ORDINANZA N. 49
ANNO 2020
Commento alla decisione di
Francesco Lazzeri
per g.c. di Sistema Penale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Marta CARTABIA;
Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), modificativo dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), e dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, promossi dalla Corte di cassazione con ordinanza del 18 luglio 2019, dalla Corte di appello di Palermo con ordinanza del 29 maggio 2019 e dalla Corte di appello di Caltanissetta con ordinanza dell’8 ottobre 2019, iscritte, rispettivamente, ai numeri 141, 151 e 238 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39 e n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2019 e n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2020.
Visto l’atto di costituzione di E. C., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 26 febbraio 2020 e nella camera di consiglio del 26 febbraio 2020 il Giudice relatore Francesco Viganò;
uditi gli avvocati Giacomo Ventura e Vittorio Manes per E. C., e l’avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 26 febbraio 2020.
Ritenuto che, con ordinanza del 18 luglio 2019 (r.o. n. 141 del 2019), la Corte di cassazione, sezione prima penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), «nella parte in cui inserisce all’art. 4-bis, comma l, della legge 26 luglio 1975, n. 354 [Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà] il riferimento al delitto di peculato di cui all’art. 314, primo comma, cod. pen.»;
che la sezione rimettente espone di essere investita del ricorso per cassazione presentato dal pubblico ministero presso il Tribunale ordinario di Como avverso l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del medesimo tribunale, con la quale – in accoglimento dell’istanza presentata dal condannato – era stato sospeso l’ordine di esecuzione della pena nei confronti di A. P.;
che, secondo quanto riferito dal giudice a quo, A. P. è stato condannato, con sentenza divenuta irrevocabile il 13 febbraio 2019, alla pena di quattro anni di reclusione, per fatti di peculato commessi tra il marzo 2012 e il luglio 2014;
che – in ragione dell’entrata in vigore, il 31 gennaio 2019, della disposizione censurata – il pubblico ministero aveva emesso, il 7 marzo 2019, ordine di carcerazione nei confronti di A. P.;
che il giorno successivo il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Como, in accoglimento del ricorso di A. P., aveva disposto, con il provvedimento impugnato innanzi alla sezione rimettente, la sospensione di detto ordine di carcerazione, con conseguente liberazione del condannato;
che il GIP aveva in particolare ritenuto, in ragione della «consistenza afflittiva» dell’intervento legislativo, la natura «sostanziale» della modifica legislativa attuata mediante la disposizione censurata, «con conseguente applicazione del principio di irretroattività di cui all’art. 2 co. 1 cod. pen.», dovendosi in conseguenza escludere – in assenza di disciplina transitoria espressa, e alla luce dei principi di garanzia espressi dall’art. 25 Cost. e dall’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) – l’applicazione di tale modifica alle condanne per fatti di reato commessi in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019;
che avverso l’ordinanza del GIP il pubblico ministero presso il Tribunale ordinario di Como aveva proposto ricorso per cassazione;
che, come osserva la sezione rimettente, la disposizione censurata ha incluso il delitto di peculato nell’elenco di fattispecie cosiddette “ostative” di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., e conseguentemente ha inciso sull’ambito applicativo dell’art. 656, comma 9, del codice di procedura penale, che prevede il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva successivo al passaggio in giudicato della sentenza di condanna nei confronti, tra l’altro, dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis ordin. penit.;
che, contrariamente all’avviso del GIP, la sezione rimettente ritiene che tale modifica normativa comporti meramente «un diverso (e di certo peggiorativo) assetto regolativo delle “condizioni legali di accesso” alle misure alternative alla detenzione, non già una “cancellazione” delle medesime per gli autori di una determinata condotta di reato»: di talché non si sarebbe verificata, nella specie, alcuna «“variazione” della tipologia di sanzione penale (aspetto, quest’ultimo, trattato dalla Corte Edu nel caso Scoppola contro Italia)», né alcuna «protrazione della durata dalla pena (aspetto trattato dalla Corte Edu nel caso Del Rio Prada contro Spagna)», tali da chiamare in causa il principio di irretroattività delle modifiche normative che inaspriscono il trattamento sanzionatorio previsto per un reato;
