SENTENZA N. 169
ANNO 2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Silvana SCIARRA;
Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), promosso dal Tribunale ordinario di Palermo, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra M. T., tutore giudiziario di B. C., e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 21 ottobre 2022, iscritta al n. 143 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2022.
Visto l’atto di costituzione dell’INPS;
udito nell’udienza pubblica del 6 giugno 2023 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;
udito l’avvocato Patrizia Ciacci per l’INPS;
deliberato nella camera di consiglio del 6 giugno 2023.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 21 ottobre 2022 (reg. ord. n. 143 del 2022), il Tribunale ordinario di Palermo, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede la revoca delle prestazioni previdenziali o assistenziali «[...] comunque denominate in base alla legislazione vigente, di cui il condannato sia eventualmente titolare: indennità di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e pensione per gli invalidi civili» nei confronti dei «soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato per i reati di cui al comma 58, [...] con effetto non retroattivo».
1.1.– Il Tribunale rimettente espone in fatto di essere stato adito dal tutore giudiziario del rappresentato per accertare l’illegittimità della revoca/sospensione dell’assegno sociale di cui questi era titolare, disposta dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) all’esito della «comunicazione pervenuta dal Ministero della Giustizia, in applicazione dell’articolo 2, della legge n. 92 del 28 giugno 2012», nonché per la ripetizione dell’indebito dallo stesso percepito dal primo giorno del mese successivo alla predetta comunicazione, e per la condanna dell’INPS al ripristino della prestazione e al pagamento dei ratei nelle more non corrisposti, risultando pacifico in atti che B. C., condannato con diverse sentenze passate in giudicato, tra gli altri, per i reati di cui agli artt. 575, 577 e 416-bis del codice penale, nonché da ultimo anche per i reati di cui agli artt. 416-bis, commi secondo, terzo, quarto e sesto, 61, numero 6), e 99, commi secondo, numero 1), e quarto, cod. pen., fosse in stato di detenzione carceraria in regime di ergastolo cosiddetto ostativo, per reati commessi in epoca assai risalente e, comunque, antecedente alla data di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, e che la prestazione assistenziale dell’assegno sociale gli era stata concessa al compimento dell’età prescritta di 67 anni, non possedendo redditi al pari della coniuge.
1.2.– Ai fini della rilevanza, il rimettente premette che il giudizio era stato rinviato, pendendo analoga questione di legittimità costituzionale, decisa da questa Corte con ordinanza n. 138 del 2022, che aveva dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 60 e 61, della legge n. 92 del 2012, in quanto il ricorrente di quel giudizio si trovava in stato di detenzione domiciliare. Infatti, la disposizione censurata, per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale intervenuta nelle more, ad opera della sentenza n. 137 del 2021, era venuta meno per chi espiava la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere, mentre restava vigente per chi espiava la pena in carcere.
Il rimettente ritiene che la stessa questione sia ora rilevante nel giudizio, stante la condizione del ricorrente di condannato in via definitiva in regime di detenzione carceraria, peraltro con “fine pena mai”, per fatti commessi in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge che aveva introdotto la misura.
1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, in relazione al profilo della violazione del principio dell’irretroattività delle sanzioni di natura sostanzialmente penale, prescritto dagli artt. 25 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, il Tribunale rileva che la norma censurata, prevedendo la revoca dei trattamenti previdenziali, a carico degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza, di cui risultino titolari i condannati per uno dei gravi delitti tra quelli compresi nell’elenco indicato al comma 58, con sentenze rese in data anteriore all’entrata in vigore della legge medesima, comminerebbe ad un soggetto già condannato una sanzione che non era prevista al momento in cui egli aveva commesso i fatti e neppure a quello della pronuncia giudiziale di condanna.
Secondo il giudice a quo, poiché il comma 58 dell’art. 2 della legge n. 92 del 2012 definisce la revoca della prestazione assistenziale o previdenziale come «sanzione accessoria» della pena principale, qualora sia intervenuta condanna per i reati ivi elencati, mentre il comma 61 del medesimo articolo la impone anche in presenza di condanne già passate in giudicato, pur se sul piano temporale «con effetto non retroattivo», senza includere le prestazioni già erogate, sarebbe necessario valutare se l’irrogazione della stessa sanzione da parte di due diversi soggetti (il giudice penale per l’ipotesi regolata dal comma 58, l’ente titolare del rapporto per quella di cui al comma 61), ma in conseguenza di un medesimo accadimento, che si differenzia solo in relazione all’epoca in cui è avvenuto, giustifichi per la prima la natura di sanzione penale accessoria e per la seconda quella di effetto extrapenale della condanna.
Per il rimittente, con specifico riferimento alla fattispecie sottoposta al suo esame, ove l’INPS al tempo del riconoscimento del beneficio non aveva avuto ancora notizia della condanna penale, si sarebbe in ogni caso in presenza di una misura che produrrebbe effetti sul presupposto di una condanna penale e di un fatto criminoso intervenuti prima dell’entrata in vigore della norma che la prevede, e questo sarebbe già sufficiente a far dubitare della sua conformità alla Costituzione; del resto, i commi 58 e 61 dell’art. 2 della legge n. 92 del 2012 avrebbero in comune sia il presupposto, ossia l’intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, quale condizione necessaria per la revoca del beneficio, sia lo stato di esecuzione della pena, quale limite per l’esclusione temporanea della provvidenza, momento dopo il quale la prestazione può essere ripristinata.
