Sentenza n. 154 del 2019

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SENTENZA N. 154

ANNO 2019

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 6 della legge della Regione Sardegna 18 giugno 2018, n. 21 (Misure urgenti per il reclutamento di personale nel sistema Regione. Modifiche alla legge regionale n. 31 del 1998, alla legge regionale n. 13 del 2006, alla legge regionale n. 36 del 2013 e alla legge regionale n. 37 del 2016), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 10-21 agosto 2018, depositato in cancelleria il 17 agosto 2018, iscritto al n. 51 del registro ricorsi 2018 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visto l’atto di costituzione della Regione autonoma Sardegna;

udito nell’udienza pubblica del 21 maggio 2019 il Giudice relatore Nicolò Zanon;

uditi l’avvocato dello Stato Marco Corsini per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Sonia Sau per la Regione autonoma Sardegna.

Ritenuto in fatto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 10-21 agosto 2018 e depositato il 17 agosto 2018 (reg. ric. n. 51 del 2018), ha impugnato gli artt. 2 e 6 della legge della Regione Sardegna 18 giugno 2018, n. 21 (Misure urgenti per il reclutamento di personale nel sistema Regione. Modifiche alla legge regionale n. 31 del 1998, alla legge regionale n. 13 del 2006, alla legge regionale n. 36 del 2013 e alla legge regionale n. 37 del 2016).

Secondo il ricorrente, la legge reg. Sardegna n. 21 del 2018, nell’introdurre una serie di disposizioni in materia di reclutamento del personale, avrebbe travalicato «la competenza legislativa esclusiva regionale, come attribuita dagli articoli 3 e 5 dello Statuto Speciale», violando anche l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione (quanto all’art. 2 della legge reg. Sardegna n. 21 del 2018) nonché l’art. 97 Cost. (quanto all’art. 6 della legge reg. Sardegna n. 21 del 2018).

1.1.– Secondo il ricorrente, in particolare, l’art. 2 della legge reg. Sardegna n. 21 del 2018, nel sostituire l’art. 26, comma 3, della legge della Regione Sardegna 13 novembre 1998, n. 31 (Disciplina del personale regionale e dell’organizzazione degli uffici della Regione), violerebbe i citati parametri statutari e costituzionali, in relazione all’art. 45 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) e, in generale, alle disposizioni contenute nel Titolo III dello stesso decreto legislativo.

Espone il ricorrente che l’art. 26 della legge reg. Sardegna n. 31 del 1998 riconosceva al personale preposto al coordinamento delle unità di progetto per il conseguimento di obiettivi specifici (previste dal comma 1 del medesimo articolo) una retribuzione collegata al conseguimento degli obiettivi stessi, secondo quanto disposto dalla contrattazione collettiva regionale per l’area dirigenziale.

L’art. 2 della legge regionale impugnata ha sostituito il comma 3 dell’art. 26 della legge reg. Sardegna n. 31 del 1998 con un testo del seguente tenore: «Al personale non dirigente preposto al coordinamento delle Unità di cui al comma 1 è riconosciuta una indennità aggiuntiva equiparata alla retribuzione di posizione spettante al direttore di servizio e alla relativa retribuzione di risultato commisurata al raggiungimento degli obiettivi».

Il ricorrente evidenzia che la legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), all’art. 3, comma 1, lettera a), «attribuisce alla potestà legislativa esclusiva regionale» la disciplina dell’ordinamento degli uffici amministrativi regionali e dello stato giuridico ed economico del relativo personale, ma nel rispetto delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica.

Secondo il ricorrente, l’art. 45, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 prevede che il trattamento economico fondamentale ed accessorio è definito dalla contrattazione collettiva e deve seguire «le procedure proprie in contraddittorio con le rappresentanze sindacali».

