune (cfr. per esempio artt. 157, 167, primo comma, 215, 216 cod. pen. mil. di pace). Ma, soprattutto, il sistema normativo del codice militare è ispirato a quello che si potrebbe definire come principio di "sostituibilità" fra reclusione e reclusione militare. Così, ai sensi dell'art. 27, primo comma, cod. pen. mil. di pace, "alla pena della reclusione, inflitta o da infliggersi ai militari per reati militari, è sostituita la pena della reclusione militare per eguale durata, quando la condanna non importa la degradazione", vale a dire la pena militare accessoria che, secondo l'art. 28 del codice militare, priva il condannato della qualità di militare (art. 55 cod. pen. mil. di pace). Parimenti, ai fini della esecuzione delle pene inflitte a militari "in servizio permanente alle armi", l'art. 63, numero 3, dello stesso codice prescrive che "alla pena della reclusione, se la condanna non importa la interdizione perpetua dai pubblici uffici, è sostituita la reclusione militare per eguale durata, ancorché la reclusione sia inferiore a un mese". Per converso, e specularmente, nei casi di condannati a pene militari che abbiano prestato servizio militare puramente di fatto, ovvero abbiano cessato di appartenere alle forze armate, o siano assimilati ai militari, o iscritti ai corpi civili militarmente ordinati, o siano comunque persone estranee alle forze armate, in sede di esecuzione "alla pena della reclusione militare è sostituita la pena della reclusione per eguale durata" (art. 65 cod. pen. mil. di pace). Ancora, nel caso di concorso di più reati, alcuni dei quali puniti con la reclusione, altri con la reclusione militare, si applica la reclusione ovvero la reclusione militare, con un aumento pari alla durata complessiva dell'altra pena che si dovrebbe infliggere per i reati concorrenti, a seconda che la condanna importi ovvero non importi la degradazione.

Appare evidente dalle disposizioni citate che l'ordinamento considera le due pene come reciprocamente sostituibili (si noti come la "conversione" di una pena nell'altra sia prevista sempre a parità di durata), e che l'applicazione di una o dell'altra pena non dipende in definitiva tanto dalla specie del reato commesso quanto dalla circostanza che il reo o il condannato rivesta tuttora, ovvero non rivesta o non rivesta più, la qualità di militare. In altri termini, la reclusione militare non è altro che la reclusione che può essere inflitta e applicata nei confronti di coloro che rivestono la qualità soggettiva di militare, mentre il venir meno di tale qualità comporta l'automatica conversione della reclusione militare inflitta in reclusione comune.

Ciò conferma che la specialità della reclusione militare si colloca esclusivamente sul versante delle modalità di esecuzione di una pena fondamentalmente unitaria. Se infatti si trattasse veramente di pene di natura diversa, non sarebbe ammissibile, in quanto contrasterebbe pienamente, fra l'altro, con il principio costituzionale di legalità delle pene (art. 25 Cost.), la conversione dell'una nell'altra pena in forza di circostanze esterne rispetto alla fattispecie del reato commesso, come la perdita successiva della qualità di militare da parte del condannato.

7.-- Del resto la piena equiparabilità, a certi fini, di reclusione comune e reclusione militare è stata ritenuta da questa Corte quando essa ha censurato le norme dell'ordinamento penitenziario le quali non prevedevano l'applicabilità della misura alternativa della detenzione domiciliare per i condannati alla reclusione militare, sia pure limitatamente all'ipotesi del condannato in condizioni di salute particolarmente gravi (sentenza n. 414 del 1991), o non prevedevano l'ammissione ai permessi premio dei condannati alla reclusione militare (sentenza n. 227 del 1995); o quando ha censurato come ingiustificata la differenza di disciplina dell'affidamento in prova al servizio sociale, quanto ad indefettibilità della previa osservazione della personalità, del condannato militare rispetto al condannato comune (sentenza n. 119 del 1992); o ancora quando ha ammesso la non irrazionalità del principio della sostituzione della reclusione comune con quella militare, di cui al citato art. 27 del codice militare (sentenza n. 409 del 1989, numero 7 del Considerato in diritto).

Né contraddice questa linea la ritenuta illegittimità di tale sostituzione nel caso di condanna per il reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza, che era motivata dalla contraddizione fra la previsione dell'esonero dal servizio militare, previsto per i così detti obiettori totali a seguito dell'espiazione della pena, e una modalità di esecuzione della pena stessa improntata alla finalità del recupero del soggetto al servizio militare, nonché dal rischio di "spirale delle condanne" derivante dall'assoggettamento dell'obiettore totale al trattamento proprio della reclusione militare (sentenza n. 358 del 1993).