1.4.– Il tema della qualificazione della misura prevista dal comma 61 del medesimo art. 2, come sanzione accessoria o mero effetto extrapenale – evidenzia ancora il giudice a quo – non sarebbe, tuttavia, dirimente in quanto l’indagine non andrebbe condotta sul piano meramente formale, ma su quello sostanziale riguardante i presupposti, la finalità e gli effetti propri della revoca; in questa prospettiva il rimettente richiama la sentenza n. 276 del 2016, ove questa Corte – pur ritenendo non fondata la questione di legittimità costituzionale della disciplina di cui al decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), in riferimento proprio alla violazione degli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, con riguardo alla previsione della sospensione dalla carica degli amministratori regionali e locali che abbiano riportato una condanna non definitiva per determinati reati, anche se consumati prima della sua entrata in vigore – ha comunque affermato che il principio, desumibile dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo cui tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto, è «“desumibile anche dall’art. 25, secondo comma Cost., il quale – data l’ampiezza della sua formulazione (“Nessuno può essere punito...”) – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato” (sentenza n. 196 del 2010; nello stesso senso anche la successiva pronuncia n. 104 del 2014)».
1.5.– Tanto premesso, la circostanza che la revoca in esame inerisca a una condanna per reati il cui trattamento sanzionatorio è di estrema gravità e di elevato allarme sociale, di talché il legislatore ha ritenuto che, a fronte della gravità della lesione perpetrata in danno dell’ordinamento e del pregiudizio alla civile convivenza, le ragioni per il godimento del beneficio riconosciuto all’invalido – espressione del principio di cui all’art. 38 Cost. – sarebbero recessive rispetto alla necessità di una adeguata reazione dell’ordinamento stesso, conduce il rimettente a valutare se nella specie possano ritenersi soddisfatti i cosiddetti “criteri Engel” – tra loro alternativi ma da considerare anche nell’insieme – quali la qualificazione dell’illecito operata dal diritto nazionale, la natura della sanzione alla luce della sua funzione punitiva-deterrente, la sua severità, ovvero la gravità del sacrificio imposto.
Quanto al primo criterio, il Tribunale ricorda che si tratterebbe di un aspetto non dirimente (secondo la stessa decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, grande camera, sentenza 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi).
Quanto al secondo, ribadisce che la revoca de quo costituirebbe un trattamento strettamente connesso alla condanna penale, tanto da determinare un automatismo che non ammette sindacato né in sede amministrativa, né in sede giurisdizionale, e che l’applicazione della misura opera nella comunanza dei presupposti nelle due sedi; inoltre, la funzione punitiva e deterrente sarebbe esaltata, con l’aggravamento insito nella “pena civile” di cui si tratta, dal fatto che essa verrebbe comminata in conseguenza della commissione di gravi illeciti penali, in considerazione della gravità e del grave allarme sociale prodotto dalle condotte criminali.
Quanto al terzo, concernente la gravità del sacrificio imposto, rileva che, come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, l’assegno sociale revocato rappresenta una prestazione di base avente natura assistenziale ed in quanto tale è volta ad assicurare «i mezzi necessari per vivere» (ai sensi dell’art. 38, primo comma, Cost.) a soggetti che hanno superato una prefissata soglia di età e di cui sia accertato lo stato di bisogno, desunto dalla mancanza di redditi, del titolare e del coniuge, o dall’insufficienza di quelli percepiti al disotto del limite massimo indicato dalla legge, sicché la revoca di tale provvidenza andrebbe certamente valutata come foriera di gravi conseguenze per il soggetto interessato avendo l’effetto di privare il medesimo e la sua famiglia dei mezzi di sostentamento.
2.– Si è costituito in giudizio l’INPS sostenendo la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale.
2.1.– A giudizio dell’Istituto, sebbene la ratio dell’intero complesso normativo sia volta ad una limitazione temporanea (fino all’espiazione della pena) della percezione di trattamenti assistenziali nei confronti di soggetti colpevoli di reati di particolare allarme sociale, le ipotesi disciplinate dal comma 58 dell’art. 2 della legge n. 92 del 2012 e dal successivo comma 61 darebbero luogo a due distinti e non sovrapponibili regimi applicativi del medesimo istituto; il primo regime, regolato dal comma 58, prevedendo una sanzione accessoria, conseguente alla sentenza di condanna per i reati ivi indicati, applicata dal giudice nella sentenza, necessiterebbe inderogabilmente di un previo provvedimento giudiziale pronunciato dopo l’entrata in vigore della legge, mentre il regime di cui al comma 61, oggetto di censura, regolerebbe le ipotesi in cui la sentenza penale irrevocabile sia già intervenuta, considerando quest’ultima come un mero presupposto di fatto per l’attivazione del ministero competente prima – con la trasmissione degli elenchi – e dell’Istituto poi, ai fini dell’adozione del provvedimento di revoca previsto dalla norma.
