Sentenza n. 129 del 2025

SENTENZA N. 129

ANNO 2025

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Giovanni AMOROSO;

Giudici: Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Massimo LUCIANI, Maria Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Pesaro, nel procedimento penale a carico di E. A., con ordinanza del 30 ottobre 2024, iscritta al n. 216 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2024.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nella camera di consiglio del 7 luglio 2025 la Giudice relatrice Maria Alessandra Sandulli;

deliberato nella camera di consiglio del 7 luglio 2025.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 30 ottobre 2024, iscritta al n. 216 del registro ordinanze 2024, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Pesaro ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 7, del decreto legislativo delegato 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), «nella parte in cui (diversamente da quanto previsto dall’art. 13, comma 3-quater, con riferimento all’analoga situazione processuale del soggetto nei cui confronti sia stata eseguita l’espulsione amministrativa ai sensi dell’art. 13, comma 3), non prevede che nei confronti dello straniero sottoposto a procedimento penale, nei casi previsti dal comma 5, acquisita la prova dell’avvenuta esecuzione del decreto di espulsione e rilevata l’insussistenza di inderogabili esigenze processuali, se non è ancora stato emesso il decreto che dispone il giudizio, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere».

2.– Il giudice rimettente espone di dover decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio, esercitata dal pubblico ministero nei confronti di E. A., cittadino nigeriano imputato del reato punito dall’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), per aver posto in essere plurime condotte di detenzione illecita e cessione reiterata di cocaina. All’udienza, prima dell’inizio della discussione, l’imputato era stato dichiarato assente, in quanto espulso dal territorio italiano in esecuzione del decreto, con il quale il Magistrato di sorveglianza di Ancona, avendo riscontrato i presupposti richiesti dall’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione, ne aveva ordinato l’espulsione quale sanzione alternativa alla pena residua della reclusione, relativa a un diverso procedimento esecutivo avviato dalla Procura della Repubblica presso lo stesso Tribunale. Il pubblico ministero e il difensore, quindi, avevano chiesto l’emissione di sentenza di non luogo a procedere, invocando l’applicazione analogica dell’art. 13, comma 3-quater, dello stesso testo unico.

3.– Sulla rilevanza, il giudice a quo osserva che l’accoglimento della questione prospettata consentirebbe all’imputato di beneficiare della speciale declaratoria di improcedibilità dell’azione penale rispetto alla prosecuzione del processo a suo carico, tenuto conto che l’ordine di espulsione, impartito dal Magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 16, comma 7, t.u. immigrazione, era stato definitivamente confermato con ordinanza collegiale ed era stato eseguito.

4.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente esclude di poter procedere a una interpretazione costituzionalmente orientata atteso che la Corte di cassazione ha costantemente affermato che l’art. 13, comma 3-quater, t.u. immigrazione, facendo espresso riferimento ai commi 3, 3-bis e 3-ter, può trovare applicazione solo nei casi di espulsione amministrativa e non è estensibile per analogia alle ipotesi di espulsione sostitutiva o alternativa alla detenzione.

5.– L’ordinanza, quindi, ripercorre la giurisprudenza di questa Corte e della Corte di legittimità relativa alla ratio e alla portata applicativa del suddetto art. 13, individuato quale tertium comparationis, al fine del vaglio di compatibilità con il principio di uguaglianza sostanziale e di ragionevolezza delle scelte del legislatore in relazione all’art. 3 Cost.

Si ricorda che, nella formulazione originaria, l’indicato art. 13 nulla disponeva con riferimento alla procedibilità dell’azione penale per eventuali reati commessi dall’immigrato irregolare. Sicché, l’intervenuta espulsione dello straniero e la sua conseguente assenza dal territorio italiano non costituiva un impedimento alla procedibilità dell’azione penale, che seguiva le regole ordinarie. L’esercizio del diritto di difesa era garantito dall’art. 17 t.u. immigrazione, che, anche attualmente, consente allo straniero, sottoposto a procedimento penale, di rientrare in Italia per il tempo strettamente necessario a partecipare al giudizio o al compimento di atti per i quali è necessaria la sua presenza.

