SENTENZA N. 212
ANNO 2018
Commento
alla decisione di
Anna
Lorenzetti
per g.c. di Diritti Comparati
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI
Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
- Luca ANTONINI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale degli artt.
3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5,
recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in
materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed
integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi
dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76)»,
promosso dal Tribunale ordinario di Ravenna con ordinanza
depositata il 22 novembre 2017, iscritta al n. 32 del registro ordinanze 2018
e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie
speciale, dell’anno 2018.
Visto l’atto di costituzione di
G. Z.G. e G. G., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella udienza pubblica del 9 ottobre 2018 il Giudice relatore Giuliano
Amato;
udito l’avvocato Stefano Chinotti per G. Z.G. e G. G. e l’avvocato dello Stato
Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 22
novembre 2017, il Tribunale ordinario di Ravenna ha sollevato questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del
decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle
disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni,
trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per
la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28,
lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 22, 76 e 117, primo comma,
della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art.
8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt.
1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE),
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre
2007.
1.1.– In particolare, l’art. 3, lettera c), numero
2), del d.lgs. n. 5 del 2017 inserisce nell’art. 20 del d.P.R.
30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della
popolazione residente), il comma 3-bis, il quale prevede che «[p]er le parti dell’unione civile le schede devono essere intestate
al cognome posseduto prima dell’unione civile».
L’art. 8 dello stesso
decreto legislativo dispone che «[…] l’ufficiale dello stato civile, con la
procedura di correzione di cui all’articolo 98, comma 1, del decreto del
Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, annulla l’annotazione
relativa alla scelta del cognome effettuata a norma dell’articolo 4, comma 2,
del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144».
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, entrambe le
disposizioni censurate violerebbero, in primo luogo, l’art. 2 Cost., poiché la
parte dell’unione civile verrebbe privata, d’ufficio e senza contraddittorio,
del cognome comune legittimamente acquisito e utilizzato, così determinando la
lesione dei diritti al nome, all’identità e alla dignità personale.
Sarebbe violato anche il
principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.,
non essendo rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale d’intervenire
d’imperio, con la procedura senza contraddittorio prevista per la correzione di
errori materiali, al fine di mutare l’identità personale di un soggetto.
Inoltre, le disposizioni
censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 22 Cost.,
poiché, con l’eliminazione della valenza anagrafica del cognome comune, la
parte dell’unione civile verrebbe privata di un cognome già acquisito.
Esse sarebbero altresì in
contrasto con l’art. 76 Cost., poiché il legislatore
delegante non avrebbe conferito alcun potere di revoca o annullamento delle
iscrizioni e annotazioni già effettuate.
Infine, è denunciata la
violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.,
poiché sarebbe pregiudicato il diritto al nome e al rispetto della vita privata
e familiare, garantito dall’art. 8 della CEDU e dagli artt. 1 e 7 della CDFUE.
2.– Il Tribunale ordinario di Ravenna è chiamato
a decidere in ordine al ricorso proposto da due persone unite civilmente al
fine di ottenere, ai sensi dell’art. 98 del d.P.R. 3
novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione
dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della
legge 15 maggio 1997, n. 127), l’annullamento della variazione delle generalità
anagrafiche di una di esse, eseguite in applicazione delle disposizioni
censurate.
Il giudice a quo riferisce
che, al momento della costituzione dell’unione civile, in base all’art. 1,
comma 10, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni
civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), i
ricorrenti hanno scelto quale cognome comune quello di uno di essi, mentre
l’altro ha dichiarato di voler aggiungere al proprio il cognome comune. A
seguito di tale scelta, è stata modificata la sua scheda anagrafica e sono
state conseguentemente rinnovate la carta d’identità, la tessera sanitaria e
altri documenti personali.
Il giudice rimettente
riferisce che, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2017,
l’ufficiale d’anagrafe ha provveduto alla variazione delle generalità
anagrafiche e all’annullamento dell’annotazione relativa alla scelta del
cognome eseguita in base all’art. 4, comma 2, del decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144 (Regolamento recante disposizioni
transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato
civile, ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76),
nonché dell’annotazione nell’atto di nascita presso i registri dello stato
civile, ripristinando il cognome originario.
Ad avviso del giudice a
quo, le censurate disposizioni del d.lgs. n. 5 del 2017 avrebbero determinato
la sostanziale abrogazione dell’art. l, comma 10, della legge n. 76 del 2016 e
ne avrebbero negato l’originario contenuto precettivo, volto a riconoscere il
diritto delle parti dell’unione civile di assumere a tutti gli effetti un
cognome comune, consentendo ad una di esse di modificare il cognome originario.