La misura, in questo secondo caso, opererebbe direttamente in via amministrativa e la sentenza penale che commina la pena principale rappresenterebbe solo il fatto storico cui l’ordinamento riconnette la previsione della revoca in sede civile di una prestazione assistenziale precedentemente erogata per difetto di un requisito costitutivo; il comma 61 disciplinerebbe, dunque, le situazioni pregresse, disponendo la revoca anche per soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato, per i quali la misura, avrebbe effetto ex nunc, senza incidere sulle prestazioni medio tempore erogate dalla data di condanna irrevocabile alla data di adozione del provvedimento dell’ente.
2.2.– Tale distinzione esprimerebbe la volontà del legislatore, da una parte, di onerare direttamente il giudice penale del compito di disporre la revoca dei benefici assistenziali indicati per il futuro e, dall’altra, di disciplinare tutte le situazioni pregresse relative a soggetti già condannati per i medesimi reati, ove la condanna penale irrevocabile sarebbe assunta come mero presupposto oggettivo, ossia come “l’antefatto”, cui la revoca consegue quale effetto extrapenale della condanna, come del resto accade nelle ipotesi in cui dalla pronuncia di sentenze irrevocabili per determinati reati derivino automaticamente incapacità speciali o altre conseguenze sfavorevoli in tema di stato della persona, come nel caso della condanna pronunciata per reati elettorali nei confronti di un candidato, la quale in sé comporta, ai sensi del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), art. 113, commi primo e secondo, e indipendentemente dalla pena accessoria interdittiva, la temporanea privazione dall’elettorato attivo e passivo.
La revoca disposta dall’INPS non avrebbe, dunque, natura sanzionatoria o punitiva, ma rappresenterebbe la conseguenza del venir meno di un requisito soggettivo ritenuto essenziale dal legislatore per il mantenimento della prestazione, di un elemento costitutivo della prestazione assistenziale introdotto, al pari degli altri requisiti socio-economici, quale requisito di tipo negativo fondato sulla “non onorabilità” del soggetto.
3.– Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, l’INPS, nel ribadire le conclusioni rassegnate nell’atto di costituzione, ha segnalato quale motivo di possibile inammissibilità della questione la circostanza che, secondo la ricostruzione fattuale del giudice rimettente, l’ultima condanna del ricorrente, resa dalla Corte d’appello di Palermo per il reato di associazione a delinquere (sentenza n. 1735 del 2012), sarebbe divenuta irrevocabile solo il 18 ottobre 2013, e quindi in epoca successiva all’entrata in vigore delle disposizioni censurate, per cui difetterebbe il nesso di pregiudizialità tra giudizio principale e giudizio de quo.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 21 ottobre 2022 (reg. ord. n. 143 del 2022), il Tribunale ordinario di Palermo, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, della legge n. 92 del 2012, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, nella parte in cui prevede la revoca, con effetto non retroattivo, delle prestazioni previdenziali o assistenziali, comunque denominate in base alla legislazione vigente, di cui il condannato sia eventualmente titolare, quali l’indennità di disoccupazione, l’assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili, nei confronti dei soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato per i reati di cui al comma 58 del medesimo art. 2.
A giudizio del Tribunale rimettente, la norma oggetto di censura contrasterebbe con i parametri costituzionali evocati, perché, stabilendo la revoca delle prestazioni previdenziali anche nei confronti di soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato al momento dell’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, violerebbe il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole, dovendo essere riconosciuta a tale misura natura sostanziale di sanzione penale alla luce dei criteri stabiliti nella sentenza Engel della Corte EDU (cosiddetti “criteri Engel”).
2.– Preliminarmente va rigettata l’eccezione di inammissibilità, proposta dall’INPS, che ha dedotto che l’ultima delle sentenze di condanna del ricorrente per il reato di associazione a delinquere era divenuta definitiva in data successiva all’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012.
Il censurato comma 61 dell’art. 2 della legge n. 92 del 2012 prevede espressamente che destinatari della revoca della prestazione siano i «soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato per i reati di cui al comma 58». Quindi non basta una pronuncia di condanna; occorre anche che essa sia definitiva, ossia passata in giudicato, perché l’ente erogatore della prestazione possa adottare il provvedimento previsto dal citato comma 61.
In ogni caso, come emerge dalla stessa ordinanza di rimessione, il ricorrente era stato condannato con diverse precedenti sentenze passate in giudicato, tra gli altri, per i reati di cui agli artt. 575, 577 e 416-bis cod. pen., tutte intervenute in data antecedente alla entrata in vigore della legge, e sulla cui base era stata effettuata la comunicazione da parte dei ministeri competenti, senza che possa assumere alcuna rilevanza, bastandone anche una sola, che l’ultima sentenza di condanna fosse passata in giudicato dopo tale data.
3.– L’ordinanza di rimessione non presenta, poi, profili di inammissibilità.
Quanto alla rilevanza, gli elementi descrittivi in merito al procedimento principale e alla situazione personale del ricorrente risultano sufficienti a giustificare l’applicabilità della disposizione censurata.
