Sentenza n. 10 del 1970
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SENTENZA N. 10

ANNO 1970

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 4, quinto comma, del regio decreto 17 agosto 1935, n. 1765, contenente disposizioni per l'assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 3 febbraio 1968 dal tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra D'Acierno Benvenuto contro la società Paolo Montanari, iscritta al n. 159 del registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 235 del 14 settembre 1968;

2) ordinanza emessa il 18 giugno 1969 dalla Corte d'appello di Potenza nel procedimento civile vertente tra Zaccardo Giovanni e l'ENEL, iscritta al n. 290 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 200 del 6 agosto 1969.

Udito nella camera di consiglio del 10 dicembre 1969 il Giudice relatore Costantino Mortati.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un giudizio civile proposto nei confronti della società Paolo Montanari dall'operaio D'Acierno Benvenuto per ottenere il risarcimento dei danni derivatigli da un infortunio sul lavoro, il tribunale di Roma ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, quinto comma, del regio decreto 17 agosto 1935, n. 1765, il quale stabilisce che, qualora in relazione ad un infortunio sul lavoro sia stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per morte dell'imputato o per amnistia (o per prescrizione, secondo quanto risulta dalla sentenza della Corte costituzionale n. 22 del 1967), l'azione tendente ad ottenere il risarcimento dei danni deve essere proposta entro un anno dalla sentenza, in riferimento agli artt. 3, 35 e 38 della Costituzione.

Poiché, secondo la giurisprudenza, tale termine decorre dalla data della pronuncia della sentenza ove il processo penale sia già stato iniziato al momento in cui si verifica il fatto estintivo del reato, ma decorre dal verificarsi di questo ove sia stato instaurato successivamente, esso sarebbe nella specie decorso col 24 gennaio 1964 e quindi, sia prima della data di proposizione della domanda (9 aprile 1964), sia prima dell'entrata in vigore dell'art. 10, quinto comma, del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, che ha prolungato tale termine a tre anni.

Nel merito osserva il tribunale che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 22 del 1967, ha affermato il principio secondo cui la responsabilità del datore di lavoro per i danni da infortunio dovrebbe essere sempre regolata dalle norme generali, e che invece il termine in questione é più breve di quello di cinque anni vigente per la generalità dei casi di responsabilità derivante da illecito penale ai sensi dell'art. 2947, terzo comma, codice civile. Pertanto questa limitazione dell'esercizio del diritto al risarcimento dei danni derivati dall'infortunio determinerebbe un trattamento disuguale del lavoratore in relazione a fattispecie che sotto ogni aspetto appaiono omogenee, con conseguente dubbio, non manifestamente infondato, di violazione dell'art. 3 della Costituzione da parte della norma suddetta.

Posto poi che l'art. 4, quinto comma, del citato decreto viene a limitare la tutela del lavoro, essa appare al tribunale contrastante altresì con l'art. 35, primo comma, della Costituzione, e ciò specialmente se si tiene conto dello sviluppo storico della disciplina della materia, sviluppo che si svolge dalle prime leggi sociali dell'inizio del secolo al regio decreto 17 agosto 1935, n. 1765, ed all'art. 2087 del codice civile.

Infine il tribunale denuncia il contrasto della norma suddetta con l'art. 38, secondo comma, della Costituzione, che riconosce ai lavoratori il diritto alla predisposizione di mezzi "adeguati" alle loro esigenze di vita in caso di infortunio. Tale diritto appare sacrificato dalla norma in questione, sia per la eccessiva brevità del termine (riconosciuta dallo stesso legislatore, che ne ha recentemente prolungato la durata a tre anni), sia perché non assicura ai lavoratori un mezzo processuale adeguato, tenuto conto delle esigue nozioni giuridiche e della scarsa capacità economica di cui essi possono avvalersi per esercitare l'azione di risarcimento. La minore capacità economica e la normale ignoranza giuridica del lavoratore medio, che rendono meno pronta e più difficile una azione giudiziaria, giustificherebbero infatti semmai la prefissione di un termine più lungo, anziché più breve, per l'esercizio dell'azione di risarcimento.

L'ordinanza é stata ritualmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 235 del 14 settembre 1968, ma nessuno si é costituito in giudizio avanti questa Corte.