Espone, poi, il rimettente che, successivamente, con le modifiche introdotte dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), la disciplina di contrasto all’immigrazione irregolare è stata inasprita, favorendo il più possibile l’espulsione dell’immigrato irregolare imputato di un reato e, nello stesso tempo, limitandone il rientro per presenziare al processo a suo carico. Infatti, da un lato, sono state ridimensionate le «inderogabili esigenze processuali» che possono impedire il rilascio del nulla osta all’espulsione da parte dell’autorità giudiziaria, salvi comunque i casi del particolare rilievo dell’interesse della persona offesa, e, dall’altro, è stato introdotto all’art. 13 t.u. immigrazione il comma 3-quater, il quale stabilisce che il giudice, acquisita la prova dell’avvenuta esecuzione del decreto di espulsione, se non è stato ancora emesso il provvedimento che dispone il giudizio, pronuncia una sentenza di non luogo a procedere. Inizialmente, tale meccanismo aveva un’operatività più limitata, poiché il comma 3-sexies del medesimo art. 13 impediva l’esecuzione dell’espulsione quando il procedimento penale riguardava reati particolarmente gravi, ossia uno o più dei delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, nonché dall’art. 12 t.u. immigrazione. Era, quindi, lo stesso legislatore che, nel bilanciamento tra la ritenuta esigenza di tenere fuori dal territorio dello Stato l’immigrato irregolare già espulso e il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, affermava la prevalenza di quest’ultimo in presenza di reati particolarmente gravi e dei reati tipici dell’immigrazione. Il comma 3-sexies è stato, tuttavia, abrogato dall’art. 3, comma 7, del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, nella legge 31 luglio 2005, n. 155.

6.– L’ordinanza rimarca, quindi, che il comma 3-quater ha introdotto una fattispecie di sopravvenuta improcedibilità dell’azione penale per il reato commesso nel territorio dello Stato dall’immigrato irregolare, allorché l’esecuzione della sua espulsione amministrativa intervenga prima dell’emissione del decreto che dispone il giudizio, sempre che non sussistano le condizioni ostative previste dal comma 3 del medesimo art. 13 e non risulti prevalente l’interesse della persona offesa. Osserva, infatti, che non si tratterebbe di una sorta di immunità dalla giurisdizione, bensì della risultante di un bilanciamento, operato dal legislatore, tra l’esigenza di limitare il rientro dell’immigrato irregolare nel territorio dello Stato una volta che l’espulsione è stata eseguita e la necessità che i reati da esso commessi nel medesimo territorio siano puniti (richiamando, a tal fine, l’ordinanza n. 142 del 2006 e la sentenza n. 270 del 2019 di questa Corte, nonché Corte di cassazione, quinta sezione penale, sentenza 7 maggio-12 luglio 2021, n. 26519).

7.– Il rimettente passa, poi, a ricostruire l’istituto dell’espulsione alternativa alla detenzione, prevista dall’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione, ripercorrendo la consolidata giurisprudenza di legittimità, stabilmente assestata nel ritenere che essa abbia natura sostanzialmente amministrativa e non trattamentale, essendo finalizzata alla diminuzione del sovraffollamento carcerario e restando, perciò, estranea al finalismo rieducativo (si richiama il filone interpretativo espresso dall’ordinanza di questa Corte n. 226 del 2004, nel senso dell’estraneità di questo strumento al sistema delle misure alternative alla detenzione, nonché Corte di cassazione, prima sezione penale, sentenza 14 settembre 2021-10 febbraio 2022, n. 4645). In particolare, tale provvedimento è adottato dal magistrato di sorveglianza nei confronti dello straniero condannato (anche con sentenza non definitiva) per uno dei reati previsti dal testo unico in materia di immigrazione e dall’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., fatte salve una serie di eccezioni espressamente indicate, e destinato a scontare una pena detentiva non superiore a due anni, previo riscontro delle condizioni che, ai sensi dell’art. 13, comma 2, t.u. immigrazione, legittimano l’espulsione amministrativa. La pena si estingue dopo dieci anni, a condizione che lo straniero non sia rientrato illegittimamente nel territorio dello Stato, poiché in tal caso, in forza dell’art. 16, comma 8, lo stato di detenzione è ripristinato e riprende l’esecuzione della pena.

Dal complesso delle disposizioni dettate dall’indicato art. 16, il rimettente desume la natura ibrida dell’espulsione in esame, osservando che essa condivide con le ordinarie misure alternative alla detenzione il solo carattere di intervento modificativo della pena nella fase dell’esecuzione penitenziaria, ma è subordinata ai medesimi presupposti dell’espulsione amministrativa, trattandosi di una mera anticipazione della stessa, cui dovrebbe, comunque, darsi corso al termine dell’esecuzione della pena.