In base a tali previsioni, profondamente innovative della disciplina precedente sul pubblico impiego, l’intera materia sarebbe retta dai «principi della privatizzazione e della contrattualizzazione collettiva e individuale», che individuerebbero il «metodo di disciplina dei rapporti di lavoro nel settore pubblico», applicabile a tutto il personale dipendente pubblico e, quindi, anche a quello regionale.

Secondo il ricorrente, nel riservare alla contrattazione collettiva l’intera definizione del trattamento economico, nell’ambito di una visione privatistica del rapporto di pubblico impiego, il legislatore avrebbe appunto attuato «una fondamentale riforma economica e sociale della Repubblica» (come peraltro risulterebbe espressamente dall’art. 1 del d.lgs. n. 165 del 2001), sicché «le norme che traducono questa riforma» costituirebbero «limite invalicabile alla potestà legislativa – anche esclusiva – delle regioni».

Il ricorrente osserva che la legge regionale previgente lasciava alla contrattazione collettiva regionale per l’area dirigenziale l’individuazione delle retribuzioni del personale preposto al coordinamento delle unità di progetto.

La disposizione censurata, invece, ignorerebbe del tutto la fonte contrattuale e fisserebbe autonomamente sia l’attribuzione che la misura della voce retributiva spettante al personale preposto al coordinamento delle predette unità, ponendosi, per questa ragione, in contrasto con la norma statale che impone la definizione del trattamento economico fondamentale e accessorio del personale pubblico mediante contrattazione collettiva, così violando il limite del rispetto delle norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica.

Del resto, aggiunge il ricorrente, se pure alla potestà legislativa regionale è demandata la materia dell’organizzazione degli uffici, tuttavia la disciplina del rapporto di lavoro non atterrebbe ai profili organizzativi, rientrando piuttosto nella sfera contrattuale, attribuita alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, cui è riservata la materia dell’«ordinamento civile», ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

Il rapporto di impiego alle dipendenze di Regioni ed enti locali, essendo stato privatizzato, sarebbe per questo retto dalla disciplina generale dei rapporti di lavoro privatistici, nonché soggetto alle regole statali che ne garantiscono l’uniformità. Per questo, i principi fissati dalla legge statale in materia costituirebbero tipici limiti di diritto privato, fondati sull’esigenza, connessa al precetto costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità, sul territorio nazionale, delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti tra privati. Come tali, i principi in parola si imporrebbero anche alle Regioni a statuto speciale (viene citata, in tal senso, la sentenza n. 189 del 2007).

Secondo il ricorrente, la disposizione censurata atterrebbe alla disciplina del rapporto di lavoro e non «alla mera organizzazione degli uffici», riferendosi al trattamento economico di una categoria di personale dipendente regionale, sicché non potrebbe sottrarsi alla regola della necessaria fonte contrattuale collettiva come espressamente e inderogabilmente stabilito dalle norme statali.

In definitiva, secondo il ricorrente, la disposizione impugnata dovrebbe essere dichiarata costituzionalmente illegittima, sia perché contrastante con norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica (travalicando, quindi, i limiti posti alla competenza legislativa regionale), sia perché indebitamente invasiva della sfera di potestà legislativa esclusiva attribuita allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

1.2.– Il ricorrente censura anche l’art. 6 della legge reg. Sardegna n. 21 del 2018, il quale, nel sostituire il comma 2 dell’art. 54 della legge reg. Sardegna n. 31 del 1998, si sarebbe posto in contrasto con gli artt. 3 e 5 dello statuto speciale, nonché con l’art. 97 Cost., «in riferimento all’art. 4 del decreto legislativo n. 165 del 2001».

La disposizione impugnata prevede che l’assessore competente in materia di personale, «sulla base delle necessità di personale definite dall’Amministrazione e dagli enti del sistema Regione ed alle quali non si possa far fronte mediante processi di mobilità, fissa il contingente dei posti da mettere a concorso, definito per specifiche professionalità e sedi di destinazione».