Lo stato di detenzione in carcere, in cui versa il destinatario della revoca, rende le questioni non sovrapponibili a quelle decise da questa Corte con la sentenza n. 137 del 2021 e l’ordinanza n. 138 del 2022, che, pur avendo ad oggetto la stessa disposizione attualmente censurata (art. 2, comma 61, citato), hanno riguardato entrambe la diversa ipotesi dell’espiazione della pena in regime di detenzione domiciliare.
Rileva, inoltre, che il ricorrente, beneficiario di assegno sociale, prestazione testualmente prevista tra quelle suscettibili di revoca, è stato condannato per uno dei reati elencati al comma 58 dello stesso art. 2, con sentenza divenuta definitiva in data antecedente la sua entrata in vigore, e risulta detenuto in carcere in regime di ergastolo cosiddetto ostativo.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente ha diffusamente motivato in ordine alle ragioni per le quali a suo giudizio la revoca in esame rivestirebbe la natura di sanzione sostanzialmente penale, quale misura di carattere punitivo-afflittivo soggetta, pertanto, alla medesima disciplina della sanzione penale.
4.– Preliminare all’esame del merito delle censure è il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, in cui si colloca la disposizione censurata.
A tal fine, viene in rilievo la complessiva disciplina stabilita dai commi da 58 a 61 dell’art. 2 della legge n. 92 del 2012.
Il comma 58 prevede che, nel pronunciare condanna per taluni reati di particolare allarme sociale – quali reati di associazione terroristica, attentato per finalità terroristiche o di eversione, sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, associazione di stampo mafioso, scambio elettorale, strage e delitti commessi per agevolare le associazioni di stampo mafioso – il giudice applichi, in sentenza, la «sanzione accessoria» della revoca di una serie di prestazioni assistenziali (tra cui l’assegno sociale, oggetto del giudizio principale), non correlate al versamento di previa contribuzione.
Sebbene tale comma non chiarisca a quali condanne consegua la sanzione, una lettura organica e sistematica anche dei commi successivi – stante il ripetuto richiamo alla pena in esecuzione (il comma 59 fa riferimento all’espiazione della pena; il comma 60 alla immediata esecuzione dei provvedimenti di cui al comma 58 e il comma 61 alle condanne passate in giudicato) – consente un’interpretazione nel senso che anche per il comma 58 la «revoca» operi solo in conseguenza di condanne definitive.
Inoltre, l’intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale della norma, di cui si dirà oltre (sentenza n. 137 del 2021), comporta che la revoca è condizionata all’espiazione della pena in regime carcerario. Non opera invece nei confronti di coloro che scontano la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere. Si tratta, quindi, in realtà, di una condizione di erogabilità della prestazione legata alla modalità, in ipotesi anche variabile nel tempo, di espiazione della pena.
Il comma 59 stabilisce, poi, che l’erogazione di tali provvidenze possa essere ripristinata, a domanda dell’interessato, ove ne sussistano gli ulteriori presupposti previsti dalla normativa di riferimento, una volta espiata la pena, con conseguente definitivo venir meno del suddetto condizionamento dell’erogazione della prestazione.
Il comma 60 impone l’obbligo di tempestiva comunicazione all’ente previdenziale competente dei provvedimenti adottati ai sensi del comma 58, ai fini della loro immediata esecuzione.
In simmetria con il comma 58, il successivo comma 61, oggetto di censura, prevede che, entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il Ministro della giustizia, d’intesa con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, trasmetta agli enti titolari dei relativi rapporti l’elenco dei soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato per i reati di cui al comma 58, ai fini della revoca, con effetto non retroattivo, delle prestazioni di cui al medesimo comma, primo periodo; nella prassi amministrativa il termine di tre mesi è stato ritenuto meramente ordinatorio e, come risulta dal messaggio INPS del 5 giugno 2017 n. 2302, i relativi elenchi sono stati comunicati solo nel 2017 e le revoche operate a far data dalle rispettive comunicazioni.
Anche il comma 61 è stato oggetto della richiamata pronuncia di illegittimità costituzionale, negli stessi termini, sicché la revoca (in sede amministrativa) della prestazione è da intendersi come sospensione della sua erogazione ove si verifichi la condizione dell’espiazione della pena in regime carcerario. Tale è quella del ricorrente nel giudizio principale che – come già rilevato – sta espiando la pena dell’ergastolo nel regime (cosiddetto ostativo) dell’art. 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).
Si tratta, quindi, di una disciplina che, in piena simmetria, regola sia le situazioni di pregresse condanne penali, pronunciate prima della data di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, applicandosi la revoca in via amministrativa con effetto non retroattivo, adottata dagli enti titolari dei relativi rapporti (nella specie, dall’INPS), sia quelle (a regime) che vedono la revoca affidata direttamente al giudice penale, quando, a partire dalla data suddetta, pronuncia condanna per uno dei reati indicati al comma 58, anche se commessi prima di essa.