2. - La violazione dell'art. 38, secondo comma, della Costituzione da parte dell'art. 4, quinto comma, del decreto citato é stata denunciata anche dalla Corte d'appello di Potenza con l'ordinanza in data 18 giugno 1969, pronunciata nel corso della causa di analogo oggetto promossa da Zaccardo Giovanni contro l'Ente nazionale per l'energia elettrica.

La motivazione di questa seconda ordinanza é incentrata sul richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 1966, che dichiarò incostituzionali le norme per le quali i termini di prescrizione dei crediti di lavoro potevano iniziare a decorrere anche mentre il rapporto di lavoro era ancora in piedi. A giudizio della Corte d'appello, la norma impugnata appare analoga a queste in quanto limita, in modo diverso da quanto genericamente previsto dall'art. 2947 del codice civile, il diritto di agire del lavoratore per conseguire il risarcimento dei danni da infortunio, fissando un termine di decadenza che decorre anche durante il rapporto di lavoro e quindi nei confronti di chi non é completamente libero di agire.

Anche questa ordinanza é stata ritualmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiate n. 200 del 6 agosto 1969, ma nessuno si é costituito neppure in questo giudizio.

 

Considerato in diritto

 

Le due cause, riguardanti la stessa questione, anche se prospettata in termini differenti, possono essere riunite e vengono decise con unica sentenza.

1. - Secondo il tribunale di Roma la norma dell'art. 4, quinto comma, del R. D. 17 agosto 1935, n. 1765, per la parte in cui subordina l'esercizio del diritto al risarcimento del danno subito dal lavoratore dipendente, per infortunio sul lavoro, al termine di decadenza di un anno dal giorno dell'emanazione della sentenza di non doversi procedere, sarebbe incostituzionale perché contrastante con gli artt. 3, 35 e 38 della Costituzione. La violazione del principio di eguaglianza é fatta discendere dalla deroga apportata dall'articolo denunciato alla regola dell'art. 2947, primo e terzo comma, del codice civile secondo cui la prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si opera in 5 anni.

Si può opporre che la regola stessa, se ha carattere generale perché applicabile in via di norma, nel silenzio della legge, non costituisce un principio che limiti il potere del legislatore di fissare termini diversi tutte le volte che la peculiarità delle circostanze dell'evento dannoso abbiano a farli ritenere più opportuni, secondo del resto risulta dallo stesso art. 2947 richiamato, che riduce a due anni il termine stesso nel caso di risarcimento per danni prodotti dalla circolazione dei veicoli senza rotaie; né mancano altre disposizioni che sanciscono analoghe abbreviazioni.

É vero che un limite alla discrezionalità del legislatore si deve rinvenire nell'esigenza della ragionevolezza della fissazione della più breve durata del termine; ma nella specie non si può ritenere che la disposizione denunciata manchi di ogni giustificazione. Infatti mentre normalmente l'azione di risarcimento ha per oggetto l'intera reintegrazione del danno subito, nel caso in esame suo oggetto é il conseguimento di una integrazione dell'indennizzo (in aggiunta a quello già corrisposto all'infortunato, nella misura stabilita dalle tabelle secondo le quali si liquida il risarcimento in virtù dell'assicurazione obbligatoria) per quel di più che si dimostri non essere stato interamente coperto dalla precedente liquidazione. D'altra parte la complessità inerente alla predisposizione dei mezzi di prevenzione degli infortuni e le difficoltà che a volte si presentano di accertare quale e quanta parte l'omissione di tali mezzi, oppure il comportamento positivo del datore di lavoro o del terzo da lui incaricato abbiano operato quali cause determinanti, o concause dell'infortunio inducono a far considerare non evidentemente arbitraria la statuizione di un termine più breve di quello ordinario, dato che l'adozione di quest'ultimo avrebbe potuto pregiudicare i risultati delle operazioni di raccolta delle prove e rendere più difficile quelle della loro conservazione.

La circostanza, messa in rilievo dall'ordinanza, dell'intervento dell'Ispettorato del lavoro, incaricato (ai sensi dell'art. 4 legge 22 luglio 1961 n. 628) di redigere un rapporto relativo all'infortunio occorso, non sembra sufficiente ad indurre a diversa conclusione perché in tale fase amministrativa del procedimento fanno difetto quelle garanzie che accompagnano l'acquisizione delle prove in contraddittorio avanti al giudice.