8.– In particolare, dalla rilevata natura formalmente giurisdizionale, ma sostanzialmente amministrativa, della suddetta misura, il rimettente evince che l’art. 16, comma 7, nella parte in cui non prevede che l’intervenuta esecuzione della stessa determini l’improcedibilità dell’azione penale nei confronti del suo destinatario, «di fatto, consente un trattamento differenziato di situazioni processuali sostanzialmente identiche», con conseguente obliterazione del bilanciamento, operato dal legislatore, tra l’esigenza di limitare il rientro dell’immigrato irregolare nel territorio dello Stato una volta eseguita l’espulsione (stante anche la concreta difficoltà di dar seguito ai rimpatri forzati) e la necessità che i reati commessi dallo straniero nello stesso territorio siano puniti. Da cui la dedotta violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza tutelato dall’art. 3 Cost.

9.– A sostegno della ritenuta illegittimità costituzionale, il giudice a quo pone il sostanziale parallelismo tra le rationes della condizione di procedibilità atipica introdotta dall’art. 13, comma 3-quater, t.u. immigrazione e i casi di espulsione previsti dal successivo art. 16, attesa la coincidenza dei presupposti e delle garanzie procedurali, evidenziando che l’auspicato intervento additivo non si risolverebbe in un’inammissibile invasione degli spazi di discrezionalità riservati al legislatore, trattandosi di una soluzione ricavabile in termini certi e inequivoci dal dato normativo vigente. L’intervento additivo, infatti, consisterebbe nell’inserire anche nell’art. 16 la «possibilità di emettere una sentenza di improcedibilità (temporanea e sottoposta a una sorta di “condizione risolutiva”) in termini sovrapponibili a quanto espressamente previsto dall’art. 13, comma 3-quater». La prospettata soluzione, peraltro, ad avviso del rimettente, non determinerebbe alcun vuoto di tutela in caso di reingresso illegale dello straniero espulso prima del termine decennale dall’esecuzione dell’espulsione, poiché tale evenienza è disciplinata espressamente dal comma 13 del medesimo art. 13 (che punisce il reingresso con la reclusione da uno a quattro anni) e dal comma 8 dell’art. 16 (che dispone il ripristino dello stato di detenzione e la ripresa dell’esecuzione della pena). Processualmente, poi, troverebbe applicazione l’art. 345 cod. proc. pen., secondo cui la sentenza di non luogo a procedere, anche se non più impugnabile, non impedisce il nuovo esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona, qualora sopravvenga la condizione di procedibilità originariamente mancante, da individuare appunto nel reingresso illegittimo del soggetto espulso nel territorio dello Stato.

10.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione fosse dichiarata inammissibile o non fondata.

Ad avviso dell’interveniente, la questione sarebbe inammissibile, poiché il giudice rimettente avrebbe invocato quale regola processuale oggetto della richiesta pronuncia additiva, l’art. 13, comma 3-quater, t.u. immigrazione, che non potrebbe trovare comunque applicazione nel caso concreto. Per costante giurisprudenza della Corte di cassazione, infatti, la causa di non procedibilità ivi prevista si applica solo nel procedimento avente a oggetto il medesimo fatto, all’esito del quale l’espulsione è stata disposta ed eseguita, non precludendo l’inizio di altri procedimenti penali per fatti eventualmente commessi dallo straniero prima dell’avvenuta espulsione (si richiamano, a tal fine, Corte di cassazione, seconda sezione penale, sentenza 31 maggio-26 giugno 2018, n. 29396 e terza sezione penale, sentenza 4 novembre-11 dicembre 2015, n. 48948). Il giudice rimettente avrebbe, invece, omesso di confrontarsi con il suesposto orientamento, seppur influente sulla rilevanza della prospettata questione, atteso che il procedimento a quo ha per oggetto un fatto di reato diverso da quello in relazione al quale è stata disposta ed eseguita l’espulsione.

La questione sarebbe, in ogni caso, non fondata, poiché, pur trattandosi di misure espulsive di natura amministrativa (come affermato dalla costante giurisprudenza di legittimità) e pur essendo assistite da analoghe, seppur non identiche, garanzie procedurali, i due istituti in esame sarebbero profondamente differenti. Invero, l’espulsione di cui all’art. 13, comma 2, t.u. immigrazione è una misura amministrativa applicata a prescindere dal compimento di qualsivoglia fatto di penale rilevanza, mentre l’espulsione ai sensi del successivo art. 16, comma 5, essendo una misura atipica alternativa alla detenzione, presuppone non solo il compimento di un precedente fatto di reato, ma altresì la precedente condanna dello straniero. Trattandosi, quindi, di due istituti destinati a incidere su situazioni profondamente diverse, l’una riferita allo straniero irregolare e l’altra allo straniero irregolare condannato a una pena detentiva, non sarebbe né irragionevole né arbitraria la scelta del legislatore di rinunciare alla celebrazione del processo penale solo nel primo caso, atteso il disvalore e la pericolosità sociale che la seconda categoria di soggetti ha già mostrato.