Da ciò discenderebbe la violazione di diritti fondamentali della persona,
tutelati anche a livello sovranazionale, ed in particolare dagli artt. l e 7
della CDFUE, nonché dall’art. 8 della CEDU.
Ad avviso del rimettente,
l’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, nella parte in cui priva la persona di un
cognome già acquisito e utilizzato, disponendo retroattivamente la modifica di
una situazione anagrafica legittimamente costituita prima dell’entrata in
vigore del medesimo decreto, violerebbe il diritto al nome, all’identità e
dignità personale, nonché il diritto al rispetto della vita privata e
familiare.
Il giudice a quo fa
rilevare che gli artt. 6 e seguenti del codice civile sanciscono il diritto al
nome, prevedendo il generale divieto di mutamento dello stesso. Infatti, non
sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con
le formalità previste dall’art. 89 del d.P.R. n. 396
del 2000. Ancorché previsto da una legge ordinaria, sarebbe indubitabile il
rilievo costituzionale del diritto al nome (composto da nome e cognome), quale
elemento costitutivo del diritto all’identità personale, tutelato dall’art. 2 Cost., anche nelle formazioni sociali nelle quali si esplica
la personalità dell’individuo. Il rimettente osserva che il nome è stato
ritenuto meritevole di un’espressa tutela anche da parte dell’art. 22 Cost. che, sia pure per il solo caso in cui ciò avvenga per motivi
politici, prevede che «nessuno può essere privato del nome».
Inoltre, la norma delegata
si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.),
poiché non sarebbe rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale
d’intervenire d’imperio e con la procedura senza contraddittorio prevista per
la correzione di errori materiali (art. 98 del d.P.R.
n. 396 del 2000) al fine di mutare l’identità personale di un soggetto.
Il giudice rimettente
sottolinea che, in caso di mutamento di status, l’interessato ha diritto di
essere sentito e di opporsi al mutamento del proprio cognome (art. 262 cod.
civ.). Al riguardo, si fa rilevare che con sentenza n. 13 del
1994 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 165 del
regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), per
violazione dell’art. 2 Cost., nella parte in cui non prevedeva che, ove la
rettifica degli atti dello stato civile, per ragioni indipendenti dalla volontà
del soggetto, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa
ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome
originariamente attribuitogli.
Sarebbe, inoltre,
ravvisabile la violazione dell’art. 76 Cost., in
quanto l’art. 1, comma 28, della legge n. 76 del 2016, nel conferire la potestà
legislativa al Governo «fatte salve le disposizioni di cui alla presente
legge», non avrebbe previsto alcun potere di revoca o annullamento retroattivo
di iscrizioni e annotazioni già effettuate.
È inoltre denunciato il
contrasto con l’art. 8 della CEDU che prevede il diritto della persona al
rispetto della vita privata e familiare, nell’ambito del quale la Corte europea
dei diritti dell’uomo ha individuato la tutela del diritto al nome, quale
espressione del diritto all’identità e dignità personale. Le disposizioni
censurate si porrebbero in contrasto anche con i principi affermati dagli artt.
1 e 7 della CDFUE, i quali enunciano il diritto alla dignità umana e al
rispetto della vita privata e familiare.
Ritenendo non praticabile
un’interpretazione adeguatrice, tale da attribuire
alle disposizioni censurate un significato conforme all’art. 8 della CEDU e
agli artt. 1 e 7 della CDFUE, il giudice a quo ritiene necessario rimettere a
questa Corte la valutazione della loro legittimità in riferimento agli artt. 11
e 117, primo comma, Cost., alla luce dei principi e
degli obblighi comunitari.
3.– Nel giudizio dinanzi alla Corte si sono
costituiti con un unico atto G. Z.G. e G. G., parti ricorrenti nel giudizio
principale, chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità
costituzionale e ribadendo tali conclusioni con successiva memoria.
3.1.– Le parti costituite evidenziano che,
privando di valenza anagrafica il cognome comune, relegato ad una funzione
meramente simbolica, sarebbero stati svuotati i diritti soggettivi attribuiti
alle parti delle unioni civili dall’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del
2016. Sarebbe lesa l’identità personale della parte il cui cognome sia diverso
da quello scelto quale cognome comune. Infatti, la cancellazione prevista
dall’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017 ridefinisce l’identità personale secondo
lo status quo ante.
Ciò determinerebbe la
violazione del diritto di una delle parti dell’unione civile (quella che abbia
assunto il cognome comune in luogo del proprio o in aggiunta al proprio) di
trasmettere alla prole il proprio cognome, come modificato a seguito della
scelta consentita dal citato comma 10. Si osserva inoltre che, ove una delle
parti di unioni civili già costituite abbia generato figli, ai quali sia stato
assegnato ex lege il cognome del proprio genitore,
modificato per effetto delle disposizioni dettate dal d.P.C.m.
n. 144 del 2016, sarebbe lesa anche l’identità personale dei figli, in quanto
ne sarebbe trasformato il presupposto costituito dal nome.