che le disposizioni sulle quali incide la modifica normativa avrebbero dunque, secondo il giudice a quo, natura meramente processuale, con conseguente loro sottoposizione al principio tempus regit actum;
che tale inquadramento sarebbe supportato dalla costante elaborazione interpretativa della Corte di cassazione, condivisa dalla stessa giurisprudenza di questa Corte;
che, pertanto, la sezione rimettente osserva che sotto questo profilo essa dovrebbe accogliere il ricorso del pubblico ministero contro il provvedimento di sospensione dell’ordine di esecuzione emesso dal GIP;
che, tuttavia, l’inserimento del delitto di peculato nell’elenco di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. sarebbe di dubbia compatibilità con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.;
che, ove tali questioni fossero ritenute fondate da questa Corte, il provvedimento del GIP dovrebbe essere invece confermato: donde la rilevanza delle questioni medesime;
che, quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, la sezione rimettente ritiene che la disposizione censurata violi l’art. 3 Cost., in quanto la condotta di peculato, così come configurata dal legislatore, non esprimerebbe «alcuno dei connotati idonei a sostenere una accentuata e generalizzata considerazione di elevata pericolosità del suo autore, trattandosi di condotta di approfittamento, a fini di arricchimento personale, di una particolare condizione di fatto (il possesso di beni altrui per ragioni correlate al servizio) preesistente, realizzata ontologicamente senza uso di violenza o minaccia verso terzi e difficilmente inquadrabile – sul piano della frequenza statistica delle forme di manifestazione – in contesti di criminalità organizzata o evocativi di condizionamenti omertosi», e che ben potrebbe risolversi, invece, «in un’unica occasione di consumazione, isolata e marcatamente episodica»;
che, parimenti, sarebbe violato anche l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la norma censurata sottrarrebbe «alla discrezionalità del tribunale di sorveglianza (con anticipazione degli effetti pregiudizievoli in tema di libertà personale derivante dalla previsione di legge di cui all’art. 656 co. 9 cod. proc. pen.)» l’apprezzamento concreto delle caratteristiche obiettive del fatto e della personalità dell’autore, con conseguente pregiudizio ai principi di individualizzazione della pena e del finalismo rieducativo;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate;
che, ad avviso dell’interveniente, le questioni sarebbero anzitutto inammissibili «a fronte di precedenti pronunce di questa Corte che hanno escluso l’incidenza del divieto di retroattività della legge penale sulla normativa penitenziaria» (sono citate la sentenza n. 273 del 2001 e l’ordinanza n. 280 del 2001), pronunce che sarebbero conformi al diritto vivente espresso dalla costante giurisprudenza della Corte di cassazione;
che le questioni sarebbero altresì inammissibili, dal momento che con le stesse si solleciterebbe questa Corte a effettuare un sindacato sulla scelta discrezionale del legislatore di ricomprendere il delitto di peculato di cui all’art. 314, primo comma, del codice penale nell’elenco dei reati cosiddetti ostativi di cui all’art. 4-bis ordin penit.: scelta che non potrebbe ritenersi viziata da irragionevolezza o contrasto con il principio rieducativo della pena, «tenuto conto della gravità del fatto, in sé considerato, e del disvalore attribuito dalla legislazione recente al sistema dei delitti contro l’amministrazione pubblica»;
che, con ordinanza del 29 maggio 2019 (r.o. n. 151 del 2019), la Corte d’appello di Palermo, sezione prima penale, ha sollevato: a) in via principale, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., come integrato dall’art. 4-bis ordin. penit., a sua volta modificato dall’art. l, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui ha inserito il reato di cui all’art. 319-quater, primo comma, cod. pen., nell’elenco di cui all’art. 4-bis, comma l, ordin. penit.; b) in via subordinata, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, questione di legittimità costituzionale del medesimo combinato disposto normativo, nella parte in cui non ha previsto un regime transitorio che dichiari applicabile la modifica normativa ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore;
che il collegio rimettente espone di essere investito, in qualità di giudice dell’esecuzione, di un’istanza di temporanea inefficacia dell’ordine di esecuzione della pena emesso nei confronti di A. D.N.;
che, secondo quanto riferito dal giudice a quo, A. D.N. è stato condannato, con sentenza divenuta irrevocabile il 13 marzo 2019, alla pena di tre anni e quattro mesi di reclusione per il delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319-quater, primo comma, cod. pen., commesso nel giugno 2010;