Considerato in diritto

1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Pesaro dubita della legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 7, t.u. immigrazione, concernente le modalità di esecuzione dell’espulsione alternativa alla detenzione (disciplinata dal comma 5), nella parte in cui non prevede che, ove sia pendente altro procedimento penale a carico dello straniero espulso e non sia stato ancora emesso il provvedimento che dispone il giudizio, il giudice penale emetta sentenza di non luogo a procedere, quale conseguenza dell’intervenuto allontanamento dell’imputato dal territorio italiano.

Il rimettente, in particolare, dovendo decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio di un cittadino straniero irregolare, dichiarato assente in quanto espulso in esecuzione di un decreto emesso dal magistrato di sorveglianza, ai sensi dell’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione, in relazione a un diverso fatto di reato, ravvisa una ingiustificata disparità di trattamento rispetto all’analoga situazione in cui versa lo straniero irregolare allontanato dal territorio italiano con l’espulsione amministrativa ordinaria disposta ai sensi dell’art. 13, comma 2, del medesimo testo unico.

In quest’ultimo caso, infatti, il comma 3-quater dello stesso art. 13 stabilisce che il giudice emetta sentenza di non luogo a procedere, non dando, quindi, ulteriore corso al processo penale.

L’art. 13, comma 3-quater, tuttavia, nell’introdurre tale speciale condizione di sopravvenuta non procedibilità dell’azione penale, ne limita l’ambito di applicazione all’ipotesi in cui lo straniero sia stato espulso ai sensi dei commi 3, 3-bis e 3-ter dello stesso articolo, ossia alle ipotesi di espulsione amministrativa ordinaria, disposta in pendenza di procedimento penale ed eseguita previo nulla osta dell’autorità giudiziaria.

Esclusa, quindi, dal dato testuale una eventuale applicazione analogica, il giudice rimettente evidenzia che le due tipologie di provvedimento espulsivo sarebbero accomunate dalla natura amministrativa, considerato che la misura dell’espulsione alternativa alla detenzione, essendo subordinata alla condizione che lo straniero si trovi in taluna delle situazioni che costituiscono il presupposto dell’ordinaria espulsione amministrativa, avrebbe la precipua finalità di limitare il numero di detenuti stranieri presenti negli istituti penitenziari italiani, anticipando il provvedimento espulsivo disciplinato dall’art. 13, comma 2, t.u. immigrazione di cui già sussistono le condizioni e al quale, del resto, dovrebbe darsi comunque corso al termine dell’esecuzione della pena detentiva.

Dal confronto tra i due istituti espulsivi, quindi, emergerebbe la violazione del principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost, essendo irragionevole che, a fronte di due situazioni omogenee, l’esito del bilanciamento – tra l’esigenza di limitare il rientro dell’immigrato irregolare nel territorio dello Stato, una volta che l’espulsione è stata eseguita, e la necessità che i reati commessi dallo straniero nel territorio dello Stato siano effettivamente puniti – sia differente e porti a far prevalere, in un caso, la prima esigenza e, nell’altro, la seconda. Ciò in quanto, anche per l’espulsione di cui all’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione l’esigenza di limitare il rientro in Italia dello straniero espulso, al fine di esercitare il diritto di difesa nel giudizio, dovrebbe prevalere rispetto alla necessità che il reato venga punito, attesa la sovrapponibilità delle due ipotesi espulsive.

2.– In via preliminare, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, per difetto di motivazione sulla rilevanza perché il giudice rimettente avrebbe omesso di confrontarsi con l’orientamento della Corte di cassazione secondo il quale la causa di non procedibilità, prevista dall’art. 13, comma 3-quater, t.u. immigrazione, sarebbe applicabile solo nel procedimento avente a oggetto il medesimo fatto in relazione al quale, previo nulla osta giudiziario, l’espulsione è stata eseguita, essendo, quindi, ininfluente nel procedimento a quo, che riguarda un fatto di reato diverso da quello per il quale l’imputato è stato espulso.

