Sentenza n. 107 del 1963

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SENTENZA N. 107

ANNO 1963

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

Dott. GIUSEPPE VERZÌ, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

 

SENTENZA

 

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 9, secondo comma, del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765, promosso con ordinanza emessa il 2 luglio 1962 dalla Corte suprema di cassazione, Sezione 2 civile, nel procedimento civile vertente tra Di Stefano Giuseppe e l'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, iscritta al n. 169 del Registro ordinanze 1962 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 293 del 17 novembre 1962.

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Di Stefano Giuseppe e dell'I.N.A.I.L.;

udita nell'udienza pubblica del 22 maggio 1963 la relazione del Giudice Giuseppe Castelli Avolio;

uditi gli avvocati Salvatore Orlando Cascio e Giuseppe Lopez per il Di Stefano, e l'avv. Aldo Radonich, per l' I.N.A.I.L..

 

 

Ritenuto in fatto

 

 

1. - Con sentenza del 20 marzo 1959 la Corte di appello di Palermo, in riforma della sentenza del Tribunale di Trapani 6-14 marzo 1958, rigettò l'opposizione proposta da Di Stefano Giuseppe avverso il decreto ingiuntivo con cui era stato condannato al pagamento di lire 11.966.478 per premi, contributi assicurativi ed interessi in favore dell'I.N.A.I.L., dovuti dal 1 gennaio 1946 al 28 febbraio 1953.

La Corte osservava, fra l'altro, nella sentenza, che ogni questione sulla sussistenza del rapporto di lavoro cui si riferiva l'obbligo assicurativo, negato dal Di Stefano, era preclusa dalla mancata impugnazione, in sede amministrativa, degli accertamenti compiuti al riguardo dall'Istituto, che aveva invece provveduto a suo tempo ad intimare allo stesso Di Stefano la diffida ai sensi dell'art. 9 del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765. Secondo la Corte, infatti, non poteva ritenersi idoneo allo scopo il reclamo indirizzato a suo tempo dal Di Stefano all'I.N.A.I.L. direttamente e non all'Ispettorato del lavoro, come invece é previsto dall'art. 9 citato.

Nel ricorso per cassazione, avanzato contro la detta sentenza della Corte di appello di Palermo, il Di Stefano denunciava l'illegittimità costituzionale del ripetuto art. 9, in relazione all'art. 17 del citato R.D. n. 1765 del 1935 per contrasto con l'art. 113 della Costituzione, sostenendo che le disposizioni in esso contenute, ed in specie quelle del secondo comma, costituivano una particolare applicazione del principio del solve et repete, dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 21 del 1961 della Corte costituzionale. Affermava in proposito, il Di Stefano, che il detto art. 9, dopo aver dato facoltà all'I.N.A.I.L. (primo comma) di intimare al datore di lavoro diffida a presentare la denunzia dell'inizio dei lavori, cui é tenuto a norma dell'art. 8 precedente, prevede (secondo comma) senz'altro l'obbligo del pagamento del premio risultante dagli accertamenti compiuti dall'Istituto, a decorrere dall'inizio dei lavori, qualora l'intimato non provveda entro dieci giorni ad inoltrare ricorso contro la diffida, e ad iniziare così il procedimento amministrativo all'uopo previsto dal terzo comma dello stesso art. 9, e consistente, appunto, nel ricorso in primo grado all'Ispettorato corporativo competente (oggi Ispettorato del lavoro), ed in secondo grado al Ministero delle corporazioni (oggi del lavoro), ricorso cui, ai sensi dell'art. 17, sesto comma, dello stesso R.D. n. 1765 del 1935, é subordinata in ogni caso la facoltà di adire l'autorità giudiziaria, giusta il quinto comma dell'art. 9 citato, entro sessanta giorni dalla comunicazione della decisione del Ministero.

In tal modo, sosteneva il ricorrente, verrebbe ad essere limitata la tutela giurisdizionale dei diritti del privato nei confronti della pubblica Amministrazione, tanto più se, come aveva ritenuto la Corte di appello, si interpreta la disposizione di cui al secondo comma del citato art. 9 come preclusiva dell'esame di merito, da parte del giudice, degli accertamenti compiuti dall'I.N.A.I.L.