che il pubblico ministero aveva emesso, il 26 marzo 2019, l’ordine di esecuzione della pena oggetto del ricorso;
che il giudice rimettente esclude preliminarmente di poter accedere a una interpretazione costituzionalmente orientata del combinato disposto censurato, alla luce del diritto vivente – confermato dalla giurisprudenza di questa Corte (sono citate le sentenze n. 376 del 1997 e n. 306 del 1993) – che considera le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione quali norme processuali, come tali soggette al principio tempus regit actum;
che, essendo la sentenza di condanna a carico dell’istante divenuta definitiva dopo l’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, non sarebbe possibile – a parere del collegio rimettente – accogliere la domanda di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena, giusta il disposto dell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen., che esclude tale sospensione nel caso di condanna per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis ordin. penit.;
che il giudice a quo dubita, tuttavia, della compatibilità con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. dell’inserimento nell’art. 4-bis ordin. penit. del delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319-quater, primo comma, cod. pen., operato dalla legge n. 3 del 2019;
che, in caso di accoglimento di tali questioni, l’istanza del ricorrente dovrebbe essere accolta, donde la rilevanza delle questioni medesime;
che, quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente ritiene – in esito ad un’estesa analisi della giurisprudenza costituzionale pertinente – che l’inclusione del delitto di cui all’art. 319-quater, primo comma, cod. pen. sia irragionevole e suscettibile di comprimere indebitamente la funzione rieducativa della pena, non essendo ravvisabili motivazioni della scelta legislativa, ulteriori rispetto a ragioni di mera deterrenza, che possano giustificare l’estensione a tale delitto del regime “ostativo” di cui all’art. 4-bis, primo comma, ordin. penit., né il necessario periodo di osservazione intramuraria discendente dal divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione;
che, in via subordinata, il rimettente dubita della compatibilità con gli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, della mancata previsione di una disposizione transitoria che escluda l’applicazione della modifica normativa in esame ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019;
che anche tali questioni sarebbero, ad avviso del rimettente, rilevanti nel giudizio a quo, posto che ove questa Corte le ritenesse fondate l’istanza del condannato dovrebbe essere accolta;
che, quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo osserva che la mancata previsione di una tale disciplina transitoria «si traduce […] nel passaggio – “a sorpresa” e dunque non prevedibile – da una sanzione “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione»: ciò che si porrebbe in aperto contrasto con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, e in particolare con la sentenza 21 dicembre 2013, Del Rio Prada contro Spagna, che ha esteso il divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU a modifiche normative che comportino «la ridefinizione o la modifica della portata della pena inflitta dal tribunale del merito», con conseguente violazione – assieme – degli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.;
che sarebbe altresì «fonte di ingiustificata disparità di trattamento ex art. 3 Costituzione la novella del 2019 che pone sullo stesso piano, sotto il profilo della esecuzione della pena, chi ha commesso il reato potendo contare su un impianto normativo che gli avrebbe consentito di non scontare in carcere una pena, eventualmente residua, inferiore a 4 anni, e chi ha commesso o commette il reato dopo l’entrata in vigore» della legge n. 3 del 2019;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate;
che, ad avviso dell’interveniente, le questioni sarebbero inammissibili «a fronte di precedenti pronunce di questa Corte che hanno escluso l’incidenza del divieto di retroattività della legge penale sulla normativa penitenziaria» (sono citate la sentenza n. 273 del 2001 e l’ordinanza n. 280 del 2001), pronunce che sarebbero conformi al diritto vivente espresso dalla costante giurisprudenza della Corte di cassazione;
che parimenti inammissibili risulterebbero le questioni prospettate in via subordinata dal giudice a quo, stante la non pertinenza dei richiami alla giurisprudenza della Corte EDU operati nell’ordinanza di rimessione;
che, con ordinanza dell’8 ottobre 2019 (r.o. n. 238 del 2019), la Corte di appello di Caltanissetta, sezione seconda penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui inserisce nell’art. 4-bis, comma l, ordin. penit. il riferimento al delitto di peculato di cui all’art. 314, primo comma, cod. pen.;