Ad avviso del ricorrente, la disposizione, «pur attenendo a profili organizzatori degli uffici regionali e quindi pur rientrando nella competenza legislativa esclusiva regionale», travalicherebbe i limiti di tale competenza, che deve sempre essere esercitata «nel rispetto delle norme fondamentali di riforma economico sociale della Repubblica».

Il limite in parola non sarebbe stato rispettato, perché il ruolo attribuito all’assessore al personale lederebbe «il principio della rigorosa separazione tra compiti di indirizzo politico e compiti gestionali», come fissato dall’art. 4 del d.lgs. n. 165 del 2001, da considerare norma di grande riforma economico-sociale della Repubblica.

L’art. 4 da ultimo citato, osserva il ricorrente, stabilisce che agli organi di governo spettano le funzioni di indirizzo politico amministrativo, attraverso la definizione degli obiettivi e dei programmi da attuare nonché attraverso gli atti da adottare in quanto rientranti in quelle funzioni. In tal modo, al vertice politico competerebbe la «individuazione delle risorse umane [...] da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale».

La disposizione censurata, invece, attribuirebbe all’organo politico la diversa funzione di individuare il «fabbisogno assunzionale sia della regione che degli enti di sistema, distinto per specifiche professionalità e sedi di destinazione», attività che sembrerebbero – a giudizio del ricorrente – «più propriamente attenere all’organizzazione delle risorse umane e strumentali, e quindi rientrare nelle competenze gestionali della dirigenza».

Secondo il ricorrente, l’accertamento delle carenze di organico e l’apprezzamento del grado di sofferenza delle singole sedi in relazione a tali carenze, nonché l’individuazione delle professionalità necessarie allo svolgimento delle attività istituzionali, sarebbero strumentali non tanto alla definizione degli obiettivi dell’ente, quanto piuttosto al modo con cui quegli obiettivi devono essere raggiunti: non riguarderebbero, dunque, l’indirizzo politico, quanto piuttosto l’attività di gestione, «essendo noto che l’effettivo raggiungimento degli obiettivi è il parametro su cui si fonda la produttività delle strutture amministrative e, in definitiva, il grado di efficienza della pubblica amministrazione».

2.– La Regione autonoma Sardegna si è costituita in giudizio, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, comunque, non fondato.

2.1.– La resistente, con riferimento all’impugnativa dell’art. 2 della legge reg. Sardegna n. 21 del 2018, osserva che è lo stesso ordinamento statale a prevedere – all’art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001 – alcune ipotesi in cui, ferma la qualifica di appartenenza, ai dipendenti possono essere temporaneamente conferiti incarichi di funzioni dirigenziali, con integrazione del trattamento economico.

Ciò posto, la resistente evidenzia che la Regione autonoma Sardegna, per specifiche finalità e per la durata necessaria a realizzarle, nel 2014, con una precedente modifica all’art. 26 della legge reg. Sardegna n. 31 del 1998 – operata dall’art. 10 della legge della Regione Sardegna 25 novembre 2014, n. 24 (Disposizioni urgenti in materia di organizzazione della Regione), allora non impugnato dallo Stato – aveva autorizzato la costituzione delle cosiddette «Unità di progetto», prevedendo che potessero essere coordinate da dirigenti o, «stante la cronica carenza nel sistema Regione di tali figure», anche da dipendenti in possesso dei requisiti per l’accesso alla qualifica dirigenziale, ai quali veniva riconosciuta la retribuzione di risultato prevista dal contratto collettivo regionale di lavoro per l’area dirigenziale.

Con la disposizione impugnata, ad avviso della resistente, il legislatore regionale non avrebbe inteso individuare autonomamente la retribuzione del personale preposto al coordinamento delle unità di progetto, ma esclusivamente riconoscergli l’intero trattamento accessorio (retribuzione di risultato e di posizione) che il contratto collettivo regionale di lavoro per l’area dirigenziale prevede per i dirigenti.