2. - La Corte di cassazione, con ordinanza del 2 luglio 1962, ha osservato che la diffida, di cui all'art. 9, primo comma, del citato R.D. n. 1765 del 1935, costituisce il primo atto del procedimento amministrativo contenzioso che può essere proseguito dal datore di lavoro con ricorso all'Ispettorato del lavoro. Tale procedimento - prosegue l'ordinanza - prevedendo la facoltà di adire l'autorità giudiziaria, tanto per l'Istituto quanto per il privato, entro sessanta giorni dalla comunicazione della decisione di secondo grado, non può ritenersi che tolga o limiti il diritto di tutela giurisdizionale del privato, tenuta presente la disciplina generale dettata in materia dall'art. 460 del Cod. proc. civ., secondo cui l'esaurimento della procedura amministrativa prevista dalle leggi speciali condiziona la proponibilità della domanda nelle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie.

Invece, secondo l'ordinanza, altrettanto non potrebbe dirsi in relazione al secondo comma del detto art. 9, che riguarda unicamente l'ipotesi del mancato ricorso all'Ispettorato del lavoro contro la diffida dell'I.N.A.I.L. Infatti, l'obbligo del pagamento del premio risultante dagli accertamenti dell'Istituto deriverebbe esclusivamente dall'inerzia del datore di lavoro "il quale non abbia creduto o potuto proporre ricorso nel brevissimo termine di dieci giorni" previsto dalla norma impugnata.

Se si intende - osserva la Cassazione - che tale disposizione attribuisce all'I.N.A.I.L. un titolo esecutivo ope legis per la riscossione in via privilegiata, ai sensi dell'art. 17 del R.D. n. 1765 del 1935, dei premi dovuti dall'inizio dei lavori, facendo però salva la facoltà del datore di lavoro di ricorrere all'autorità giudiziaria, previo pagamento delle somme richiestegli, si verserebbe in una ipotesi di applicazione del principio del solve et repete, che é stato dichiarato incostituzionale in materia fiscale per contrasto con gli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, ed egualmente dovrebbe esserlo in materia previdenziale obbligatoria.

Se invece si intende - soggiunge l'ordinanza - che la disposizione in esame sia preclusiva rispetto alla tutela giurisdizionale nel merito dei diritti del datore di lavoro, anche rispetto agli accertamenti qualitativi e quantitativi dell'I.N.A.I.L., a maggior ragione dovrebbe ipotizzarsi la violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, tanto più che questa seconda interpretazione risponderebbe alla struttura e finalità delle norme e sarebbe, pertanto, da ritenersi - sempre secondo la Cassazione - quella esatta.

Concludeva pertanto l'ordinanza, ritenendo non manifestamente infondata e rilevante la questione di legittimità costituzionale prospettata riguardo al secondo comma dell' art. 9 del citato R.D. n. 1765 del 1935, in relazione agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione; e venivano pertanto rinviati gli atti alla Corte costituzionale per la decisione di competenza.

L'ordinanza, debitamente notificata, e comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 293 del 17 novembre 1962.

3. - Il Di Stefano, rappresentato e difeso dagli avvocati Salvatore Orlando Cascio e Giuseppe Lopes, si é costituito mediante deposito delle deduzioni nella cancelleria della Corte costituzionale effettuato il 17 ottobre 1962.

Osserva la difesa del Di Stefano che la Corte costituzionale, con recente decisione (

n. 45 del 1962), ha già dichiarato costituzionalmente illegittima la parte dell'art. 9 del R.D. n. 1765 del 1935 nella quale é affermato il principio del solte et repete. Ora, nella norma impugnata sarebbe da ravvisare soltanto una particolare applicazione del detto principio, in quanto essa sancirebbe, per il datore di lavoro, l'obbligo del pagamento della somma accertata dall'I.N.A.I.L. in difetto di denunzia e di opposizione alla diffida dell'Istituto, subordinando all'assolvimento dell'obbligo stesso la possibilità di adire il giudice. Onde, chiaramente si manifesterebbe l'incostituzionalità della norma, in applicazione del principio affermato con la citata recente sentenza della Corte costituzionale.