In entrambe le ipotesi, la revoca della prestazione previdenziale – operante sempre con efficacia ex nunc, rispettivamente dalla comunicazione dell’ente erogatore della prestazione o dalla condanna pronunciata dal giudice penale, quando divenuta definitiva – rende la stessa non esigibile allorché la pena irrogata è espiata in regime carcerario (sentenza n. 137 del 2021); non verificandosi questo presupposto, come in ipotesi di detenzione domiciliare del condannato, è ripristinata l’erogazione della prestazione.
Peraltro la misura ha natura latamente riparatoria, come si evince dalla devoluzione delle somme, recuperate grazie alla revoca in ragione della condanna per attività criminali di particolare allarme sociale, al Fondo per vittime dei reati di tipo mafioso e di terrorismo, andando così in qualche modo a risarcire le vittime dei reati in questione, per effetto di una scelta razionale nella allocazione di risorse finanziare, non illimitate, a favore di vittime di reati gravi.
5.– In particolare, con la già richiamata sentenza n. 137 del 2021, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevede la revoca delle prestazioni indicate nei confronti di coloro che scontino la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere, nella sussistenza dei presupposti indicati al comma 58 della citata legge, con riferimento alla violazione degli artt. 2, 3 e 38 Cost.
Inoltre – nel sottolineare che il pregiudizio al diritto all’assistenza sussiste negli stessi termini anche quando la revoca venga disposta nella fattispecie di cui al comma 58, ove si prevede, a regime, la revoca delle ricordate prestazioni assistenziali con la sentenza di condanna per i reati previsti dalla stessa disposizione – questa Corte ha dichiarato, in via consequenziale, «l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 58, [...] nella parte in cui prevede la revoca delle prestazioni, comunque denominate in base alla legislazione vigente, quali l’indennità di disoccupazione, l’assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili, nei confronti di coloro che scontino la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere».
Entrambe le fattispecie, di cui ai commi 58 e 61 dell’art. 2 della legge n. 92 del 2012, configurano, in sostanza, «uno “statuto d’indegnità” per la percezione di determinate provvidenze pubbliche da parte di chi sia risultato colpevole di peculiari delitti, secondo un’impostazione rinvenibile anche in altre disposizioni legislative, tra le quali, ad esempio, quelle sul reddito di cittadinanza previste dal decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, già oggetto d’esame da parte di questa Corte (sentenze n. 126 del 2021 e n. 122 del 2020)».
Però il venir meno dei requisiti di “dignità” alla prestazione, in ragione di condanne definitive per reati di particolare gravità, è condizionato alla modalità di espiazione della pena.
Infatti, il primo comma dell’art. 38 Cost. configura un dovere di solidarietà, che deve informare la normativa della pubblica assistenza e beneficenza a favore di chi versi in condizioni di indigenza per inabilità allo svolgimento di una attività remunerativa.
Pur dovendo riconoscersi al legislatore la possibilità di circoscrivere la platea dei beneficiari delle stesse prestazioni sociali, la modulazione della disciplina delle misure assistenziali non può pregiudicare quelle prestazioni che si configurano come misure di sostegno indispensabili per una vita dignitosa. Con specifico riferimento alla «revoca dei trattamenti assistenziali di cui alla disposizione oggetto di censura», questa Corte ha sottolineato, ancora nella sentenza n. 137 del 2021, che tale provvedimento «può concretamente comportare il rischio che il condannato ammesso a scontare la pena in regime di detenzione domiciliare o in altro regime alternativo alla detenzione in carcere, poiché non a carico dell’istituto carcerario, non disponga di sufficienti mezzi per la propria sussistenza», per cui, sebbene «i condannati per i reati di cui all’art. 2, comma 58, della legge n. 92 del 2012 hanno gravemente violato il patto di solidarietà sociale che è alla base della convivenza civile [t]uttavia, attiene a questa stessa convivenza civile che ad essi siano comunque assicurati i mezzi necessari per vivere».
Questa Corte, sempre nella medesima sentenza, ha posto in evidenza che la «diversità di effetti della revoca delle prestazioni sociali su chi si trova in stato di detenzione domiciliare (o in altra forma alternativa di espiazione della pena) rispetto a chi è detenuto in carcere determina una violazione anche dell’art. 3 Cost., trattando allo stesso modo situazioni soggettive del tutto differenti». Risulta, così, violato anche il principio di ragionevolezza, in quanto «l’ordinamento valuta un soggetto meritevole di accedere [a] forme alternative di detenzione, ma lo priva poi dei mezzi per vivere, ottenibili, in virtù dello stato di bisogno, solo dalle prestazioni assistenziali».
Successivamente, l’ordinanza n. 138 del 2022, dato atto della pronuncia di parziale illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 137 del 2021, depositata successivamente all’ordinanza di rimessione, ha dichiarato manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza le questioni di legittimità costituzionale dei commi 60 e 61 del citato art. 2, in riferimento agli artt. 25 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, sollevate nuovamente rispetto a un condannato ammesso a espiare la pena in regime di detenzione domiciliare.
6.– Anche in precedenza questa Corte ha ritenuto la legittimità di meccanismi destinati ad attivarsi, in modo automatico, in conseguenza della perdita di requisiti di onorabilità.