che il collegio rimettente espone di essere investito, in qualità di giudice dell’esecuzione, di un’istanza di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena emesso nei confronti di E. C.;
che, secondo quanto riferito dal giudice a quo, E. C. è stato condannato, con sentenza divenuta irrevocabile il 12 settembre 2019, alla pena di tre anni e otto mesi di reclusione per fatti di peculato commessi dall’ottobre 2003 al giugno 2005;
che il pubblico ministero aveva emesso, il 23 settembre 2019, l’ordine di esecuzione della pena oggetto del ricorso, rideterminando la pena da scontare in quella di sette mesi e sei giorni di reclusione, tenendo conto tra l’altro della porzione di pena già estinta per indulto;
che il giudice a quo dubita della compatibilità della disposizione censurata con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. per le medesime ragioni esposte dalla prima sezione penale della Corte di cassazione nell’ordinanza del 18 luglio 2019 (r.o n. 141 del 2019), sopra riferita, di cui riprende ampi passi della motivazione;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate;
che, a giudizio dell’interveniente, le questioni sarebbero inammissibili in quanto solleciterebbero questa Corte a sindacare la scelta discrezionale del legislatore di inserire il delitto di peculato nell’elenco di reati “ostativi” di cui all’art. 4-bis ordin. penit., senza che tale scelta travalichi il canone della ragionevolezza e il criterio di finalità rieducativa della pena;
che si è costituito in giudizio l’istante E. C., chiedendo l’accoglimento delle questioni prospettate;
che, secondo la parte privata, l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. prevedrebbe un regime esecutivo differenziato per taluni reati, fondato su una «presunzione legale di pericolosità sociale parametrata esclusivamente in relazione al titolo di reato commesso, così delineando una tipologia di autore espressione di una carica antisociale incompatibile con un percorso rieducativo esterno al carcere, se non attraverso la “stretta via” della positiva collaborazione con la giustizia e/o la previa espiazione di consistenti quote di pena»;
che, tuttavia, tale presunzione di pericolosità in relazione al delitto di peculato non sarebbe suffragata da alcuna evidenza empirica, né da dati di esperienza generalizzati che dimostrino, alla luce delle particolari caratteristiche della fattispecie considerata ostativa, la ragionevolezza della scelta di escludere la discrezionalità del giudice sulla meritevolezza dell’autore del reato ad accedere a strumenti di rieducazione alternativi;
che, infatti, il delitto di peculato sarebbe «generalmente commesso in chiave monosoggettiva o comunque secondo modalità e in contesti nei quali una forma di “collaborazione”, quale quella di cui all’articolo 323-bis, secondo comma, cod. pen. […] può essere persino difficile da ipotizzare sul piano logico», venendo qui in rilievo «contesti ben diversi rispetto agli ambiti criminali organizzati dove tale istituto – in via del tutto “derogatoria” ed “eccezionale” – ha trovato origine e, secondo taluni, utilità pratica»;
che la presunzione di pericolosità introdotta dalla norma censurata, inoltre, imporrebbe un forzoso passaggio in carcere prima di poter accedere a una misura alternativa alla detenzione, e, dunque, colliderebbe con la finalità rieducativa della pena, cui l’accesso diretto alle misure alternative, senza assaggio di pena, risulta evidentemente orientato;
che il meccanismo ostativo cui sono oggi soggetti anche i condannati per il delitto di peculato si porrebbe in rapporto di frizione, altresì, con il diritto al silenzio di cui all’art. 24 Cost.;
che le ragioni che hanno condotto questa Corte, con la sentenza n. 253 del 2019, a dichiarare parzialmente illegittimo l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. suffragherebbero ulteriormente, secondo la parte costituita, i vizi di legittimità prospettati dal giudice a quo, «evidenziando l’incongruità criminologica di un catalogo normativo ormai amorfo ed aspecifico rispetto alle preclusioni che dallo stesso discendono, in modo del tutto irragionevole e irragionevolmente compressivo dei diritti costituzionali sacrificati», in nome del perseguimento di una «funzione eminentemente placativa del supposto acuirsi del sentimento di riprovazione sociale verso determinate forme di criminalità, avvertite dalla generalità dei cittadini come particolarmente odiose, e all’intento di dare risposta a pulsioni emotive da soddisfare con una “certezza della pena” intesa come “certezza del carcere”, e con una pena custodiale quanto più riottosa a percorsi extramurari di risocializzazione».