Ma anche quando si volesse ritenere esatta l'interpretazione della portata della norma in esame data dalla Corte di appello, e che la Corte di cassazione mostra di condividere nell'ordinanza di rinvio, il contrasto del secondo comma dell'art. 9 in esame con l'art. 113 della Costituzione sarebbe evidente, non potendosi ammettere che la tutela giurisdizionale rimanga preclusa dalla mancata proposizione del ricorso all'autorità amministrativa. La norma costituzionale invero vuole proteggere il privato "sempre", contro gli atti della pubblica Amministrazione, il che escluderebbe che possa ritenersi legittima la previa imposizione del ricorso contro la pubblica Amministrazione per poter adire l'autorità giudiziaria.

Tale illegittimità assumerebbe poi particolare rilievo poiché, per la semplice omissione del reclamo contro una generica diffida a presentare la denunzia dei lavori, peserebbe sul datore di lavoro il divieto di chiedere il controllo giurisdizionale degli accertamenti compiuti unilateralmente dall'Istituto assicuratore, che, fra l'altro, nella specie sarebbero macroscopicamente eccessivi.

Conclude pertanto la difesa del Di Stefano chiedendo dichiararsi incostituzionale la norma impugnata.

4. - Si é altresì costituito l'I.N.A.I.L., in persona del suo presidente avv. Renato Morelli, rappresentato e difeso dagli avvocati Aldo Radonich e Valerio Flamini, i quali hanno depositato le deduzioni nella cancelleria della Corte costituzionale il 7 dicembre 1962.

Osserva la difesa dell'Istituto che sarebbe da escludersi l'interpretazione della norma impugnata tendente a ravvisare nella stessa un'applicazione del principio del solve et repete, giacché, viceversa, essa sanzionerebbe soltanto un mero "obbligo di pagamento", senza che, dal testo della disposizione, possa comunque ricavarsi una limitazione del diritto dell'interessato di adire la magistratura, né tanto meno l'intenzione del legislatore "di far consistere questa limitazione nel preventivo adempimento di quell'obbligo". Il principio del solve et repete era in realtà sancito da una diversa disposizione dello stesso art. 9 e del successivo art. 17, caduta a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 45 del 1962.

Né maggior fondamento avrebbe l'interpretazione adottata dalla Corte d'appello di Palermo e condivisa dalla Cassazione nell'ordinanza di rinvio, in quanto la norma impugnata, lungi dal costituire un ostacolo alla difesa del diritto del privato, rappresenterebbe unicamente una espressione di quel determinato ordo processuale che governa la controversia nella suddetta materia, ed il cui rispetto, secondo i principi generali del diritto processuale, può ben essere garantito da effetti pregiudizievoli per gli inadempienti.

Ma nella specie tali effetti riguarderebbero solo l'esistenza dell'obbligo assicurativo, che rimarrebbe definitivamente stabilito per il decorso del termine di impugnazione della diffida previsto dalla legge, senza peraltro investire la "valutazione del rischio e determinazione del premio", in relazione alle quali la norma impugnata si limiterebbe a disporre l'accertamento d'ufficio da parte dell'Istituto, in caso d'inerzia del datore di lavoro, lasciando impregiudicata ogni ulteriore contestazione al riguardo.

La difesa dell'I.N.A.I.L. pertanto esclude che possa ravvisarsi alcun contrasto fra l'art. 9, secondo comma, del R.D. n. 1765 del 1935, e le invocate norme costituzionali, e conclude chiedendo dichiararsi infondata la questione sollevata con l'ordinanza di rinvio.

5. - La difesa dell'I.N.A.I.L. ha depositato, nei termini, una memoria illustrativa nella quale preliminarmente si rileva che la Cassazione, nell'ordinanza di rinvio, in relazione all'ipotesi di interpretazione formulata a proposito dell'art. 9 impugnato, secondo cui lo stesso costituirebbe un caso di applicazione del principio del solve et repete, avrebbe fatto riferimento al quinto comma del successivo art. 17, che però é già stato dichiarato illegittimo con la sentenza n. 45 del 1962 della Corte. Onde, sotto il cennato profilo, la questione sarebbe manifestamente infondata.