Il fatto che il termine di cui all'art. 4 sia stato portato a tre anni, in virtù di una recente disposizione (la quale, se si seguisse il ragionamento del tribunale, risulterebbe, a sua volta, affetta da incostituzionalità) é espressione della libertà di apprezzamento del legislatore, quale si é messa in rilievo, e che deve rimanere sottratta al giudizio di legittimità costituzionale.

Le considerazioni che precedono valgono anche a far contestare l'esattezza del motivo dedotto sotto l'aspetto dell'eccessiva brevità del termine, (che però non é stato fatto valere con riferimento alla violazione dell'art. 24 Cost.). La Corte ha ritenuto in numerose occasioni (sent.  57 e 93 del 1962, n.107 e 118 del 1963, n. 2 del 1964, n. 58 e 92 del 1957, n. 26 del 1969) che l'incongruità del termine sotto l'aspetto della sua irragionevolezza può ammettersi solo quando esso venga determinato in modo da non rendere effettiva la possibilità di esercizio del diritto cui si riferisce, e di conseguenza inoperante la tutela voluta accordare al cittadino leso. Ora non può dirsi che quello in contestazione sia talmente breve da frustrare le esigenze della protezione giurisdizionale dell'infortunato. Né valgono a far ritenere il contrario le considerazioni di cui all'ordinanza circa la scadenza del termine nel periodo critico che segue l'infortunio, dato che la decorrenza del medesimo non risale al momento in cui questo si é verificato bensì all'altro, che di solito avviene in un tempo alquanto posteriore, dell'emanazione della sentenza di non doversi procedere emessa dal giudice penale.

2. - La questione si presenta infondata anche se venga esaminata con riguardo all'art. 35 della Costituzione, allegato pur esso a sostegno dell'eccezione, poiché, come la Corte ha osservato in altre occasioni, il principio enunciato nel primo comma di tale articolo si limita a stabilire il criterio generale ispiratore di tutte le disposizioni comprese nel titolo III, nelle quali ultime solamente sono da ricercare le norme particolari regolatrici delle varie specie di tutela accordate al lavoro. Anche dall'art. 38 non possono trarsi elementi di giudizio suscettibili di condurre a conclusioni diverse dalle precedenti poiché la garanzia ivi sancita a favore dei lavoratori infortunati attiene piuttosto all'adeguazione dei mezzi di carattere previdenziale alle esigenze di vita dell'infortunato piuttosto che alle modalità necessarie a conseguirli, a meno che esse siano tali da comprometterne il conseguimento: ciò che, come si é detto, non si verifica nella specie.

3. - L'altra questione, enunciata dalla Corte di appello di Potenza, riguarda non già la durata del termine ma la sua decorrenza, essendosi ritenuto che dovesse nella specie trovare applicazione lo stesso principio affermato dalla Corte con la sentenza n. 63 del 1966, e ciò nella considerazione che quando il termine di decadenza per il promuovimento dell'azione di risarcimento decorra nel periodo di costanza del rapporto di lavoro, il prestatore d'opera, pel timore di incorrere in licenziamento, potrebbe essere indotto a rinunciare all'azione stessa, sicché, al fine di non compromettere la tutela di un diritto costituzionalmente protetto, l'inizio del termine stesso dovrebbe farsi decorrere dalla cessazione del rapporto stesso. É però da ritenere che, contrariamente a quanto la Corte di appello sostiene, la presente fattispecie non poggia su presupposti analoghi a quelli sui quali si é fondata la precedente decisione del 1966. Infatti il principio con questa affermato ha un preciso riferimento al diritto al salario qual é garantito dall'art. 36 della Costituzione, e per il quale, a protezione del contraente più debole, non é ammessa alcuna rinuncia. Non basta osservare che anche nei riguardi della pretesa al risarcimento dei danni il lavoratore può trovarsi nella situazione psicologica del timore di licenziamento, tale da indurlo ad omettere l'esercizio del diritto, poiché tale diritto, a differenza dell'altro al salario, é rinunciabile, sicché mancherebbe del fondamento giuridico valevole per quest'ultimo l'estensione che volesse farsi della deroga ai comuni principi in materia di decorrenza dei termini di decadenza.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, quinto comma, del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765, sull'assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro, proposta dal tribunale di Roma e dalla Corte di appello di Potenza, in riferimento agli artt. 3, 35 e 38 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 1970.

Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE  -  Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 28 gennaio 1970.