Per costante giurisprudenza costituzionale, ai fini dell’ammissibilità delle questioni è sufficiente che la norma censurata sia applicabile nel giudizio a quo e che la pronuncia di accoglimento possa influire sull’esercizio della funzione giurisdizionale (tra le altre, sentenze n. 247 e n. 215 del 2021), quantomeno per il profilo del percorso argomentativo che sostiene la decisione del processo principale (ex multis, sentenze n. 164 del 2023, n. 249 e n. 154 del 2021; ordinanza n. 194 del 2022). Il giudizio sulla rilevanza, quindi, è riservato al rimettente e, rispetto a esso, questa Corte effettua un controllo meramente esterno, limitato ad accertare che la motivazione non sia implausibile, non sia palesemente erronea e non sia contraddittoria (sentenze n. 160 e n. 139 del 2023, n. 199 e n. 192 del 2022 e n. 32 del 2021), senza spingersi fino a un esame autonomo degli elementi che hanno portato il giudice a quo a determinate conclusioni, potendo sindacare tale valutazione solo se essa, a prima vista, appaia assolutamente priva di fondamento.

Nel caso in esame, il giudice rimettente prende in considerazione l’art. 13, comma 3-quater, t.u. immigrazione come tertium comparationis, in relazione al quale motiva l’asseritamente ingiustificata disparità di trattamento. Viene, infatti, richiesta una pronuncia di tipo additivo, che, integrando il comma 7 dell’art. 16 del medesimo testo unico, legittimi il giudice a emettere sentenza di non luogo a procedere anche quando il soggetto sottoposto a procedimento penale sia un cittadino straniero nei cui confronti – prima del decreto che dispone il giudizio – sia stato eseguito un provvedimento di espulsione ai sensi del comma 5 dello stesso articolo, sempre che non sussistano inderogabili esigenze processuali.

La condivisibilità o meno di tale conclusione attiene, quindi, al merito, senza ostare al riconoscimento del presupposto della rilevanza e, dunque, non incide sull’ammissibilità della questione.

L’ordinanza, peraltro, ha correttamente richiamato il costante orientamento della Corte di cassazione che ha escluso la possibilità di una lettura estensiva del citato art. 13, comma 3-quater, t.u. immigrazione, per ricomprendervi anche la fattispecie espulsiva di cui all’art. 16, comma 5, ostandovi il chiaro dato testuale della prima norma, che espressamente limita l’applicazione della condizione di improcedibilità ai casi previsti dai commi 3, 3-bis e 3-ter dello stesso articolo.

In presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice a quo ha la facoltà di assumere tale interpretazione in termini di “diritto vivente” e di farne il presupposto interpretativo su cui richiedere il controllo del rispetto dei parametri costituzionali, anche ai soli fini della rilevanza della questione, senza che gli si possa addebitare di non aver prospettato altra interpretazione per escluderla.

3.– Nel merito, la questione non è fondata.

Il dubbio del giudice rimettente si fonda sull’assunto che l’espulsione alternativa alla detenzione, di cui all’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione sia un istituto sostanzialmente assimilabile all’espulsione amministrativa prevista dall’art. 13, comma 2 del medesimo testo unico.

È utile segnalare che il t.u. immigrazione, nel disciplinare gli istituti finalizzati ad allontanare dal territorio nazionale i cittadini di Paesi terzi (diversi dai cittadini dell’Unione europea), prevede molteplici provvedimenti espulsivi.

In particolare, per quanto qui interessa, l’art. 13, comma 2, dell’indicato testo unico disciplina le espulsioni amministrative prefettizie, che costituiscono lo strumento ordinario di allontanamento e che possono essere disposte, con decreto motivato immediatamente esecutivo, per irregolarità dell’ingresso o del soggiorno in Italia o per la pericolosità sociale dello straniero. L’immediata esecutività del provvedimento comporta l’accompagnamento immediato di quest’ultimo alla frontiera a mezzo della forza pubblica, previa convalida da parte dell’autorità giudiziaria ai sensi dei commi 4, 4-bis e 5-bis, dello stesso art. 13.

Di regola, la condizione di persona sottoposta a indagine o di imputato in un procedimento penale non costituisce elemento ostativo all’esecuzione del provvedimento di espulsione amministrativa. Prevalgono, infatti, non solo le esigenze pubblicistiche sottese alla normativa sugli allontanamenti, ma anche la necessità di non creare, tra gli stranieri irregolarmente presenti nel territorio italiano, posizioni di ingiustificato vantaggio per coloro che risultano coinvolti in una vicenda penale.