Con riferimento alla sospensione del reddito di cittadinanza in caso di sottoposizione a misure cautelari, ha affermato che «[i]l provvedimento di sospensione [...] “altro non è che la conseguenza del venir meno di un requisito necessario alla concessione del beneficio e rientra per ciò stesso tra i casi in cui la giurisprudenza costituzionale riconosce la legittimità di sospensione, revoca o decadenza, anche attraverso meccanismi automatici [...]”» (sentenze n. 126 del 2021 e n. 122 del 2020).
La mancata soggezione a una misura cautelare personale e l’assenza di una condanna per taluni specifici reati (intervenuta nei dieci anni antecedenti) costituiscono requisiti essenziali per l’ottenimento del reddito di cittadinanza rispetto al quale la ratio della sospensione viene ricondotta al venir meno di un peculiare requisito morale di onorabilità.
Riferimenti a requisiti di onorabilità, la cui perdita determina il venir meno di una condizione soggettiva per l’accesso a un beneficio economico, sono presenti anche nella sentenza n. 248 del 2019, che ha escluso la illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 4, lettera e), della legge della Regione Umbria 4 dicembre 2018, n. 11 (Norme in materia di sostegno alle imprese che operano nell’ambito dell’informazione locale), che prevede l’esclusione di finanziamenti per «le imprese i cui titolari o editori abbiano riportato condanna, anche in via non definitiva, per i reati di cui al libro II, titolo II, capo II (Dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione) ovvero al titolo XIII, capo II (Dei delitti contro il patrimonio mediante frode) del codice penale».
In materia di accesso alla professione di trasportatore su strada di cose per conto terzi, l’aver subito «condanna penale definitiva del datore di lavoro per fatti che costituiscono violazione degli obblighi sussistenti in materia previdenziale ed assistenziale» è stata qualificata come condizione di cessazione di diritto dal requisito di onorabilità soggettivo per la prosecuzione del rapporto autorizzatorio (sentenza n. 161 del 2018).
Con analoghe argomentazioni, nelle più recenti sentenze in tema di decadenza e sospensione dalle cariche elettive a tutela del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione (sentenze n. 35 del 2021, n. 36 del 2019, n. 276 del 2016 e n. 236 del 2015), le misure dell’incandidabilità, della decadenza e della sospensione previste dal d.lgs. n. 235 del 2012, ancorché collegate alla commissione di un illecito, sono state ritenute non costituzionalmente illegittime da questa Corte, non costituendo sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche stesse o per il loro mantenimento.
Significativa è anche la sentenza n. 22 del 2018, in tema di revoca della patente di guida che consegua a condanna per reati in materia di stupefacenti. Anche tale misura «non risponde ad una funzione punitiva, retributiva o dissuasiva dalla commissione di illeciti e trova, viceversa, la sua ratio nell’individuazione di un perimetro di affidabilità morale del soggetto, cui è rilasciata la patente di guida, e nella selezione di ipotesi in presenza delle quali tale affidabilità viene meno», venendo in rilievo «solo effetti riflessi della condanna penale, in settori ordinamentali diversi da quello cui è affidata la funzione repressiva degli illeciti con le misure afflittive al riguardo previste».
7.– Orbene, l’art. 2, comma 61, della legge n. 92 del 2012, già dichiarato costituzionalmente illegittimo in parte qua, è ora investito, sotto un diverso profilo, dalle censure mosse dal giudice rimettente, il quale ha bene presente che la portata applicativa della norma è già stata ridimensionata dalla richiamata sentenza n. 137 del 2021, ma chiede a questa Corte di rimuoverla interamente per tutti i fatti commessi prima della data di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012.
Come già ricordato, il comma 61 dell’art. 2 prevede, come presupposto della revoca adottata dall’ente erogatore della prestazione, una condanna, per i reati di cui al precedente comma 58, con sentenza passata in giudicato e quindi per fatti che necessariamente sono stati commessi prima della data suddetta.
La revoca – anche se non ha efficacia retroattiva, nel senso che la prestazione è sospesa ex nunc (e non già ex tunc) nel momento in cui l’ente comunica il provvedimento al condannato che sta espiando la pena in regime carcerario – trova comunque il suo fondamento in un reato commesso prima della data di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012.
È questa proiezione retroattiva che – secondo il giudice rimettente – contrasterebbe con gli evocati parametri nella misura in cui alla revoca debba riconoscersi natura sostanziale di “pena”.
8.– Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale di Palermo, non sono, però, fondate.
9.– Dalla richiamata giurisprudenza di questa Corte (ai punti 5 e 6) emerge la configurabilità di conseguenze, quali effetti riflessi, della condanna penale, sopra passati in rassegna, consistenti in incapacità giuridiche o in limitazioni o preclusioni all’esercizio di facoltà o alla possibilità di ottenere o mantenere benefici (quali quelle per l’accesso ai pubblici concorsi, o per l’iscrizione negli albi professionali, o per la concessione di licenze o autorizzazioni, o in tema di incandidabilità a rivestire una carica pubblica). Essi sono regolati secondo la disciplina propria dei settori di appartenenza e non sono soggetti alle più rigorose garanzie del sistema sanzionatorio penale e in particolare al divieto di retroattività.
