ORDINANZA N. 28
ANNO 2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 429, comma 2-bis, del codice di procedura penale, in combinato disposto con l’art. 458 del medesimo codice, e dell’art. 34 cod. proc. pen., promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Bologna nel procedimento penale a carico di R.G. C., con ordinanza del 2 dicembre 2021, iscritta al n. 55 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2022.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 febbraio 2023 il Giudice relatore Francesco Viganò;
deliberato nella camera di consiglio del 10 febbraio 2023.
Ritenuto che, con ordinanza del 2 dicembre 2021 (r.o. n. 55 del 2022), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Bologna ha sollevato – in riferimento agli artt. 101, secondo comma, 111, secondo e sesto comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 429, comma 2-bis, del codice di procedura penale, in combinato disposto con l’art. 458 del medesimo codice, «nella parte in cui consente che a celebrare il giudizio abbreviato sia un giudice che, per limiti funzionali, non può ritenersi “terzo e imparziale” e in quanto “non soggetto soltanto alla legge”»;
che il giudice a quo ha altresì censurato l’art. 34 cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio abbreviato del giudice individuato a norma della disposizione di cui all’art. 458 c.p.p., che per le limitazioni derivanti dall’art. 438 co. 1 bis c.p.p. e per l’impossibilità di fare applicazione dell’art. 521 c.p.p. non può essere considerato “terzo e imparziale”», denunziandone il contrasto con gli artt. 111, secondo e sesto comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU;
che il rimettente si trova a celebrare un giudizio abbreviato nei confronti di R.G. C.;
che – espone il giudice a quo – nei confronti dell’imputato il pubblico ministero aveva originariamente chiesto il rinvio a giudizio per omicidio volontario aggravato ai sensi degli artt. 575 e 577, primo comma, numero 4), del codice penale, in relazione all’art. 61, numero 1), cod. pen., per avere volontariamente cagionato la morte di R. N. investendolo con un autotreno: ipotesi delittuosa per la quale l’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. preclude il giudizio abbreviato;
che in esito all’udienza preliminare, nel decreto che dispone il giudizio, il GUP aveva riqualificato il fatto in omicidio stradale (art. 589-bis cod. pen.), fattispecie di reato per cui è invece consentita la celebrazione del giudizio abbreviato;
che, conseguentemente, l’imputato aveva chiesto il giudizio abbreviato ai sensi del combinato disposto degli artt. 429, comma 2-bis, e 458 cod. proc. pen., poi ammesso dal giudice rimettente;
che, ad avviso del giudice a quo, il giudizio abbreviato instaurato in forza delle menzionate disposizioni si differenzierebbe dal giudizio abbreviato “ordinario”, in quanto celebrato non «sulla pretesa punitiva fatta valere nel processo attraverso l’azione intrapresa dal Pubblico Ministero, bensì su un titolo di reato che è individuato dal precedente GUP», con una riqualificazione del fatto «autoritativa» e contenuta in un provvedimento – il decreto che dispone il giudizio – insuscettibile di impugnazione, riqualificazione peraltro che il giudice competente a giudicare con rito abbreviato si troverebbe a subire «per vincolo funzionale», e che comunque egli non potrebbe smentire, quanto meno in peius;
che, pertanto, in questa situazione «il perimetro del giudizio del giudice dell’abbreviato» sarebbe «predeterminato dalla valutazione operata nella precedente fase processuale», essendogli in particolare preclusa, nel caso concreto, la riqualificazione del fatto oggetto di imputazione in quello di omicidio volontario;
che, d’altra parte, non sarebbe qui possibile proporre conflitto ai sensi dell’art. 28, comma 2, cod. proc. pen.;
che, prosegue il rimettente, l’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. impone al giudice di disporre la restituzione degli atti al pubblico ministero, ove accerti che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio;
