SENTENZA N. 231
ANNO 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo CORAGGIO
Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1, e 6, comma 1, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103», promosso dal Tribunale per i minorenni di Brescia, in funzione di tribunale di sorveglianza, nel procedimento nei confronti di A. N., con ordinanza del 16 ottobre 2020, iscritta al n. 206 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2021.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 20 ottobre 2021 il Giudice relatore Giuliano Amato;
deliberato nella camera di consiglio del 20 ottobre 2021.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata il 16 ottobre 2020, il Tribunale per i minorenni di Brescia, in funzione di tribunale di sorveglianza, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, 31, secondo comma, e 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1, e 6, comma 1, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103».
L’art. 4, comma 1, stabilisce che «[s]e la pena detentiva da eseguire non supera i quattro anni il condannato può essere affidato all’ufficio di servizio sociale per i minorenni». L’art. 6, comma 1, consente di «espiare la pena detentiva da eseguire in misura non superiore a tre anni nella propria abitazione o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza o presso comunità».
Ad avviso del giudice a quo, entrambe le disposizioni censurate – nel subordinare l’accesso alle misure alternative da parte dei condannati minorenni a condizioni analoghe a quelle previste per gli adulti – violerebbero gli artt. 3, 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost., perché esse conterrebbero un automatismo, tale da impedire una valutazione individualizzata e caso per caso dell’idoneità della misura a conseguire le preminenti finalità di risocializzazione che debbono presiedere all’esecuzione penale minorile.
È inoltre denunciata la violazione dell’art. 76 Cost., poiché la preclusione delle misure alternative stabilita dalle disposizioni censurate si porrebbe in contrasto con i principi di cui all’art. 1, comma 85, lettera p), numeri 5) e 6), della legge delega 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), che prevedono l’ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e l’eliminazione di ogni automatismo nella concessione dei benefici penitenziari.
2.– Il Tribunale per i minorenni di Brescia è chiamato a decidere in ordine all’istanza del pubblico ministero di applicazione di misure alternative nei confronti di una persona condannata in via definitiva alla pena di cinque anni e quattro mesi di reclusione.
Il giudice a quo riferisce che, contestualmente alla sentenza di condanna, in considerazione della pericolosità sociale del prevenuto, è stata applicata la misura di sicurezza del riformatorio giudiziario. Dal 18 febbraio 2019, la misura in esame ha avuto esecuzione nelle forme del collocamento in comunità, come previsto dall’art. 36, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni) ed è tuttora in atto. Dopo avere sospeso l’esecuzione della pena detentiva, ai sensi dell’art. 656, comma 10, del codice di procedura penale, il pubblico ministero ha disposto che il condannato rimanesse in comunità e ha chiesto al Tribunale rimettente di valutare l’eventuale applicazione di una misura di comunità alternativa al carcere.
Il giudice a quo evidenzia, tuttavia, che nel caso in esame la pena da eseguire è pari a quattro anni, dieci mesi e sei giorni di reclusione ed è pertanto superiore ai limiti posti dalle disposizioni censurate ai fini dell’applicazione dell’affidamento in prova al servizio sociale e della detenzione domiciliare. D’altra parte, non ricorrono le condizioni per l’affidamento in prova di cui all’art. 94 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), che prevede l’innalzamento del limite di pena a sei anni. Ciò comporta necessariamente l’ingresso in carcere del condannato, sino a quando la pena residua non avrà raggiunto la misura di quattro anni. Ne consegue l’interruzione del percorso rieducativo che egli sta positivamente svolgendo in comunità da oltre un anno e mezzo.
2.1.– Il Tribunale dubita, in riferimento all’art. 76 Cost., della legittimità costituzionale dei limiti per la concessione delle misure penali di comunità, stabiliti dagli artt. 4, comma 1, e 6, comma 1, del d.lgs. n. 121 del 2018.
Ad avviso del giudice a quo, il legislatore delegato non avrebbe realizzato gli obiettivi posti dall’art. 1, comma 85, lettera p), della legge n. 103 del 2017 che – nel delegare al Governo l’adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori di età – aveva indicato, all’art. 1, comma 85, lettera p), numeri 5) e 6), i principi dell’ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative alla detenzione e dell’eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefici penitenziari.
I limiti di pena previsti per la concessione delle misure di comunità sarebbero rigidi e sostanzialmente identici a quelli previsti per gli adulti. In questo modo sarebbero stati trascurati i criteri impartiti dalla legge delega, in violazione dell’art. 76 Cost.