Non sarebbe stata, pertanto, introdotta alcuna modifica sostanziale, «ma esclusivamente un’estensione di istituti contrattuali propri dei dirigenti» (con particolare riferimento al trattamento accessorio), a soggetti chiamati a svolgere, temporaneamente, funzioni dirigenziali.

Inoltre, «la mancata menzione del contratto collettivo» non varrebbe «a renderlo inoperante», dal momento che il trattamento cui fa riferimento la norma sarebbe proprio quello previsto dal contratto collettivo regionale per l’area dirigenziale, che ne contiene la compiuta misura.

Rispetto alla precedente versione della norma, dunque, non sarebbe intervenuta, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, alcuna modifica nell’individuazione della fonte di disciplina del trattamento economico accessorio, che rimarrebbe quello previsto dal contratto collettivo per i dirigenti, «ma solo il suo integrale riconoscimento per ragioni di equità», anche «al fine di rispettare l’art. 36 della Costituzione».

2.2.– Con riferimento all’impugnativa dell’art. 6 della legge reg. Sardegna n. 21 del 2018, la resistente ne deduce innanzitutto l’inammissibilità, ritenendo le censure contraddittorie, generiche e, comunque, formulate in modo dubitativo.

Ricorda che l’art. 4 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce che gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, tra cui, in particolare, la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l’azione amministrativa e per la gestione (lettera b) e la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale (lettera c).

L’art. 8 della legge reg. Sardegna n. 31 del 1998 ricalcherebbe quanto stabilito dal legislatore statale.

Ciò posto, la resistente evidenzia che il ricorrente si limita a riportare il contenuto delle suddette disposizioni «e ad asserire l’illegittimità di quella regionale, senza tuttavia esplicitare in cosa consista la violazione dei principi delle norme fondamentali di riforma economico sociale o dell’art. 97 della Costituzione».

Secondo la resistente, il «fabbisogno assunzionale», in base alla disposizione impugnata, non sarebbe determinato dall’assessore, che si limiterebbe «a raccogliere le necessità espresse a livello amministrativo», mentre sarebbe necessariamente rimessa all’organo politico la determinazione di quanto del fabbisogno espresso possa essere soddisfatto.

L’assessore sarebbe cioè chiamato, unicamente, a fissare il contingente dei posti da mettere a concorso per l’intero sistema regionale, che non potrebbe certo «essere rimesso al plenum dei dirigenti dei molteplici assessorati e enti», dal momento che la destinazione delle risorse economiche a disposizione, in base alle priorità, agli obiettivi e ai programmi che il governo regionale intende realizzare, sarebbe di sicura competenza dell’organo politico.

Inoltre, sempre a giudizio della resistente, sarebbe legittimo che il contingente dei posti da mettere a concorso non sia individuato genericamente, ma con riferimento alle professionalità che si intende acquisire prioritariamente e alle sedi che hanno maggior esigenza di personale.

Il singolo dirigente, invece, «assegnerebbe sempre certamente priorità alla propria struttura e alle professionalità in esse maggiormente utili, senza la necessaria valutazione di insieme».

La resistente evidenzia che il ricorso «si limita a dubitare che le attività rimesse dalla norma all’Assessore in materia di personale, rientrino invece in non meglio specificate competenze gestionali della dirigenza», omettendo anche di considerare che, ai sensi dell’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 8, comma 4, della legge reg. Sardegna n. 31 del 1998, «deroghe espresse da parte di specifiche disposizioni legislative sono pacificamente ammissibili».

La deroga, peraltro, nel caso concreto, «sarebbe non solo legittima ma anche opportuna», per la necessità di avere una visione d’insieme da parte dell’organo chiamato a stabilire la destinazione delle risorse.

Considerato in diritto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna gli artt. 2 e 6 della legge della Regione Sardegna 18 giugno 2018, n. 21 (Misure urgenti per il reclutamento di personale nel sistema Regione. Modifiche alla legge regionale n. 31 del 1998, alla legge regionale n. 13 del 2006, alla legge regionale n. 36 del 2013 e alla legge regionale n. 37 del 2016), per contrasto con gli artt. 3 e 5 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), nonché, quanto all’art. 2 della legge regionale impugnata, con l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione e, quanto all’art. 6 della stessa legge regionale, con l’art. 97 Cost.