che tale disposizione, pur se in via generale applicabile anche nel giudizio abbreviato, non lo sarebbe nell’ipotesi speciale prevista dal combinato disposto degli artt. 429, comma 2-bis, e 458 cod. proc. pen., ove al giudice sarebbe precluso «determinarsi in maniera autonoma rispetto all’imputazione come cristallizzata dal giudice dell’udienza preliminare», non essendo in particolare ammissibile «un’indebita regressione avendo il Pubblico ministero correttamente già esercitato l’azione penale per il più grave reato», anche perché «un nuovo esercizio dell’azione penale e una nuova celebrazione dell’udienza preliminare, con la reiterazione di una medesima scansione procedimentale, già svolta, che potrebbe ripetersi senza soluzione di continuità, potrebbe determinare il verificarsi di una stasi processuale non altrimenti superabile»;
che da tale situazione discenderebbe una lesione dell’art. 111, secondo e sesto comma, Cost., e – per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost. – dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU, i quali sanciscono i principi di terzietà e imparzialità del giudice;
che le garanzie in parola – le quali trovano attuazione, nell’ordinamento italiano, nella disciplina dell’incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento di cui all’art. 34 cod. proc. pen. – sarebbero qui vulnerate, in quanto il giudice che celebra il giudizio abbreviato a seguito della riqualificazione del fatto in sede di udienza preliminare «“eredita” un vincolo o limite funzionale della decisione assunta dal giudice che l’ha preceduto» in ordine alla definizione giuridica del fatto, che non potrebbe essere mutata, ostandovi il disposto dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., il quale preclude la celebrazione del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo;
che si produrrebbe conseguentemente una situazione di incompatibilità a giudicare, per «mancanza “funzionale” di terzietà e indipendenza», in quanto «l’individuazione del giudice del giudizio abbreviato, in conseguenza dell’applicazione dell’art. 458 c.p.p., il potere di partecipare al giudizio (come fonte della capacità di definire il giudizio di merito) e il perimetro del giudizio abbreviato (come facoltà/poteri esercitabili a fronte del limite posto dall’art. 438, comma 1-bis c.p.p.)» deriverebbero qui «dalla valutazione di merito operata dal giudice dell’udienza preliminare, ex art. 429, comma 2-bis c.p.p. e dal disposto normativo che prevede che “si applicano le disposizioni di cui all’art. 458 c.p.p.”»;
che il giudice del giudizio abbreviato instaurato a norma degli artt. 429, comma 2-bis, e 458 cod. pen. verserebbe «nella medesima situazione “astratta” di “incompatibilità”, pacificamente sussistente in capo al G.U.P. che ha disposto il rinvio a giudizio, riqualificato il fatto oggetto di contestazione e consentito l’accesso al rito»;
che, invero, se a norma dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., «non può partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare o ha disposto il giudizio immediato», non potrebbe essere considerato terzo e imparziale «un giudice che […] è funzionalmente vincolato, cioè sottoposto alla valutazione fatta da chi l’ha preceduto»;
che, nel caso di specie, il giudice del giudizio abbreviato sarebbe condizionato dalla «forza della prevenzione» – ossia la «naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto» (è citata la sentenza n. 224 del 2001 di questa Corte) – derivante dalle valutazioni già compiute dal giudice dell’udienza preliminare;
che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il principio di imparzialità risulterebbe violato ogni qualvolta le attività poste in essere anteriormente dal giudice, nella stessa o in altra fase processuale, siano tali da comportare una sostanziale anticipazione del giudizio, sia per l’estensione dei poteri affidatigli, sia per l’approfondita conoscenza degli elementi di prova su cui poi sarà chiamato a rendere la decisione di merito (sono richiamate le sentenze della Corte EDU 15 gennaio 2015, Dragojević contro Croazia; 11 luglio 2013, Rudnichenko contro Ucraina; 25 luglio 2000, Tierce e altri contro San Marino; 26 ottobre 1984, De Cubber contro Belgio);
che tali principi dovrebbero applicarsi «anche nel caso in cui il giudizio si incardini avanti a un giudice che, derivando il suo potere dalle valutazioni di merito eseguite dal giudicante che l’ha preceduto, subisca, per effetto di quelle e della previsione di cui all’art. 438, comma 1-bis c.p.p., una limitazione dei poteri esercitabili»;