A tal fine, il t.u. immigrazione contiene una dettagliata disciplina dei rapporti tra l’esecuzione dell’espulsione amministrativa e il procedimento penale pendente a carico dello straniero che ne sia destinatario, incentrata sugli istituti, previsti dagli artt. 13 e 17, del nulla osta giudiziario, dell’autorizzazione al reingresso dello straniero espulso per l’esercizio del diritto di difesa e dell’improcedibilità dell’azione penale per avvenuta espulsione.

Più in dettaglio, nella fase che precede l’esecuzione del provvedimento di espulsione, quando lo straniero è sottoposto a procedimento penale e non si trova in stato di custodia cautelare in carcere, l’autorità amministrativa, secondo quanto disposto dai commi 3, 3-bis e 3-ter del citato art. 13, deve richiedere il nulla osta all’autorità giudiziaria procedente in sede penale, che può negarlo solo in presenza di inderogabili esigenze processuali, valutate in relazione all’accertamento della responsabilità di eventuali concorrenti nel reato o imputati in procedimenti per reati connessi, e all’interesse della persona offesa.

Una volta concesso il nulla osta (o formatosi il silenzio assenso sulla relativa richiesta) ed eseguita l’espulsione, se nel procedimento penale è già stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio o altro provvedimento equipollente si applica l’art. 17 t.u. immigrazione, che consente allo straniero espulso di rientrare in Italia, se munito di un’autorizzazione, per il solo tempo necessario all’esercizio del diritto di difesa, ai fini della partecipazione al giudizio o del compimento di atti per i quali è necessaria la sua presenza.

Ove, invece, non sia stato già instaurato il rapporto processuale, non essendo stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio o altro provvedimento equipollente, trova applicazione il comma 3-quater del medesimo art. 13, che impone al giudice di pronunciare sentenza di non luogo a procedere, non dando ulteriore corso al procedimento.

Nella sentenza n. 270 del 2019, questa Corte, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del suindicato comma 3-quater nella parte in cui non si riferiva «anche ai casi di decreto di citazione diretta a giudizio ai sensi dell’art. 550 cod. proc. pen., quando l’espulsione dell’imputato straniero sia eseguita prima che sia stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio», ha qualificato l’istituto come «una sopravvenuta condizione di non procedibilità dell’azione penale per il reato commesso nel territorio dello Stato dall’immigrato irregolare [che opera] allorché l’esecuzione della sua espulsione (amministrativa) intervenga prima dell’emissione del provvedimento che dispone il giudizio». Tale regola processuale, che rientra nell’ambito degli interventi normativi volti a un complessivo inasprimento della disciplina di contrasto all’immigrazione irregolare, non è volta a costituire una sorta di immunità dello straniero dalla giurisdizione, ma, come ricordato anche dal giudice rimettente, è «la risultante di un bilanciamento, operato dal legislatore, tra l’esigenza di limitare il rientro dell’immigrato irregolare nel territorio dello Stato una volta che l’espulsione è stata eseguita (stante anche la difficoltà concreta di dar seguito ai rimpatri forzati) e la necessità che i reati commessi dallo straniero nel territorio dello Stato siano puniti». Si tratta, invero, di un’improcedibilità «temporanea e sottoposta a una sorta di “condizione risolutiva”, nel senso che, se è poi violato l’obbligo di reingresso nel territorio dello Stato per il periodo di tempo stabilito dal comma 3-quinquies dello stesso articolo, si applica l’art. 345 cod. proc. pen. e l’azione penale torna a essere procedibile».

Passando a esaminare la fattispecie espulsiva di cui all’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione, giova ricordare che essa è stata introdotta dalla legge n. 189 del 2002 con il principale obiettivo di ridurre la popolazione carceraria, rappresentata in numero consistente da soggetti di nazionalità non italiana.

La misura, in questo caso, è disposta dal magistrato di sorveglianza nei confronti di cittadini stranieri che si trovano in stato di detenzione in carcere per scontare una pena, anche residua, non superiore a due anni, salvo che essa non sia stata irrogata per i delitti previsti dall’art. 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, t.u. immigrazione, o per uno o più delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., fatta eccezione per quelli consumati o tentati di cui agli artt. 628, comma 3, e 629, comma 2, cod. pen. È, inoltre, necessario che il detenuto straniero sia identificato e sia irregolare sul territorio italiano, trovandosi nelle condizioni previste dall’art. 13, comma 2, t.u. immigrazione che legittimano l’espulsione amministrativa ordinaria.