L’art. 2 della legge reg. Sardegna n. 21 del 2018 ha sostituito il comma 3 dell’art. 26 della legge della Regione Sardegna 13 novembre 1998, n. 31 (Disciplina del personale regionale e dell’organizzazione degli uffici della Regione) con un testo del seguente tenore: «[a]l personale non dirigente preposto al coordinamento delle Unità di cui al comma 1 è riconosciuta una indennità aggiuntiva equiparata alla retribuzione di posizione spettante al direttore di servizio e alla relativa retribuzione di risultato commisurata al raggiungimento degli obiettivi».

Secondo il ricorrente, la disposizione avrebbe travalicato il limite posto all’esercizio della potestà legislativa primaria pur attribuita alla Regione autonoma Sardegna dall’art. 3, comma 1, lettera a), della legge cost. n. 3 del 1948. La norma dello statuto, infatti, riconosce la potestà in parola nella materia «ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione e stato giuridico ed economico del personale», ma esige che essa sia esercitata nel rispetto delle «norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica».

A tale ultima categoria di norme il ricorrente riconduce, in particolare, l’art. 45 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche). Mentre quest’ultimo, nell’ambito dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, dispone che il trattamento economico fondamentale ed accessorio sia definito dai contratti collettivi, la disposizione censurata fisserebbe autonomamente sia l’attribuzione che la misura della voce retributiva spettante al personale preposto al coordinamento di articolazioni organizzative regionali. Essa si porrebbe perciò in frontale contrasto con la norma statale – vincolante anche per le autonomie speciali – che impone, invece, che il trattamento economico fondamentale ed accessorio del personale pubblico sia definito attraverso l’intermediazione della fonte contrattuale, in questo caso del tutto trascurata.

L’art. 6 della legge reg. Sardegna n. 21 del 2018 è, dal canto suo, impugnato nella parte in cui ha sostituito il comma 2 dell’art. 54 della legge reg. Sardegna n. 31 del 1998, il quale ora dispone che l’assessore competente in materia di personale, «sulla base delle necessità di personale definite dall’Amministrazione e dagli enti del sistema Regione ed alle quali non si possa far fronte mediante processi di mobilità, fissa il contingente dei posti da mettere a concorso, definito per specifiche professionalità e sedi di destinazione».

Anche in tal caso, il ricorrente ritiene che la Regione autonoma Sardegna abbia esercitato la potestà legislativa primaria in materia di organizzazione degli uffici regionali, riconosciutagli dalla sopra ricordata previsione statutaria, travalicando i limiti imposti dallo stesso statuto di autonomia.

In tal caso, la norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica, asseritamente disattesa, viene individuata nell’art. 4 del d.lgs. n. 165 del 2001, che imporrebbe il principio «della rigorosa separazione tra compiti di indirizzo politico e compiti gestionali».

In particolare, a giudizio dell’Avvocatura generale dello Stato, l’individuazione del fabbisogno di assunzione di personale, sia della Regione che degli enti di sistema, non spetterebbe all’organo politico, dovendo più propriamente rientrare «nelle competenze gestionali della dirigenza».

2.– È fondata la questione promossa sull’art. 2 della legge reg. Sardegna n. 21 del 2018, che sostituisce il comma 3 dell’art. 26 della legge reg. Sardegna n. 31 del 1998.

L’art. 26, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 31 del 1998 prevede la costituzione di «Unità di progetto» per il conseguimento di obiettivi specifici, coordinate da personale dirigente ovvero da dipendenti in possesso dei requisiti per l’accesso alla qualifica dirigenziale.