che l’art. 429, comma 2-bis, cod. proc. pen, nella parte in cui dichiara applicabile l’art. 458 cod. proc. pen., «tenuto conto del disposto» dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., «produce l’individuazione di un giudice naturale che versa in una “incompatibilità” funzionale e, come tale, non può/deve partecipare al giudizio», pena la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU;
che, infine, sarebbe violato il principio di soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), poiché «attraverso l’esercizio del potere di riqualificazione attuato dal giudice dell’udienza preliminare ai sensi dell’art. 429 comma 2-bis c.p.p. si determina in capo al giudice del rito abbreviato un vincolo che non deriva (o quantomeno non soltanto) dalla legge, bensì dall’esercizio stesso di tale potere», con conseguente, inammissibile compressione del libero convincimento;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate;
che l’interveniente evidenzia l’improprietà del richiamo alla sentenza n. 224 del 2001 di questa Corte – la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva l’incompatibilità alla funzione di giudice dell’udienza preliminare del giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza, poi annullata, nei confronti del medesimo imputato e per lo stesso fatto –, atteso che tale pronuncia riguarderebbe la situazione del medesimo giudice-persona fisica che, trovandosi a conoscere nuovamente degli stessi fatti in precedenza scrutinati, «non è portat[ore] di quella serenità, imparzialità e terzietà postulata dall'art. 111 della Costituzione e dall’art. 6, paragrafo 1 della CEDU poiché indott[o], naturalmente, ad un approccio conservativo della decisione precedentemente assunta da se medesim[o]»;
che tale «forza di prevenzione» non potrebbe all’evidenza sussistere ove la decisione da adottare sia affidata, come avvenuto nel caso in esame, ad altro giudice-persona fisica, sicché il richiamo alla giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 34 cod. proc. pen. sarebbe inconferente;
che d’altra parte, ove l’assunto del giudice a quo fosse fondato, «non vi sarebbe alcun giudice avanti al quale incardinare il procedimento», dal momento che la «mancanza di serenità, terzietà e imparzialità paventata dal giudice bolognese, ben potrebbe essere, allo stesso modo, percepita dalla totalità della magistratura»;
che, contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, non sarebbe a questi preclusa né la possibilità di applicare l’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. – ordinando la restituzione degli atti al pubblico ministero in caso di accertamento della diversità del fatto per cui si procede da quello descritto nel decreto che dispone il giudizio – né quella di attribuire al fatto una diversa qualificazione giuridica; attività, quest’ultima, che si risolverebbe semplicemente nella corretta applicazione della legge, consentita e doverosa (è citata Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 20 dicembre 2007-1° febbraio 2008, n. 5307).
Considerato che il rimettente ha sollevato questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 429, comma 2-bis, e 458 cod. proc. pen., e dunque della disciplina che lo individua quale giudice competente per il giudizio abbreviato a carico dell’imputato, ritenendo che essa confligga con i principi della terzietà e imparzialità del giudice, di cui agli artt. 111, secondo e sesto comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU, nonché con il principio di soggezione del giudice soltanto alla legge di cui all’art. 101, secondo comma, Cost. «nella parte in cui consente che a celebrare il giudizio abbreviato sia un giudice che, per limiti funzionali, non può ritenersi “terzo e imparziale” e in quanto “non soggetto soltanto alla legge”»;
che lo stesso rimettente ha sollevato, inoltre, questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 cod. proc. pen., per contrasto con il medesimo principio di terzietà e imparzialità del giudice, «nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio abbreviato del giudice individuato a norma della disposizione di cui all’art. 458 c.p.p., che per le limitazioni derivanti dall’art. 438, co. 1 bis c.p.p. e per l’impossibilità di fare applicazione dell’art. 521 c.p.p., non può essere considerato “terzo e imparziale”»;