La difesa dell'I.N.A.I.L. poi amplia e sviluppa le argomentazioni già svolte nelle precedenti deduzioni, mettendo particolarmente in luce che, secondo il sistema stabilito col decreto 17 agosto 1935, n. 1765, la preclusione del giudizio ordinario sarebbe limitata all'accertamento in concreto dell'obbligo assicurativo, senza investire gli altri elementi del rapporto assicurativo contributivo (tasso di tariffa, importo dei salari, ecc.), necessari per la determinazione dell'ammontare del debito contributivo.

Così ridimensionato, il principio sancito dalla norma impugnata ben potrebbe inquadrarsi nella disciplina dei termini processuali, che é elemento fondamentale di ogni procedura, e sarebbe comunque particolarmente rilevante nella specie, per la peculiare natura della materia degli infortuni sul lavoro, in cui si presenta come essenziale la necessità di definire con tutta la possibile prontezza l'esistenza dell'obbligo contributivo e del correlativo diritto di tutela.

La difesa insiste, pertanto, nelle già prese conclusioni.

 

 

Considerato in diritto

 

 

1. - La difesa dell'I.N.A.I.L. ha prospettato, nella memoria, la eventualità della dichiarazione di "manifesta infondatezza" della questione in controversia, secondo la prassi di questa Corte, specie riguardo all'art. 17 del R.D. 17 agosto 1935, per il già avvenuto riconoscimento della illegittimità costituzionale del principio del solve et repete dichiarata con la sentenza del 7 giugno 1962, n. 45, in relazione, appunto, agli artt. 9 e 17 del decreto stesso.

É necessario precisare che con la richiamata sentenza é stata dichiarata la illegittimità dei commi sesto dell'art. 9 e quinto dell'art. 17, nella parte in cui contengono il menzionato principio, mentre nel presente giudizio é in controversia la legittimità del comma secondo dell'art. 9: si tratta quindi di una diversa disposizione, e bisogna esaminare se questa sancisca o meno lo stesso principio o contenga una norma diversa. Ma se si trattasse dello stesso principio, sarebbe sempre necessaria una espressa pronuncia della Corte, come questa ha ritenuto con la sentenza n. 79 del 22 dicembre 1961.

2. - Si é ora dato per ammesso che la questione che nel presente giudizio é in controversia rifletta unicamente il disposto del secondo comma dell'art. 9: il che val quanto dire che non é in controversia l'art. 17. Vero é che nell'ordinanza della Corte di cassazione é citato quest'articolo: é citato nel dispositivo e nella parte motiva. Ma nel dispositivo é indicato quale semplice richiamo: "Visti gli artt. 9, secondo comma, e 17 R.D. 17 agosto 1935, n. 1765..."; e nella parte motiva vi si fa riferimento in relazione al secondo comma dell'art. 9, quando si ipotizza il caso in cui, ottenuto in base al detto comma, il titolo di liquidazione del credito dell'I.N.A.I.L., si ricorra poi alla procedura privilegiata esecutiva regolata dall'art. 17.

In realtà, la questione di legittimità costituzionale sollevata riguarda esclusivamente il detto secondo comma dell'art. 9, il quale stabilisce che, quando non sia stata fatta, ai sensi del precedente art. 8, la denuncia dei lavori all'istituto assicuratore, questo provvede a diffidare il datore di lavoro a fare la detta denuncia fissandogli il termine di dieci giorni per l'adempimento (primo comma), e aggiunge (secondo comma, in questione): "trascorso il detto termine, senza che sia stato presentato ricorso ai sensi delle disposizioni del presente articolo, il datore di lavoro é tenuto a versare il premio risultante dagli accertamenti compiuti dall'istituto assicuratore dall'inizio dei lavori". Si tratta di stabilire la portata di questa disposizione, se essa involga, ancora, il principio del solve et repete, o se, in caso diverso, essa negando, sempre in ipotesi, un ricorso all'autorità giudiziaria, violi il principio dell'art. 113 della Costituzione, che ammette, in tutti i casi, la tutela dei diritti e degli interessi dinanzi agli organi di giurisdizione, e conseguentemente violi anche gli artt. 24 e 3 della Costituzione.