Infatti, per l’affidamento in prova al servizio sociale dell’adulto, l’art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) prevede un limite di pena di tre anni, ma al comma 3-bis tale limite è innalzato a quattro anni sulla base di valutazioni talmente discrezionali da consentire, di fatto, una generale applicazione della misura a chi non debba scontare una pena superiore a quattro anni.
Il giudice a quo fa notare, d’altra parte, che per la detenzione domiciliare dei condannati adulti l’art. 47-ter della legge n. 354 del 1975 prevede una molteplicità di livelli: nessun limite di pena per gli ultrasettantenni (comma 01) o nell’ipotesi in cui debba o possa essere disposto il rinvio dell’esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 cod. pen. (comma 1-ter); quattro anni di pena, fra l’altro, proprio per i minori di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia (comma 1, lettera e); due anni negli altri casi. Si sottolinea, infine, che, per espressa previsione dell’art. 6 del d.lgs. n. 121 del 2018, gli artt. 47-quater e 47-quinquies ordin. penit. sono applicati in modo identico nei confronti di adulti e minorenni.
2.2.– La previsione di un trattamento penitenziario dei minorenni sostanzialmente sovrapponibile a quello degli adulti si porrebbe in contrasto anche con l’art. 3 Cost., in quanto comporterebbe un trattamento uguale di situazioni profondamente diverse. Infatti, la situazione del condannato minorenne non sarebbe assimilabile a quella del condannato maggiorenne, posto che, a parità di sanzione detentiva da espiare, ben diversi sarebbero gli effetti della stessa pena sull’adulto e sul minore in crescita.
2.3.– La scelta del legislatore delegato violerebbe anche gli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost. Infatti, la previsione di un rigido limite di pena anche per il minorenne può in concreto rivelarsi una dannosa interruzione dei processi evolutivi in atto, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell’individualizzazione del trattamento.
I limiti di pena previsti dalle disposizioni censurate impedirebbero prognosi personalizzate e flessibilità di trattamento, necessarie per consentire al tribunale di sorveglianza di apprezzare la specificità di ciascun caso e di realizzare un’esecuzione penale «a misura di minore» (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 263 del 2019). In essa, la funzione rieducativa della pena si realizza attraverso un trattamento penitenziario che pone al centro la promozione della persona e non le istanze afflittive e retributive, inevitabilmente connesse all’esecuzione intramuraria della sanzione penale.
3.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque non fondata.
3.1.– La difesa statale ritiene che le scelte del d.lgs. n. 121 del 2018 siano coerenti con i principi posti dalla legge n. 103 del 2017 e con le finalità di ampliare l’accesso alle misure alternative e di eliminare ogni automatismo e preclusione nell’applicazione dei benefici penitenziari.
In particolare, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, il censurato art. 4 si differenzia dall’art. 47 ord. pen. per le prescrizioni relative alle attività di istruzione, di formazione, di lavoro, comunque utili per l’educazione e l’inclusione sociale, nonché per la possibilità di disporre l’esecuzione presso una comunità. Il condannato è affidato all’ufficio di servizio sociale per i minorenni che lo assiste nel percorso di reinserimento sociale, anche mettendosi in relazione con la famiglia e con gli altri ambienti di vita del condannato.
Con riferimento alla detenzione domiciliare, l’Avvocatura generale dello Stato osserva che il censurato art. 6 del d.lgs. n. 121 del 2018, oltre a recepire la disciplina relativa alle ipotesi speciali di detenzione domiciliare (artt. 47-quater e 47-quinquies ordin. penit.), nonché a quella ordinaria dell’art. 47-ter, comma 1, ordin. penit., aggiunge una disciplina speciale rispetto a quella dell’art. 47-ter, comma 1-bis, consentendo di eseguire la pena presso il domicilio, altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza o presso una comunità, quando non è possibile ricorrere all’affidamento in prova al servizio sociale e la pena da eseguire non supera tre anni.
Pertanto, anche nella disciplina della detenzione domiciliare per minorenni sarebbero riscontrabili differenze rilevanti rispetto all’ordinamento penitenziario ordinario. Sarebbero potenziati, infatti, gli aspetti trattamentali, prevedendo la necessità di elaborare un programma di intervento educativo da parte dell’ufficio di servizio sociale per i minorenni. Inoltre, le prescrizioni dell’art. 6, comma 3, sono volte a favorire lo svolgimento di attività utili dal punto di vista pedagogico e funzionali al reinserimento sociale.