La presenza di una condanna penale definitiva, al di là degli effetti penali propri, può costituire un fatto oggettivo che in altri contesti, che esulano dal trattamento sanzionatorio dell’illecito commesso, determina le condizioni che non consentono (o fanno venire meno quelle che consentono) l’operatività di istituti diversi.
10.– La misura della revoca delle prestazioni sociali, prevista dal comma 61 dell’art. 2 della legge n. 92 del 2012, presenta tutte le caratteristiche per rientrare nella categoria degli effetti extrapenali della condanna penale; tale qualificazione si fonda sulla considerazione che il legislatore, nell’esercizio della discrezionalità che gli compete nel perimetrare la platea dei beneficiari di prestazioni sociali, ha valutato l’opportunità di introdurre un nuovo requisito, caratterizzato dall’assenza di elementi di indegnità, ritenuto essenziale per la percezione e il mantenimento di prestazioni assistenziali, quali l’indennità di disoccupazione, l’assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili, che, rientrando nell’alveo di tutela dell’art. 38 Cost., realizzano e danno concretezza alla vocazione solidaristica del nostro sistema della sicurezza sociale.
Tale requisito si connota in positivo come l’attitudine del percettore ad essere degno di un beneficio finanziato dall’intera collettività, e in negativo per l’assenza in capo allo stesso di condanne penali per reati di particolare allarme sociale, odiosi per la stessa collettività, e che si accompagnano all’espiazione della pena in regime carcerario.
Rispetto a tale nuovo elemento di “meritevolezza”, la condanna penale non costituisce la causa dell’esclusione, ma il presupposto di fatto oggettivo della valutazione di “indegnità”, il dato storico che certifica, in modo definitivo ed incontestabile, il venir meno del patto di solidarietà sociale del singolo con la comunità, che resta tenuta a supportare il condannato solo e nei limiti in cui sia messa in pericolo la sua sopravvivenza per il venir meno del minimo vitale, circostanza che non si realizza allorché la pena sia scontata in carcere.
La revoca di cui al comma 61 dell’art. 2 della legge n. 92 del 2012 va, pertanto, qualificata come effetto della condanna penale in ambito amministrativo, materia estranea a quella penale, ove la condanna per reati, che si distinguono per una particolare gravità, determina il venir meno di un requisito personale richiesto per poter fruire della prestazione assistenziale.
L’assenza di condanne definitive, per i reati indicati nell’art. 2, comma 58, costituisce quindi un requisito di natura soggettiva per beneficiare dell’erogazione della prestazione assistenziale; requisito introdotto dal legislatore con effetto non retroattivo, ma che legittimamente prende in considerazione condotte pregresse del condannato al quale il beneficio è stato riconosciuto.
11.– Tenuto conto della tendenziale provvisorietà della revoca, perché destinata a venir meno all’esito della definitiva espiazione della pena, ai sensi del comma 59 dello stesso art. 2, nonché in caso di ammissione del condannato ad un regime alternativo alla detenzione in carcere, a seguito della pronuncia di parziale illegittimità costituzionale di cui alla più volte richiamata sentenza n. 137 del 2021, si ha che l’assenza di una condanna definitiva per uno dei reati di cui al comma 58, con pena espiata in regime carcerario, si atteggia a requisito di erogazione della prestazione sociale piuttosto che requisito per l’insorgenza o il mantenimento del diritto.
Mentre alla natura costitutiva del requisito non si attaglia la variabilità connessa al possibile mutamento, nel tempo, del regime della pena, l’accostamento ai requisiti di erogazione – quali ad esempio per l’indennità di accompagnamento di cui all’art. 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 18 (Indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili), il mancato ricovero in una struttura a carico dello Stato o la mancata percezione di prestazioni incompatibili – rende l’intero corpus normativo ragionevole e coerente, giustificando il fatto che la revoca, anche se disposta dal giudice penale, nelle ipotesi di cui al comma 58, possa cessare di efficacia in caso di ammissione a forme alternative alla detenzione in carcere, con la riattivazione del beneficio, salva l’interruzione dell’erogazione in caso di successivo ripristino del regime carcerario.
La qualificazione come elemento esterno alla prestazione assistenziale che costituisce ostacolo non al suo riconoscimento, bensì all’erogazione per il tempo in cui il condannato sconta la pena in un istituto carcerario, risulta appropriata alla eventuale temporaneità della revoca e confacente alla possibilità di un suo ripristino al venir meno della condizione ostativa, sia in caso di espiazione della pena che di collocamento in regimi alternativi come la detenzione domiciliare.
12.– Né può ritenersi la natura sostanzialmente penale della revoca della prestazione, come assume il giudice rimettente.
13.– In generale, secondo un costante indirizzo della giurisprudenza di questa Corte, dall’art. 25, secondo comma, Cost. discende il divieto di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante o che punisca più severamente un fatto già precedentemente incriminato (sentenza n. 223 del 2018).