3. - Così precisati i limiti della presente controversia, é da osservare che la Corte di cassazione, nella sua ordinanza, formula due ipotesi: o che la disposizione del secondo comma dell'art. 9 debba interpretarsi nel senso che il legislatore abbia voluto conferire all'Ente un titolo esecutivo ope legis, perché gli sia consentito di pretendere, anche in via privilegiata esecutiva, ai sensi dell'art. 17, il pagamento dei premi dovuti, e ritiene che in tal caso si verserebbe in una ipotesi di applicazione del principio del solve et repete dichiarato incostituzionale dalla Corte; o la si interpreta, come ivi accennato, nel senso che precluda al datore di lavoro la tutela giurisdizionale nel merito, con la conseguenza ulteriore di impedire al privato qualunque difesa del suo diritto, anche in ordine agli accertamenti qualitativi e quantitativi compiuti dall'I.N.A.I.L., prima o dopo la diffida, e ritiene che allora il dubbio della costituzionalità sarebbe più grave, in quanto verrebbe ad essere eliminata in toto la tutela del privato contro gli atti della pubblica Amministrazione, in violazione dei ricordati articoli della Costituzione.

Senonché, ad avviso di questa Corte, né l'una, né l'altra interpretazione si ritiene che possano adeguare la portata della disposizione in esame.

Il R.D., di cui si discute, 17 agosto 1935, n. 1765, stabilisce, in due diversi articoli, l'art. 9 e l'art. 17, due distinte procedure: l'una, quella dell'art. 9, per l'accertamento del debito, per l'assicurazione infortuni, a carico del datore di lavoro; l'altra, quella dell'art. 17, per la esazione del conseguente credito, a favore dell'istituto assicuratore, attraverso la procedura privilegiata della formazione dei ruoli, come per le imposte dirette.

Il datore di lavoro deve fare la sua denunzia (art. 8); segue uno stadio amministrativo per l'accertamento dell'obbligo e per la concreta sua definizione, con ricorso, entro determinati termini, all'Ispettorato del lavoro e poi al Ministero del lavoro; successivamente si ricorre all'autorità giudiziaria. Ma se il datore di lavoro non fa la denuncia, l'istituto assicuratore provvede agli accertamenti e fa la diffida al datore di lavoro, il quale può opporsi nel termine di dieci giorni, dando così luogo al procedimento amministrativo e, successivamente, giudiziario innanzi accennato. Se non si oppone entro il detto termine, egli é tenuto (comma secondo dell'art. 9) a versare il premio risultante dagli accertamenti compiuti dall'istituto assicuratore. Ora questo non é, contrariamente a quanto é detto nell'ordinanza di rinvio, applicazione del principio del solve et repete, che implica una preclusione all'azione giudiziaria, sotto il profilo della improcedibilità dell'azione, e, come ora si vedrà, non implica nemmeno eliminazione in toto della tutela giurisdizionale.

4. - La mancata opposizione alla diffida, contenente la indicazione delle somme pretese, per la mancata denuncia per l'assicurazione, in seguito agli accertamenti eseguiti, non porta ad altro che alla decadenza dalla speciale procedura amministrativa e giudiziale regolata dall'art. 9, e alla conseguente determinazione, per effetto del silenzio serbato dal datore di lavoro nel termine perentorio di dieci giorni, dell'obbligo di pagamento dei contributi assicurativi accertati dall'istituto. Quest'obbligo di pagamento non é applicazione del principio del solve et repete, ma semplice conseguenza dell'altro principio della esecutorietà dell'atto amministrativo che, per la mancata opposizione del datore di lavoro, si é venuto a formare. Ciò allo stesso modo come, caduto il solve et repete in materia di proponibilità dell'azione giudiziaria per questioni di imposta, rimane sempre la facoltà della riscossione dell'imposta da parte dell'Amministrazione, anche se si esperisca dall'interessato un'azione amministrativa o giudiziaria sull'an e il quantum dell'imposta stessa.