L’esecuzione di tale tipo di espulsione comporta la sospensione dell’esecuzione della pena e, successivamente, anche la sua estinzione ove lo straniero non rientri in Italia per almeno dieci anni. In caso contrario, ai sensi dell’art. 16, comma 8, del medesimo testo unico lo stato di detenzione è ripristinato e l’esecuzione della pena riprende.

4.– Tanto premesso, è vero che, secondo il costante orientamento di questa Corte e della Corte di cassazione, fondato sui testuali rinvii operati dallo stesso art. 16, l’espulsione alternativa alla detenzione ha natura amministrativa al pari dell’espulsione prefettizia disciplinata dall’art. 13, comma 2, e presenta elementi comuni alle altre misure espulsive disposte dall’autorità amministrativa, quali: a) l’adozione del provvedimento in forma di decreto motivato; b) le modalità di esecuzione, affidate al questore e non al pubblico ministero; c) gli effetti, ossia l’allontanamento dal territorio nazionale e l’obbligo di non farvi rientro entro un certo termine. Del resto, proprio la natura amministrativa consente di distinguere l’istituto espulsivo in questione dalle altre misure alternative alla detenzione, non innestandosi nel percorso trattamentale finalizzato alla rieducazione e risocializzazione del condannato, ma configurandosi, piuttosto, come un’anticipazione dell’espulsione amministrativa, di cui all’indicato art. 13, comma 2, che comunque sarebbe stata disposta al termine dell’espiazione della pena detentiva.

Tuttavia, pur essendo accomunati dalla medesima natura amministrativa, i due istituti espulsivi presi in considerazione dal giudice rimettente non sono completamente sovrapponibili, presentando rilevanti aspetti di diversità, che riguardano in particolare tre profili.

Un primo profilo attiene agli effetti. Nella recente sentenza n. 73 del 2025, questa Corte ha sottolineato che l’espulsione di cui all’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione pur avendo natura amministrativa, anticipando gli effetti dell’espulsione prefettizia per l’irregolarità del soggiorno e condividendone i presupposti, comporta anche la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva in carcere e, per questo motivo, deve essere adottata dal magistrato di sorveglianza e non dal prefetto. I due profili si integrano, dunque, in una «fattispecie complessa», che produce effetti ulteriori, e non prettamente amministrativi, rispetto all’ordinaria espulsione amministrativa, potendo, come visto, comportare anche l’estinzione della pena.

Tali peculiarità si ricollegano al secondo profilo di differenziazione, costituito dalla particolare platea dei destinatari e dalla situazione in cui costoro si trovano. Essa, infatti, non opera per qualsiasi cittadino straniero irregolare, ma solo per quelli che sono ristretti in carcere per l’espiazione di una pena, all’esito di una sentenza definitiva di condanna, anche residua, non superiore a due anni.

La misura, dunque, rivolgendosi esclusivamente a soggetti che già hanno manifestato un profilo di pericolosità sociale, definitivamente accertato dal giudice penale, non è completamente sovrapponibile all’ordinaria espulsione amministrativa, che invece riguarda soggetti stranieri sui quali non gravano condanne definitive di tal tipo.

Un ulteriore elemento di distinzione attiene al perimetro applicativo della condizione di improcedibilità prevista dall’art. 13, comma 3-quater, t.u. immigrazione. Come sopra osservato e come chiarito anche dalla Corte di cassazione, infatti, la sentenza di non luogo a procedere, ivi disciplinata, si pone quale segmento conclusivo del procedimento penale eventualmente pendente per il medesimo fatto in relazione al quale sia stata disposta ed eseguita l’espulsione e non preclude l’inizio di altri procedimenti penali per fatti precedentemente commessi. Diversamente, si perverrebbe al risultato irragionevole di ritenere che lo straniero espulso benefici di una generale condizione di non procedibilità per qualsiasi reato, anche particolarmente grave, commesso prima della propria espulsione (Cass., n. 29396 del 2018 e, nella stessa linea, Corte di cassazione, terza sezione penale, sentenza 20 aprile 2023-22 febbraio 2024, n. 7713).

In tal senso, del resto, è chiaro il testo dell’art. 13, comma 3-quater, t.u. immigrazione che riferisce espressamente la condizione di improcedibilità ai casi previsti dai commi 3, 3-bis e 3-ter, che appunto disciplinano le ipotesi in cui, nei confronti dello straniero espellendo, penda un procedimento penale e, previo nulla osta dell’autorità giudiziaria, egli sia stato effettivamente espulso. Peraltro, non va trascurato che la legge n. 189 del 2002 è intervenuta contestualmente su entrambi gli articoli – 13 e 16 – considerati, cosicché l’esplicito riferimento, nell’art. 13, comma 3-quater, ai casi previsti dai commi 3, 3-bis e 3-ter, appare dal legislatore voluto, come appare voluta la mancanza di richiami ad altre disposizioni e, segnatamente, all’art. 16 del medesimo testo unico.