Anche con riguardo alle misure sanzionatorie diverse dalle pene in senso stretto, si è evidenziata da tempo «l’esigenza della prefissione ex lege di rigorosi criteri di esercizio del potere relativo all’applicazione (o alla non applicazione) di esse» (sentenza n. 447 del 1988).
A partire dalla sentenza n. 196 del 2010, questa Corte, più volte, ha riconosciuto che il divieto insito nella previsione dell’art. 25, secondo comma, Cost. si presta ad essere esteso, data l’ampiezza della sua formulazione, alle misure a carattere punitivo-afflittivo.
Anche rispetto alle sanzioni amministrative a carattere punitivo «si impone infatti la medesima esigenza, di cui tradizionalmente si fa carico il sistema penale in senso stretto, di non sorprendere la persona con una sanzione non prevedibile al momento della commissione del fatto» (ancora, sentenza n. 223 del 2018; sulla riferibilità del principio di irretroattività, stabilito dall’art. 25, secondo comma, Cost., alle sanzioni amministrative a carattere punitivo, ex plurimis, sentenze n. 96 del 2020, n. 223 del 2018, n. 68 del 2017 e n. 104 del 2014).
Il processo di assimilazione delle sanzioni amministrative “punitive” alle sanzioni penali, quanto a garanzie costituzionali, ha portato questa Corte a estendere ad esse larga parte dello “statuto costituzionale” sostanziale delle sanzioni penali e quindi non solo quello basato sull’art. 25 Cost., ma anche quello sulla determinatezza dell’illecito e delle sanzioni (sentenze n. 134 del 2019 e n. 121 del 2018), sulla violazione del ne bis in idem (sentenza n. 149 del 2022), sulla retroattività della lex mitior (sentenza n. 63 del 2019), sulla proporzionalità della sanzione alla gravità del fatto (sentenze n. 185 del 2021 e n. 112 del 2019) e sulla rilevanza di una sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma sanzionatoria (sentenza n. 68 del 2021).
Il principio di legalità ed il divieto di retroattività in malam partem trovano, dunque, applicazione anche con riferimento al diritto sanzionatorio amministrativo al quale, quando la sanzione ha natura sostanzialmente penale, si estende la fondamentale garanzia consacrata dall’art. 25, secondo comma, Cost., e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’art. 7 CEDU.
14.– Nella fattispecie, però, la natura “sostanzialmente penale” della revoca di cui al comma 61 dell’art. 2 della legge n. 92 del 2012 deve essere esclusa.
Va innanzi tutto verificato se sono integrati i cosiddetti “criteri Engel”, consistenti, alternativamente, nella qualificazione dell’illecito operata dal diritto nazionale, nella natura della sanzione alla luce della sua funzione punitiva-deterrente, nella sua severità, ossia nella gravità del sacrificio imposto.
Nella fattispecie in esame, quanto alla qualificazione del diritto nazionale, è sufficiente osservare che il comma 61, oggetto di censura, non solo non reca la qualificazione formale, come “sanzione penale”, ma manca la stessa definizione di “sanzione”; la quale, invece, è sì presente al comma 58, ma ciò, di per sé solo, non è decisivo ai fini della natura punitiva della revoca.
Rileva poi – come si è già sopra sottolineato – che la condanna penale costituisce un mero presupposto di fatto utilizzato dal legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, per attestare il venire meno di un requisito soggettivo di “meritevolezza”, introdotto quale nuova condizione per fruire dell’erogazione di una provvidenza pubblica da parte dello Stato. La revoca consegue, con applicazione automatica e indifferenziata, alla definitività di una sentenza penale di condanna senza una deliberazione sul quantum che, calibrata sulle specifiche caratteristiche del caso concreto, presupporrebbe necessariamente un giudizio di riprovazione personale. La misura resta amministrativa, in quanto priva di un collegamento funzionale con la condotta penale sanzionata, producendo un effetto ulteriore, distinto ed autonomo in un ambito previdenziale “esterno” rispetto all’azione pubblica di repressione penale.
Infine, neppure è soddisfatto il terzo criterio – la gravosità della misura – che il rimettente individua nelle ripercussioni di tipo economico su un soggetto privo di mezzi di sussistenza per sé stesso e la sua famiglia. Rileva che alle esigenze di mantenimento del condannato in regime di detenzione carceraria lo Stato provvede direttamente, assicurandogli il minimo vitale che, ai sensi dell’art. 38 Cost., è garantito da una prestazione assistenziale, quale l’assegno sociale. Peraltro, il familiare nullatenente può accedere autonomamente agli stessi o ad altri benefici.
15.– In conclusione, la revoca prevista dal comma 61 dell’art. 2 della legge n. 92 del 2012 costituisce un effetto extrapenale della condanna penale e, in ogni caso, una misura sanzionatoria amministrativa non afflittiva, priva di natura sostanzialmente penale, la cui applicazione, in relazione a fatti oggetto di sentenze di condanna (per i reati di cui al comma 58 del citato art. 2) divenute definitive prima della sua entrata in vigore, non integra la violazione degli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), sollevate, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Tribunale ordinario di Palermo, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 6 giugno 2023.
F.to:
Silvana SCIARRA, Presidente
Giovanni AMOROSO, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 27 luglio 2023