Considerato che la Corte di cassazione (r.o. n. 141 del 2019) e la Corte d’appello di Caltanissetta (r.o. n. 238 del 2019) hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale che concernono l’introduzione – ad opera dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici) – del delitto di peculato di cui all’art. 314, primo comma, del codice penale nell’elenco contenuto nell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), introduzione da cui deriva il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena successivo al passaggio in giudicato della sentenza di condanna per tale delitto, ai sensi dell’art. 656, comma 9, del codice di procedura penale;
che la Corte d’appello di Palermo (r.o. n. 151 del 2019) ha sollevato questioni di legittimità costituzionale che nella sostanza investono l’introduzione – ad opera dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 – del delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319-quater, primo comma, cod. pen. nell’elenco contenuto nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., introduzione da cui parimenti deriva il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena successivo al passaggio in giudicato della sentenza di condanna per tale delitto, ai sensi dell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen.;
che i tre giudici rimettenti dubitano della compatibilità delle modifiche normative in parola con gli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione;
che la Corte d’appello di Palermo ha altresì prospettato in via subordinata – in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) – questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., come integrato dall’art. 4-bis ordin. penit., a sua volta modificato dall’art. l, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, che ha inserito il reato di cui all’art. 319-quater, primo comma, cod. pen. nell’elenco di cui all’art. 4-bis, comma l, ordin. penit., nella parte in cui tale combinato disposto non ha previsto un regime transitorio che dichiari applicabile la modifica normativa ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore;
che le tre ordinanze di rimessione sollevano questioni di legittimità costituzionale analoghe, che è opportuno riunire ai fini della decisione;
che questa Corte, con sentenza n. 32 del 2020, decisa il 12 febbraio 2020 e depositata in cancelleria il 26 febbraio 2020, ha dichiarato, tra l’altro, «l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale»;
che le ordinanze di rimessione che vengono ora all’esame di questa Corte sono state pronunciate nell’ambito di incidenti di esecuzione promossi da condannati per delitti di peculato (r.o. n. 141 e n. 238 del 2019) e di induzione indebita a dare o promettere utilità (r.o. n. 151 del 2019) commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019;
che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, a fronte del sopraggiungere di pronunce di illegittimità costituzionale (ordinanza n. 26 del 2009) spetta al giudice rimettente valutare in concreto l’incidenza delle sopravvenute modifiche sia in ordine alla rilevanza, sia in riferimento alla non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate (ex plurimis, ordinanze n. 182 del 2019 e n. 154 del 2018);
che tale verifica assume rilievo pregiudiziale rispetto all’esame dei vizi di legittimità costituzionale dedotti nelle ordinanze di rimessione, compresi quelli prospettati in via subordinata dall’ordinanza iscritta al n. 151 del r.o. 2019;
che, pertanto, deve essere disposta la restituzione degli atti ai rimettenti per un nuovo esame della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni alla luce del mutato contesto normativo.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
ordina la restituzione degli atti ai giudici rimettenti.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 febbraio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2020.