La disposizione impugnata dispone l’attribuzione di un’indennità aggiuntiva ai dipendenti che, pur non in possesso della qualifica dirigenziale, siano incaricati di coordinare le suddette unità di progetto.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, a seguito della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, la disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione è retta dalle disposizioni del codice civile e dalla contrattazione collettiva (tra le ultime, sentenze n. 62 e n. 10 del 2019).

In particolare, dall’art. 2, comma 3, terzo e quarto periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001, emerge il principio per cui il trattamento economico dei dipendenti pubblici è affidato ai contratti collettivi.

Anche la posizione dei dipendenti regionali è attratta dalla citata disciplina del trattamento economico e giuridico dei dipendenti pubblici, ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001. Di conseguenza, il rapporto di impiego dello stesso personale delle Regioni è regolato dalla legge dello Stato e, in virtù del rinvio da questa operato, dalla contrattazione collettiva.

In relazione al riparto delle competenze tra Stato e Regioni, ciò comporta che la disciplina di tale trattamento economico e, più in generale, quella del rapporto di impiego pubblico, rientri nella materia «ordinamento civile», riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 175 e n. 160 del 2017).

Con riferimento alle Regioni a statuto speciale, è necessario, peraltro, tenere in conto le competenze statutarie di queste ultime. Per quanto concerne la Regione autonoma Sardegna, va quindi considerata la competenza legislativa primaria in tema di «stato giuridico ed economico del personale» di cui all’art. 3, comma 1, lettera a), dello statuto di autonomia.

La potestà legislativa primaria della Regione autonoma Sardegna, tuttavia, per espressa previsione statutaria, deve essere esercitata nel «rispetto […] delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica».

A tale proposito, con le sentenze n. 257 del 2016 e n. 211 del 2014, questa Corte ha ricordato, proprio con riguardo al trattamento economico, che l’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce che l’attribuzione di tali trattamenti può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi, mentre l’art. 45 dello stesso decreto ribadisce che il trattamento economico fondamentale ed accessorio è definito dai contratti collettivi.

Si tratta, come sancito ancora di recente con la sentenza n. 81 del 2019, di una disciplina che «costituisce norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica» (in tal senso già la sentenza n. 314 del 2003). Per di più i principi fissati dalla legge statale in materia «costituiscono tipici limiti di diritto privato, fondati sull’esigenza, connessa al precetto costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti tra privati e, come tali, si impongono anche alle Regioni a statuto speciale» (sentenza n. 189 del 2007, richiamata dalla già citata sentenza n. 81 del 2019).

Nell’attribuire al personale non in possesso di qualifica dirigenziale una indennità aggiuntiva equiparata al trattamento spettante ai dirigenti (sia pure in conseguenza della preposizione al coordinamento delle unità di progetto di cui all’art. 26, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 31 del 1998), la disposizione impugnata si pone, perciò, in contrasto frontale con tale riserva di contrattazione collettiva e va dichiarata costituzionalmente illegittima.

3.– La questione promossa sull’art. 6 della legge reg. Sardegna n. 21 del 2018 è invece inammissibile, a causa dell’omessa ricostruzione del complessivo contesto normativo entro il quale la disposizione impugnata è ricompresa.

La censura individua bensì la norma oggetto ed evoca i pertinenti parametri statutari. Tuttavia, in ordine alla specificazione delle ragioni del contrasto, si limita a prospettare la violazione del principio di separazione tra attività di indirizzo politico e attività di gestione amministrativa, espresso dall’art. 4 del d.lgs. n. 165 del 2001, che costituisce norma di grande riforma economico-sociale e come tale prevalente anche sulle competenze statutarie in materia di «ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione», di cui all’art. 3, comma 1, lettera a), dello statuto speciale.

Questa affermazione, tuttavia, esaurisce il contenuto del ricorso, non essendo ulteriormente illustrate le ragioni per le quali contrasterebbe con tale principio l’attribuzione all’organo di direzione politica del compito di individuare il fabbisogno di assunzione di personale.