3.2.– Quanto alla violazione dell’art. 76 Cost., la difesa statale sottolinea che il contenuto della delega non può essere individuato senza tenere conto del sistema normativo nel suo complesso, poiché soltanto l’identificazione della sua ratio consente di verificare se la norma delegata sia con essa coerente (è richiamata la sentenza n. 237 del 2013 di questa Corte). Nell’attuazione della delega, infatti, il legislatore ha margini di discrezionalità, sempre che ne rispetti la ratio e si inserisca in modo coerente nel quadro normativo. Rientra, pertanto, nei suoi poteri fare delle scelte fra i possibili modi di realizzare l’obiettivo indicato nella legge di delegazione, scelte di cui peraltro occorre verificare la ragionevolezza (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 272 e n. 119 del 2012, n. 230 del 2010, n. 98 del 2008 e n. 163 del 2000).
3.3.– Infine, quanto alla violazione degli artt. 3, 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost., la difesa statale evidenzia che i limiti di pena previsti dalle disposizioni censurate per l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare sono diversi da quelli previsti per gli adulti. Inoltre, le stesse misure di comunità sono volte a favorire lo svolgimento di attività utili dal punto di vista pedagogico e funzionali al reinserimento sociale.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale per i minorenni di Brescia, in funzione di tribunale di sorveglianza, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, 31, secondo comma, e 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1, e 6, comma 1, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103».
L’art. 4, comma 1, stabilisce che «[s]e la pena detentiva da eseguire non supera i quattro anni il condannato può essere affidato all’ufficio di servizio sociale per i minorenni». L’art. 6, comma 1, consente di «espiare la pena detentiva da eseguire in misura non superiore a tre anni nella propria abitazione o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza o presso comunità».
Ad avviso del giudice a quo, entrambe le disposizioni in esame – nel subordinare l’accesso alle misure alternative da parte dei condannati minorenni a condizioni analoghe a quelle previste per gli adulti – violerebbero innanzitutto gli artt. 3, 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost., perché esse conterrebbero un automatismo, tale da impedire una valutazione individualizzata e caso per caso dell’idoneità della misura a conseguire le preminenti finalità di risocializzazione che debbono presiedere all’esecuzione penale minorile. Nella prospettazione del rimettente, la regolazione dell’accesso alle misure penali di comunità stabilita dalle disposizioni censurate sarebbe costituzionalmente illegittima non solo per l’inadeguatezza del relativo ampliamento, ma anche per la stessa previsione di limitazioni rigide all’ammissibilità di tali misure con riferimento ai condannati minorenni.
È, inoltre, denunciata la violazione dell’art. 76 Cost., poiché le condizioni per l’adozione delle misure alternative stabilite dalle disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con i principi di cui all’art. 1, comma 85, lettera p), numeri 5) e 6), della legge delega 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), che prevedono l’ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e l’eliminazione di ogni automatismo nella concessione dei benefici penitenziari.
2.– In via prioritaria, è necessario esaminare la censura che ritiene violato l’art. 76 Cost.
La questione non è fondata.
2.1.– Occorre premettere che, da tempo, la giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che «la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, la quale può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega: pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto da tali margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente» (sentenza n. 142 del 2020; nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 170 del 2019, n. 198 e n. 182 del 2018).
Alla luce di questi principi, deve ritenersi che le disposizioni censurate non abbiano disatteso i principi e i criteri direttivi impartiti dalla legge delega.
2.2.– La legge n. 103 del 2017 – al comma 85, lettera p), dell’art. 1 – ha posto i criteri per l’adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori di età.
In particolare, al numero 5) del comma 85, lettera p), è previsto l’«ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, con particolare riferimento ai requisiti per l’ammissione dei minori all’affidamento in prova ai servizi sociali e alla semilibertà», mentre al numero 6) è contemplata «l’eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefìci penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell’individuazione del trattamento».
Si tratta di principi e criteri direttivi che rispondono all’esigenza di un’esecuzione penale calibrata sulla personalità in evoluzione del minore e sulla preminente finalità educativa dell’esecuzione penale minorile (ex plurimis, sentenze n. 263 del 2019, n. 90 del 2017 e n. 125 del 1992). Sulla base dei principi di socializzazione, individualizzazione del trattamento e di promozione della persona, il legislatore esige che il nuovo sistema dell’esecuzione penale minorile operi secondo valutazioni basate su prognosi personalizzate e funzionali al recupero del minore.