che, in sostanza, il giudice a quo – investito del giudizio abbreviato a carico di un imputato rinviato a giudizio, in esito all’udienza preliminare, per il delitto di omicidio stradale – si duole di non potere diversamente qualificare il fatto rispetto alla configurazione ad esso attribuita dal GUP nel decreto che dispone il giudizio, e in particolare di non poter riqualificarlo nel delitto di omicidio volontario, stante l’affermata vincolatività della statuizione del GUP sul punto;
che, d’altra parte, secondo il rimettente, nel giudizio abbreviato richiesto dall’imputato ai sensi del combinato disposto degli artt. 429, comma 2-bis, e 458 cod. proc. pen. non sarebbe applicabile l’art. 521, comma 2, cod. proc. pen., dal momento che la regressione degli atti alla fase delle indagini preliminari comporterebbe una mera reiterazione di scansioni processuali già svolte, con conseguente rischio che si verifichi una stasi processuale insuperabile;
che tale situazione determinerebbe un vulnus al principio di terzietà e imparzialità del giudice, nonché al principio di soggezione del giudice soltanto alla legge;
che, preliminarmente, occorre rilevare che una delle disposizioni censurate, l’art. 429, comma 2-bis, cod. proc. pen. è stata abrogata dall’art. 98, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), entrato in vigore il 30 dicembre 2022;
che tale abrogazione, come chiarito dalla relazione illustrativa al decreto legislativo, è correlata all’introduzione del nuovo comma 1-bis dell’art. 423 cod. proc. pen., che prevede il potere del GUP di invitare il pubblico ministero a operare le necessarie modificazioni dell’originaria imputazione alla luce delle risultanze dell’udienza preliminare, dovendo poi lo stesso GUP restituire gli atti al pubblico ministero ove quest’ultimo non vi provveda: ciò che esclude, per il futuro, la possibilità che il GUP possa disporre direttamente il giudizio sulla base di un’imputazione diversa da quella originariamente formulata dal pubblico ministero;
che, tuttavia, non è necessario restituire gli atti al giudice a quo perché valuti la persistente rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni alla luce del citato ius superveniens, dal momento che – in forza del principio generale tempus regit actum, vigente in materia processuale – il giudizio a quo è già stato incardinato avanti al rimettente in base alla disposizione censurata, che era in vigore al momento di emissione del decreto del GUP che ha disposto il giudizio, sicché la modifica normativa intervenuta non può spiegare alcun effetto nel giudizio medesimo;
che le questioni sollevate sono, nondimeno, manifestamente inammissibili, per un duplice ordine di ragioni;
che, in primo luogo, risulta del tutto oscuro quale sia il risultato cui il rimettente aspira, in conseguenza dell’auspicata dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni oggetto del dubbio di legittimità costituzionale;
che, infatti, tali disposizioni sono censurate nella parte in cui consentono che il giudizio abbreviato introdotto in forza del combinato disposto degli artt. 429, comma 2-bis, e 458 cod. proc. pen. sia celebrato da un giudice che non potrebbe dirsi terzo e imparziale, né soggetto soltanto alla legge – in quanto vincolato alla decisione del precedente GUP cristallizzata nel decreto che dispone il giudizio –, e che non potrebbe, allo stato, dichiararsi incompatibile ai sensi dell’art. 34 cod. proc. pen.;
che, tuttavia, il rimettente non illustra in alcun modo quale altro giudice, non soggetto a tale vincolo (e naturalmente diverso dal GUP che ha disposto il rinvio a giudizio dell’imputato, il quale dal canto suo sarebbe certamente incompatibile ai sensi dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen.), dovrebbe essere competente a giudicare in suo luogo;
che, d’altra parte, il rimettente neppure aspira a una pronuncia di questa Corte che gli consenta di sottrarsi al preteso vincolo alla propria potestas iudicandi determinato dal decreto che dispone il giudizio, e di giudicare così egli stesso della responsabilità dell’imputato qualificando il fatto in maniera diversa da come risulta dal decreto che dispone il giudizio, dal momento che il secondo petitum mira, invece, inequivocabilmente a una pronuncia che gli consenta di dichiararsi incompatibile a giudicare della responsabilità penale dell’imputato;
che, in conseguenza, le questioni sollevate – esaminate nel loro complesso – sfociano in petita oscuri e contraddittori, e già per tale motivo debbono essere considerate manifestamente inammissibili (ex multis, sentenze n. 20 del 2022 e n. 168 del 2021, nonché ordinanza n. 107 del 2022);