La sequenza procedimentale tratteggiata, e interamente definita, dall’art. 13, nell’ambito della quale è destinato a operare il suo comma 3-quater, non può evidentemente verificarsi ove lo straniero sia destinatario non già dell’ordinaria espulsione amministrativa di cui all’art. 13, comma 2, bensì dell’espulsione alternativa alla detenzione di cui all’art. 16, comma 5, essendo diversi i rispettivi presupposti applicativi.

Quest’ultima fattispecie espulsiva, infatti, interviene quando il processo penale è già concluso in via definitiva e lo straniero si trova nella fase di espiazione della pena, mentre la condizione di improcedibilità per avvenuta espulsione è destinata a operare in una fase ben anteriore e, precisamente, prima che sia emesso il provvedimento che dispone il giudizio o altro provvedimento equipollente o il decreto di citazione diretta a giudizio.

Sicché, una pronuncia additiva, nei termini indicati dal giudice a quo, comporterebbe considerevoli ricadute sul perimetro applicativo della condizione di improcedibilità in esame, poiché ne estenderebbe l’operatività a procedimenti penali per reati diversi da quelli per i quali il provvedimento espulsivo è stato disposto ed eseguito.

Non va, peraltro, trascurato che la regola di settore concernente la sopravvenuta improcedibilità dell’azione penale, quale conseguenza dell’avvenuta esecuzione dell’espulsione dell’immigrato irregolare, risulta attualmente formulata in termini generali, con riferimento a tutti i reati, essendo venuta meno l’eccezione, originariamente contemplata dal comma 3-sexies dello stesso art. 13, per reati particolarmente gravi.

Sussiste, dunque, il rischio, già paventato dalla Corte di cassazione e che questa Corte condivide, di giungere al risultato irragionevole di ritenere lo straniero espulso beneficiato da una generale condizione di non procedibilità per qualsiasi fatto di reato, anche particolarmente grave, precedentemente commesso.

È vero che nell’ordinanza di rimessione si afferma che la valutazione sottesa al rilascio del nulla osta potrebbe essere effettuata dallo stesso giudice che deve decidere sul rinvio a giudizio dello straniero espulso ai sensi dell’art. 16, comma 5, sulla base dei medesimi presupposti richiesti dall’art. 13, comma 3, cioè l’assenza di specifiche e inderogabili esigenze processuali legate all’accertamento di eventuali responsabilità di concorrenti nel reato o imputati in procedimenti per reati connessi, nonché l’assenza del preminente interesse della persona offesa.

Tuttavia, tale valutazione ex post, peraltro relativa solo a profili endoprocessuali, non risulta sufficiente a controbilanciare l’ampio raggio di applicazione della condizione di improcedibilità, che non andrebbe più a operare quale segmento conclusivo del procedimento penale nell’ambito del quale è stato adottato il provvedimento espulsivo.

5.– Tutte le suesposte considerazioni, dalle quali emerge la disomogeneità delle situazioni raffrontate dal giudice rimettente, giustificano la diversa disciplina dettata dal legislatore, che, nella sua discrezionalità, ha deciso di limitare l’ambito di applicazione della condizione atipica di improcedibilità, di cui all’art. 13, comma 3-quater, t.u. immigrazione, ai soli casi in cui lo straniero irregolare sia stato espulso ai sensi dell’art. 13, comma 2, e sia stato poi effettivamente allontanato dal territorio italiano ai sensi dei commi 3, 3-bis e 3-ter del medesimo articolo, senza estenderla all’ipotesi in cui egli sia stato espulso ai sensi dell’art. 16, comma 5. Risulta, infatti, non irragionevole che, ove l’espulsione sia intervenuta nei confronti di uno straniero già condannato in via definitiva alla pena della reclusione in carcere, il legislatore abbia ritenuto prevalente l’esigenza di punire gli ulteriori reati da questi commessi nel territorio dello Stato.

6.– In conclusione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998, prospettata in riferimento all’art. 3 Cost., non è fondata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Pesaro, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2025.

F.to:

Giovanni AMOROSO, Presidente

Maria Alessandra SANDULLI, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2025

 

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