2.3.– Con riferimento al criterio impartito dalla legge delega al richiamato numero 5), va rilevato che la disciplina delle misure penali di comunità introdotta dal d.lgs. n. 121 del 2018 – pur essendo largamente modellata su istituti già previsti dalla legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) – se ne discosta sotto alcuni profili, realizzando un ampliamento delle possibilità di applicazione delle misure extramurarie nei confronti dei condannati minorenni.
Infatti, ai fini dell’accesso all’affidamento in prova al servizio sociale, il limite di tre anni previsto dall’art. 47, comma 1, ord. pen., per i minorenni è elevato a quattro anni dall’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 121 del 2018. È pur vero che il comma 3-bis dell’art. 47 ord. pen. – introdotto dall’art. 3, comma 1, lettera c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 10 – consente in alcuni casi di valutare, ai fini dell’affidamento in prova, condannati che debbano espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni. Tuttavia, si tratta di una possibilità che è comunque subordinata alla verifica giudiziale di talune condizioni soggettive, previste dal comma 2 dello stesso art. 47 ordin. penit. Inoltre, l’apprezzamento di queste condizioni si differenzia dalla valutazione giudiziale compiuta ai fini dell’ammissione dei condannati minorenni alle misure di comunità, poiché esso prescinde dalla considerazione del programma di intervento educativo, che viceversa è centrale nel sistema dell’esecuzione penale minorile, qualificando in termini personali e individualizzati il relativo trattamento penitenziario.
Quanto alla detenzione domiciliare minorile, il censurato art. 6, comma 1, innalza a tre anni il limite di pena residua, a fronte di quello di due anni previsto dall’art. 47-ter, comma 1-bis, ordin. penit. Pertanto – oltre a essere potenziati i profili trattamentali dell’esecuzione, con la previsione di prescrizioni relative alle attività di istruzione, di formazione, di lavoro, volte a promuovere l’educazione e l’inclusione sociale – sono stati innalzati i limiti di pena, rispetto ai quali è possibile l’applicazione delle misure penali di comunità in esame. La disciplina censurata, dunque, non ha trascurato il principio, posto dalla legge delega, dell’ampliamento dei criteri di accesso alle misure penali di comunità e vi ha dato una specifica attuazione.
2.3.1.– È pur vero che, come puntualmente osservato dal rimettente, nel raffronto con i corrispondenti istituti di cui alla legge n. 354 del 1975, i riflessi applicativi di questa estensione possono in concreto rivelarsi piuttosto esigui. Peraltro, l’estensione del prescritto “ampliamento” – da valutarsi con riferimento alla precedente disciplina applicabile ai condannati minorenni – è stata affidata alla discrezionalità del legislatore delegato chiamato a darvi attuazione, non avendone la legge di delegazione predeterminato la misura.
Se ciò vale ad escludere la violazione dei criteri posti dalla legge delega, è innegabile, peraltro, che al fine di regolare l’accesso alle misure penali di comunità siano configurabili assetti diversi, più flessibili e attributivi di maggiori spazi per una valutazione giudiziale, così come era stato previsto, per entrambe le misure penali di comunità in esame, dallo schema governativo di decreto legislativo recante disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, poi modificato nel senso ora sottoposto all’esame.
L’adozione di scelte volte ad ampliare la sfera applicativa delle misure alternative alla detenzione inframuraria rimane, peraltro, auspicabile, in considerazione della preminenza attribuita alla finalità educativa e socializzante dell’esecuzione penale minorile, anche allo scopo di evitare controproducenti interruzioni dello specifico percorso già intrapreso.
2.4.– Quanto all’ulteriore criterio direttivo di cui il rimettente denuncia la violazione, relativo alla eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la concessione e la revoca dei benefìci penitenziari (art. 1, comma 85, lettera p, numero 6), occorre evidenziare che, nel contenuto precettivo della legge delega, esso risulta espressamente qualificato dal «contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell’individuazione del trattamento».
A parte i dubbi sulla riconducibilità dei limiti stabiliti dalle disposizioni censurate alla nozione di automatismo, va rilevato, al riguardo, che da siffatta qualificazione discende che non può ritenersi in contrasto con il criterio direttivo in esame ogni e qualsiasi preclusione alle misure penali di comunità, ma solo quella che – indefettibilmente – comporti un effetto contrastante con la finalità educativa del condannato minorenne e con l’individualità del suo trattamento penitenziario.
Un tale risultato deve certamente escludersi con riferimento alla disciplina censurata.
Da un lato, i limiti stabiliti dalle disposizioni in esame non sono correlati al titolo astratto di reato, né all’entità della pena edittale, né a quella della pena irrogata o applicata, ma alla durata di quella residua ancora da espiare e, quindi, all’arco temporale che separa il condannato dalla fine della pena. In questo modo, nell’attribuire specifico rilievo allo stato di avanzamento del percorso rieducativo, le disposizioni censurate non trascurano la progressione del trattamento di recupero del singolo condannato.