La procedura del preventivo ricorso in via amministrativa, così com'é regolata dall'art. 9, tende ad evitare, per quanto é possibile, le liti giudiziarie, laboriose e dispendiose, e viene meglio incontro alle esigenze collettive di celerità e scioltezza nella soluzione delle controversie in esame. Del resto tale procedura, anche con termini perentori, necessari per la rapida definizione delle questioni insorte, é applicata con successo in moltissime altre materie. Può essere configurata in modo diverso la natura processuale della obbligatorietà del preventivo esperimento del procedimento amministrativo: o come un obbligo preliminare da cui dipenda la trattazione e decisione del merito, o come un presupposto giurisdizionale di carattere generale, o come condizione di proponibilità della domanda; ma é certo che, anche nello speciale modo come é regolato il procedimento dell'articolo 9, la mancanza di opposizione alla diffida rende semplicemente concreto l'atto amministrativo di liquidazione dei premi ed accessori dell'assicurazione, accertati a seguito della mancata denuncia, abilita l'istituto a pretenderne il pagamento ed opera il trasferimento alla sede esecutiva delle ragioni che il datore di lavoro poteva opporre e non oppose in sede di accertamento ex art. 9. Ciò é confermato dalla possibilità del ricorso contro l'applicazione delle tariffe dei premi (tasso di premio), che é parte essenziale di quel pagamento, alla speciale commissione di cui agli artt. 14 e seguenti del R. D. 25 novembre 1940, n. 1732; ma ancora, e più esplicitamente, dal più volte richiamato art. 17 del decreto in esame. Questo infatti, proprio nella sede esecutiva, anche quando i crediti per le assicurazioni - che sono esigibili, come sopra si é ricordato, con le norme in vigore per la riscossione delle imposte dirette - vengono iscritti a ruolo, ammette il ricorso contro la formazione dei ruoli, con un procedimento se non identico, parallelo a quello dell'art. 9: si ha prima il ricorso amministrativo e poi l'azione giudiziaria, per esperire la quale, per effetto della citata sentenza di questa Corte,

n. 45 del 7 giugno 1962, non si applica più il solve et repete. In occasione quindi del procedimento nella sede esecutiva, potranno farsi valere contro la liquidazione del credito quale é risultato a seguito della mancata opposizione ex art. 9, secondo comma, tutte quelle ragioni che prima non si sono fatte valere.

Se pertanto, da un lato, la speciale procedura dell'art. 9 é diretta a costituire il titolo di liquidazione del credito, per l'istituto assicuratore, e non é, in definitiva, eliminata la tutela del privato, deve riconoscersi non sussistente la paventata violazione dei ricordati articoli della Costituzione.

5. - Sembra, infine, che la Cassazione, nella sua ordinanza, abbia trovato motivo di dubbio della costituzionalità del secondo comma dell'art. 9 nella brevità del termine - che qualificava "termine brevissimo" - di dieci giorni per produrre il ricorso all'Ispettorato del lavoro nella fase amministrativa di accertamento e liquidazione del debito dell'assicurazione. Su tale dubbio é da osservare, sul terreno della costituzionalità, che la questione si risolve nell'accertare se, in realtà, la ristrettezza del tempo concesso sia tale da rendere l'esercizio del diritto "estremamente difficile", secondo l'espressione adottata da questa Corte in un caso consimile (

sentenza n. 93 del 13 novembre 1962). "La congruità del termine - ebbe ad affermare la Corte - deve essere valutata tanto in rapporto all'interesse del soggetto che ha l'onere di compiere un certo atto per salvaguardare i propri diritti, quanto alla funzione assegnata all'istituto nel sistema dell'intero ordinamento giuridico ". Il che si attaglia proprio al caso in esame in cui, come di sopra si é accennato, la rapidità di una procedura amministrativa é richiesta per dare sistemazione a numerosi rapporti, nell'interesse reciproco delle parti interessate, in una materia dalla quale non esula un interesse pubblico.

 

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

dichiara non fondata la questione proposta con l'ordinanza del 2 luglio 1962 dalla Seconda Sezione civile della Corte di cassazione sulla legittimità costituzionale dell'art. 9, secondo comma, del R. D. 17 agosto 1935, n. 1765, in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione.

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 1963.

GASPARE AMBROSINI, PRESIDENTE

GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 22 giugno 1963.