Dal canto suo la giurisprudenza dei giudici comuni ha ammesso l'applicabilità delle norme sul trattamento sanzionatorio della continuazione tra reati anche al caso di reati puniti rispettivamente con la reclusione e con la reclusione militare (v. Cass., sez. un., 5 luglio 1984, Falato); e, ancor più significativamente, ha ammesso l'applicabilità del "patteggiamento" anche quando debba infliggersi la pena della reclusione militare, ancorché l'art. 444 cod. proc. pen., nello stabilire il limite di pena che consente il "patteggiamento", faccia riferimento letterale alla "reclusione" (v. ad es. Cass., sez. I pen., 28 ottobre 1995, Gallo).

8.-- Si può dunque concludere che, essendo la reclusione comune e la reclusione militare solo due species dell'unico genus "reclusione", e in concreto due pene autonome quanto a modalità di esecuzione ma identiche per natura ed intercambiabili a parità di durata, nulla vieta di applicare le norme del codice di procedura penale, che fanno riferimento a determinati limiti di pena edittale per identificare i reati per i quali possono trovare applicazione le misure coercitive o interdittive ovvero l'arresto in flagranza o il fermo di indiziati di reato, anche nei casi in cui i reati per cui si procede sono reati militari punibili con la reclusione militare: considerato anche che "la carcerazione preventiva, che è giustificata da esigenze eminentemente processuali, non si atteggia in modo diverso, quanto alla sua funzione e alla sua finalità, nel rito ordinario e nel rito militare" (sentenza n. 68 del 1974). Questa è anzi l'unica ragionevole lettura del sistema normativo, una volta che si considerino venute meno le norme speciali del codice militare sulle misure restrittive della libertà, e quindi debbano trovare applicazione anche in queste ipotesi, in forza del generale richiamo dell'art. 261 cod. pen. mil. di pace, le norme dell'ordinamento processuale penale comune.

Così interpretate le norme denunciate, non si pone evidentemente il problema che ha dato luogo alle censure sollevate dal giudice remittente in ordine alla presunta mancata previsione nelle stesse norme della possibilità di adottare misure cautelari per reati puniti con la reclusione militare.

9.-- Resta da esaminare il secondo ordine di questioni sollevate, concernente l'asserita lacuna dell'art. 381, comma 2, cod. proc. pen., laddove, nell'elencare i reati per i quali può procedersi all'arresto in flagranza al di fuori delle condizioni generali in ordine all'entità della pena edittale stabilite dal comma 1, non contempla reati militari che sarebbero in qualche modo assimilabili, per natura e gravità, a reati comuni compresi nel predetto elenco.

In proposito deve però ritenersi rilevante solo la questione sollevata dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma con riguardo alla lettera c) del comma 2 dell'art. 381, ove si menziona il reato di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale previsto dall'art. 336 cod. pen., in riferimento al reato di insubordinazione con violenza previsto dall'art. 186, primo comma, cod. pen. mil. di pace.

Viceversa non è rilevante l'analoga questione sollevata dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova con l'ordinanza n. 733 con riguardo alla lettera g) del comma 2 dell'art. 381, ove si menziona il reato di furto previsto dall'art. 624 del codice penale, in riferimento al reato di furto militare previsto dall'art. 230 cod. pen. mil. di pace. Infatti nella specie sottoposta al giudice patavino si procede per il delitto di furto militare a danno dell'amministrazione militare, per il quale l'art. 230, secondo comma, cod. pen. mil. di pace prevede la pena della reclusione militare da uno a cinque anni, e dunque una pena superiore al limite al di sopra del quale l'arresto facoltativo in flagranza è comunque consentito a norma dell'art. 381, comma 1, cod. proc. pen, secondo la lettura qui accolta. Dovendo trovare applicazione tale norma, è inammissibile, in quanto priva di rilevanza, la questione che investe la diversa norma del comma 2, lettera g), dello stesso art. 381.

10.-- La questione sollevata dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma è infondata.

L'art. 381, comma 2, cod. proc. pen. introduce una deroga alla regola generale di cui al comma 1, che collega la facoltà di procedere all'arresto in flagranza all'entità della pena (reclusione superiore nel massimo a tre anni nel caso di delitto non colposo, consumato o tentato) prevista per il reato per il quale si procede. Tale deroga consiste nella previsione nominativa di una serie di reati elencati, per i quali tale facoltà è concessa anche se la pena per essi prevista dalla legge è inferiore al limite di cui al primo comma. Si tratta ovviamente di un elenco tassativo, non suscettibile né di letture estensive (i reati sono indicati con la loro denominazione e con il richiamo alla corrispondente disposizione del codice penale o di altra legge, e dunque si tratta di fattispecie ben determinate), né tanto meno di applicazione analogica, trattandosi di norma eccezionale in rapporto alla regola generale del primo comma.