Non sufficiente, a tal fine, risulta l’evocazione dell’art. 4 del d.lgs. n. 165 del 2001, se solo si considera la rilevanza assunta dall’art. 6 del medesimo decreto, di recente modificato dall’art. 4 del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, recante «Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche».

L’art. 6, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, infatti, disciplina, tra l’altro, il cosiddetto piano triennale dei fabbisogni di personale, prevedendone con chiarezza l’adozione ad opera degli organi di vertice delle amministrazioni.

Il decreto del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione dell’8 maggio 2018 – recante le linee di indirizzo per la predisposizione dei piani dei fabbisogni di personale da parte delle amministrazioni pubbliche e adottato ai sensi dell’art. 6-ter del d.lgs. n. 165 del 2001 – evidenzia che il piano si configura come un atto di programmazione, e ribadisce che esso deve essere approvato dal competente organo deputato all’esercizio delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo, proprio ai sensi dell’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001.

Il piano si sviluppa, ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. n. 165 del 2001, in prospettiva triennale e deve essere adottato annualmente, per poter essere variato in relazione alle mutate esigenze di contesto normativo, organizzativo o funzionale.

Si tratta quindi, per usare la definizione contenuta nel citato decreto ministeriale, di uno «strumento programmatico, modulabile e flessibile, per le esigenze di reclutamento e di gestione delle risorse umane necessarie all’organizzazione».

Nell’ambito delle previsioni del piano, che deve contenere una distinzione dei fabbisogni di personale per categorie e profili professionali, le amministrazioni potranno poi coprire i posti vacanti nei limiti delle facoltà di assunzione previste a legislazione vigente, nonché nei limiti di spesa per il personale previsti e dei relativi stanziamenti di bilancio.

Nell’elaborazione del piano, peraltro, è imprescindibile la collaborazione della componente dirigenziale, come del resto testualmente previsto dall’art. 16, comma 1, lettera a-bis), del d.lgs. n. 165 del 2001.

L’art. 35, comma 4, del medesimo d.lgs. n. 165 del 2001 dispone, infine, che le determinazioni relative all’avvio di procedure di reclutamento sono adottate da ciascuna amministrazione o ente sulla base del piano triennale dei fabbisogni approvato ai sensi dell’art. 6, comma 4. Questo successivo adempimento è demandato alle determinazioni dirigenziali, cui compete l’emanazione dei bandi, la proclamazione dei vincitori e la destinazione finale di questi ultimi nell’ambito dei posti messi a concorso.

Non a caso, l’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 prevede che, nell’ambito del piano relativo ai fabbisogni del personale, le amministrazioni pubbliche curano l’ottimale distribuzione delle risorse umane attraverso la coordinata attuazione dei processi di mobilità e di reclutamento del personale, attività che spettano, evidentemente, alla responsabilità dirigenziale.

Di tutta questa complessa trama normativa il ricorso semplicemente tace, limitandosi a lamentare, come s’è detto, un presunto vulnus al principio di separazione tra indirizzo politico e funzione gestionale, asseritamente arrecato dall’attribuzione all’organo politico del compito di individuare il «fabbisogno assunzionale».

Tali carenze non possono che condurre alla dichiarazione d’inammissibilità in parte qua del ricorso, in applicazione della giurisprudenza di questa Corte relativa ai casi di ricostruzione solo parziale – ma qui, a ben vedere, del tutto omessa – del quadro normativo di riferimento (da ultimo, sentenza n. 133 del 2017).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Sardegna 18 giugno 2018, n. 21 (Misure urgenti per il reclutamento di personale nel sistema Regione. Modifiche alla legge regionale n. 31 del 1998, alla legge regionale n. 13 del 2006, alla legge regionale n. 36 del 2013 e alla legge regionale n. 37 del 2016);

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge reg. Sardegna n. 21 del 2018, promossa, in riferimento agli artt. 3 e 5 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna) e all’art. 97 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 giugno 2019.