che, anche a prescindere da tale rilievo, i parametri costituzionali e convenzionali evocati a sostegno delle censure sono ictu oculi inconferenti rispetto ai pretesi vulnera, così come argomentati nella motivazione dell’ordinanza di rimessione;
che, infatti, il principio di terzietà e imparzialità del giudice, sancito nell’ordinamento interno dall’art. 111, secondo comma, Cost. e nel diritto internazionale, tra l’altro, dall’art. 6, paragrafo 1, CEDU, esclude che possa giudicare di una controversia un giudice che abbia un interesse proprio nella causa (sentenza n. 155 del 1996), ovvero che abbia già precedentemente svolto funzioni decisorie nella stessa causa: preclusione, quest’ultima, finalizzata a «evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla forza della prevenzione – ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda» (sentenza n. 64 del 2022 e numerosi precedenti ivi richiamati);
che tale principio non è, per contro, mai stato evocato – né dalla giurisprudenza di questa Corte, né da quella della Corte EDU – in relazione ad allegati vincoli alla potestas decidendi derivanti dalle decisioni di altri giudici intervenuti nella medesima causa;
che – anche a supporre che tali ipotizzati vincoli effettivamente sussistano nel processo a quo – nemmeno il principio della soggezione soltanto alla legge, sancito dall’art. 101, secondo comma, Cost., appare congruo rispetto alla sostanza del vulnus lamentato;
che, in effetti, tale disposizione – unitamente al complesso di quelle collocate nella Sezione I del Titolo IV della Parte II della Costituzione – è posta, tra l’altro, a presidio del principio dell’indipendenza (cosiddetta “esterna”) del giudice da ogni altro potere dello Stato, così come della sua indipendenza (cosiddetta “interna”) da tutti gli altri giudici, dai quali si distingue soltanto per diversità di funzioni ma rispetto ai quali non si trova in vincolo di soggezione gerarchica;
che mai, però, si è ritenuto che il principio dell’indipendenza “interna” del giudice osti a che la sua potestas iudicandi sia delimitata, in conformità alla legge processuale vigente, da provvedimenti di altri giudici, ovvero da atti di altri soggetti;
che, anzi, è del tutto fisiologico – e non contrasta con l’art. 101, secondo comma, Cost. – che il thema decidendum in ogni processo sia determinato e circoscritto da atti di soggetti diversi dal giudice (come le domande e le eccezioni delle parti nel processo civile, i motivi di ricorso nel processo amministrativo, l’imputazione formulata dal pubblico ministero ed eventualmente modificata dal decreto del GUP che dispone il giudizio nel processo penale), e che unicamente su tale thema decidendum il giudice sia chiamato ad esprimersi;
che neppure può ritenersi violato l’art. 101, secondo comma, Cost. nel caso in cui il giudice sia vincolato alla decisione di altro giudice, come accade al giudice del rinvio rispetto al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione (sentenza n. 50 del 1970), ovvero al giudice contabile rispetto alla questione di massima decisa dalle sezioni riunite della Corte dei conti (sentenza n. 375 del 1996);
che, più in generale, si deve escludere che possa prodursi un vulnus all’art. 101, secondo comma, Cost. in presenza di vincoli alla potestas iudicandi del singolo giudice stabiliti dalla legge processuale, che è anch’essa parte integrante di quella “legge” a cui il giudice è soggetto in forza della previsione costituzionale in parola;
che tale palese inconferenza dei parametri evocati si traduce in una ulteriore ragione di manifesta inammissibilità delle questioni prospettate (così, nell’ambito di giudizi in via principale, sentenze n. 259 e n. 23 del 2022; nell’ambito di giudizi in via incidentale, sentenza n. 172 del 2021 e ordinanza n. 69 del 2021).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 11, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 429, comma 2-bis, del codice di procedura penale, in combinato disposto con l’art. 458 del medesimo codice, e dell’art. 34 cod. proc. pen., sollevate, in riferimento complessivamente agli artt. 101, secondo comma, 111, secondo e sesto comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Bologna con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 2023.
F.to:
Silvana SCIARRA, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 23 febbraio 2023.