Ora, non vi è dubbio che sussista una disarmonia in questa disciplina, in quanto il legislatore del codice ha elencato solo i reati comuni colpiti con pena edittale meno elevata, ma per i quali si è ritenuto possano sussistere particolari esigenze cautelari tali da richiedere l'arresto in flagranza, mentre ha completamente pretermesso la considerazione dei reati militari previsti dal codice militare, in ordine ai quali in precedenza provvedeva con disposizione di generalissima applicazione l'art. 308 del codice militare medesimo. Caduta tale disposizione a seguito della sentenza n. 503 del 1989 di questa Corte, sono rimaste solo le norme del codice comune, le quali però, mentre stabiliscono le condizioni generali per procedere all'arresto (comma 1 dell'art. 381, applicabile, come si è detto, anche ai reati militari puniti con la reclusione militare), nulla dispongono in ordine a singoli reati militari per i quali si consenta l'arresto fuori da quelle condizioni generali.

Tuttavia la disarmonia non è tale da dar luogo ad una situazione di incostituzionalità.

Non può infatti che essere riservato al legislatore, nella sua esclusiva discrezionalità, stabilire in via tassativa, ai sensi dell'art. 13 della Costituzione, i casi e i modi in cui possono essere disposte restrizioni della libertà personale, e specificamente i "casi eccezionali di necessità ed urgenza" in cui possono essere adottati provvedimenti restrittivi provvisori al di fuori della riserva di giurisdizione esistente in materia. Tali casi, costituenti altrettante deroghe -- costituzionalmente ammesse -- alla regola generale dell'inviolabilità della libertà personale, non possono essere estesi con pronunce di questa Corte, per ragioni analoghe a quelle che impediscono la introduzione, per via di pronunce di incostituzionalità, di nuove ipotesi di reati o di pene (v. da ultimo sentenza n. 411 del 1995).

Il reato militare di insubordinazione con violenza previsto dall'art. 186 cod. pen. mil. di pace può ben essere considerato di gravità equiparabile a quella del reato comune di violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale previsto dall'art. 336, secondo comma, cod. pen., anche se si tratta di fattispecie diverse per alcuni degli elementi costitutivi: l'insubordinazione con violenza è configurata come reato contro la disciplina militare (titolo terzo del libro secondo, cod. pen. mil. di pace), mentre la violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale è compresa fra i delitti dei privati contro la pubblica amministrazione (libro II, titolo II, capo II, cod. pen).

Ma resta il fatto che solo il legislatore può compiere l'apprezzamento necessario per includere eventualmente tale reato militare fra quelli per i quali è consentito l'arresto in flagranza fuori dalle condizioni generali stabilite dall'art. 381, comma 1, cod. proc. pen.

11.-- La riforma dei codici militari in conformità ai principî della Costituzione repubblicana è impegno che da troppo tempo ormai grava, insoddisfatto, sugli organi legislativi. Questa Corte ritiene di dover indirizzare ad essi un nuovo, pressante invito a provvedere, anche prendendo spunto dai problemi applicativi di cui le presenti questioni di costituzionalità, sollevate da giudici militari, sono ulteriore testimonianza.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

a) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 280 e 287 del codice di procedura penale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, sollevata con l'ordinanza (R. O. n. 789 del 1995) del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova, indicata in epigrafe;

b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 280 del codice di procedura penale, in riferimento agli articoli 3 e 112 della Costituzione, sollevata con l'ordinanza (R. O. n. 695 del 1995) del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova, indicata in epigrafe;

c) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 381, comma 1, del codice di procedura penale, in riferimento all'articolo 3 della Costituzione, sollevata con l'ordinanza (R. O. n. 733 del 1995) del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova, indicata in epigrafe;

d) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 381, comma 2, lettera g), del codice di procedura penale, in riferimento all'articolo 3 della Costituzione, sollevata con l'ordinanza (R.O. n. 733 del 1995) del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova, indicata in epigrafe;

e) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 381, comma 2, lettera c), del codice di procedura penale, nonché dell'art. 207 disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, in riferimento all'articolo 3 della Costituzione, sollevata con l'ordinanza (R. O. n. 431 del 1995) del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma, indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 maggio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Valeria ONIDA, Redattore

Depositata in cancelleria il 7 giugno 1996.