Dall’altro lato, i limiti posti alle misure in esame, pur essendo basati sulla durata della pena residua da espiare – e quindi su un criterio astratto di idoneità della misura extramuraria a fronteggiare le esigenze di educazione e socializzazione del condannato – non sono disgiunti da una valutazione giudiziale del caso concreto e dall’elaborazione di una prognosi individuale. Ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 121 del 2018, infatti, l’applicazione delle misure penali di comunità presuppone, oltre alla verifica della durata della pena residua, un apprezzamento giudiziale che ha ad oggetto sia l’idoneità della misura a favorire l’evoluzione positiva della personalità, sia l’assenza di pericolosità sociale del condannato e quindi una prognosi favorevole in ordine ai suoi futuri comportamenti. Nel caso della detenzione domiciliare, poi, è richiesto un ulteriore presupposto negativo, rappresentato dall’impossibilità di applicare la più ampia misura dell’affidamento in prova, ciò che necessariamente richiede una valutazione del caso concreto. L’apprezzamento giudiziale del percorso rieducativo compiuto dal singolo non è quindi escluso, ma risulta delimitato all’interno delle coordinate stabilite dal legislatore delegato.
Deve escludersi, pertanto, che il mantenimento dei limiti normativi nell’accesso alle misure penali di comunità, stabilito dalle disposizioni censurate, configuri una preclusione contrastante con la funzione rieducativa della pena e lesiva del principio dell’individualità del trattamento penitenziario.
3.– Anche le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost., non sono fondate.
In primo luogo, non è ravvisabile una manifesta irragionevolezza nella scelta legislativa di limitare l’accesso alle due misure penali di comunità in esame a coloro che debbano espiare pene particolarmente elevate. Invero – rispetto a pene superiori ai limiti stabiliti dalle disposizioni censurate – non può ritenersi né irragionevole, né sproporzionato, esigere che al condannato sia (temporaneamente) inibito l’accesso all’affidamento in prova o alla detenzione domiciliare. E ciò nel rispetto di altrettanto fondamentali esigenze di tutela connesse a condotte criminose che siano state ritenute, in concreto e attraverso un rigoroso accertamento giudiziale, meritevoli di sanzioni penali elevate.
Va inoltre escluso che ne risulti vanificata la funzione rieducativa della pena. Da un lato, la disciplina in oggetto, relativa all’affidamento in prova al servizio sociale e alla detenzione domiciliare, non preclude la possibilità di fruire di altri benefici penitenziari previsti dal d.lgs. n. 121 del 2018, alle condizioni stabilite dalle disposizioni che regolano ciascun istituto. D’altra parte, la possibilità di accedere all’affidamento in prova al servizio sociale e alla detenzione domiciliare è riconosciuta allorché la pena da espiare, anche quale residuo di maggior pena, sia inferiore ai limiti stabiliti dalle disposizioni censurate.
Su un piano sistematico, occorre infine rilevare che il complessivo disegno riformatore del d.lgs. n. 121 del 2018 si è mostrato sensibile alle opportunità di socializzazione che devono essere offerte in ciascuna fase del percorso trattamentale, in funzione dell’educazione e del recupero dei condannati. A questi fini, vanno sottolineate le rilevanti innovazioni nell’organizzazione degli istituti penali per i minorenni, introdotte dal Capo IV del d.lgs. n. 121 del 2018, allo scopo di garantire una permanenza rieducativa efficace all’interno degli stessi istituti.
In definitiva, le disposizioni censurate realizzano una ponderazione degli interessi coinvolti che è espressione non irragionevole di discrezionalità legislativa. Esse forniscono perciò una risposta che non contrasta con le esigenze di individualizzazione del trattamento penitenziario minorile, derivanti dai principi costituzionali di protezione dell’infanzia e della gioventù (art. 31, secondo comma, Cost.) e di finalizzazione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.). Va peraltro ribadito che, ai medesimi fini, assetti più flessibili e attributivi di maggiori spazi per una valutazione giudiziale – così come era stato previsto, per entrambe le misure penali di comunità in esame, dall’originario schema governativo di decreto legislativo – risulterebbero particolarmente appropriati.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1, e 6, comma 1, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103», sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, 31, secondo comma, e 76 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Brescia, in funzione di tribunale di sorveglianza, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 2 dicembre 2021.