L’eliminazione retroattiva
delle annotazioni e degli aggiornamenti anagrafici già eseguiti determinerebbe
il sacrificio di diritti soggettivi tutelati anche a livello sovranazionale. Al
riguardo, sono richiamate alcune pronunce della Corte di Strasburgo che hanno
ricondotto il diritto al nome nell’ambito dell’art. 8 della CEDU (sentenze 21 ottobre 2008, Guzel Erdagoz contro Turchia;
1° luglio 2008, Daróczy contro Ungheria; 6 settembre 2007, Johansson
contro Finlandia; 16
novembre 2004, Unal Tekeli
contro Turchia; 22
febbraio 1994, Burghartz contro Svizzera).
Le parti costituite
deducono che, ai sensi dell’art. 52, comma 3, della CDFUE, in caso di
corrispondenza tra i diritti riconosciuti dalla Carta di Nizza e quelli
garantiti dalla CEDU, il significato e la portata dei primi sono identici a
quelli conferiti dalla Convenzione. Pertanto, ad avviso delle parti costituite,
tutti i diritti previsti dalla CEDU che trovino corrispondenza nella CDFUE
debbono ritenersi tutelati con la medesima forza di quelli sanciti nel Trattato
sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Ciò sarebbe confermato anche
dall’art. 53 della CDFUE, il quale sancisce il divieto di interpretarne le
disposizioni in senso limitativo dei diritti riconosciuti dalla CEDU.
Sono, quindi, richiamate
alcune pronunce di giudici di merito che hanno ritenuto le disposizioni in
esame incompatibili con la tutela sovranazionale dei diritti fondamentali della
persona e hanno provveduto alla loro disapplicazione.
3.2.– Ciò premesso, le parti costituite illustrano
le ragioni a sostegno dell’illegittimità costituzionale delle censurate
disposizioni del d.lgs. n. 5 del 2017.
3.2.1.– Si evidenzia che l’istituto dell’unione
civile, pur essendo modellato sulla disciplina del matrimonio, se ne
discosterebbe sotto molteplici profili. Sarebbe infatti differente la
disciplina relativa alla filiazione, all’adozione e agli obblighi derivanti dal
vincolo. Particolarmente innovativa sarebbe poi la disciplina relativa al
cognome comune.
Ad avviso delle parti
costituite, l’art. 4, comma 2, del d.P.C.m. n. 144
del 2016, esplicitando il contenuto di queste novità legislative, avrebbe
dettato la disciplina delle conseguenze anagrafiche della scelta operata dalle
parti unite civilmente, in quanto costitutiva della loro nuova identità
personale.
La scelta del cognome
comune rappresenterebbe l’esercizio di un diritto soggettivo, previsto dalla
legge n. 76 del 2016. In quanto espressione di un diritto fondamentale,
incidente sulla stessa identità personale, oltre che sulla vita familiare, esso
sarebbe incoercibile e non potrebbe essere negato dall’ufficiale dello stato
civile, se non per ragioni espressamente ammesse dalla legge.
Viceversa, il d.lgs. n. 5
del 2017 ed il successivo decreto del Ministro dell’interno 27 febbraio 2017,
nell’omologare la disciplina del cognome comune dell’unione civile a quella
prevista dall’art. 143-bis cod. civ. per il cognome coniugale
avrebbe stravolto il significato normativo dell’art. 1, comma 10, della legge
n. 76 del 2016, condiviso dallo stesso Governo nel d.P.C.m.
n. 144 del 2016.
A conferma di tale
interpretazione, si osserva che se la legge n. 76 del 2016 avesse voluto
consentire a una delle parti dell’unione civile il mero utilizzo del cognome
dell’altra, senza alcuna incidenza anagrafica, non ci sarebbe stata ragione di
prevedere l’ulteriore diritto di manifestare, con un’apposita dichiarazione, la
volontà di mantenere anche il proprio cognome anagrafico. Il citato comma 10
dispone, infatti, che la parte può mantenere anche il proprio cognome,
anteponendolo o posponendolo a quello acquisito. Ad avviso delle parti
costituite, ciò sarebbe indicativo del fatto che, in caso contrario, la parte
perde il cognome originario e assume solo quello comune.
3.2.2.– Ad avviso delle parti, il d.lgs. n. 5 del
2017, anziché costituire attuazione dell’art. l, comma 10, della legge n. 76
del 2016, introdurrebbe una disciplina contrastante con esso, in violazione
dell’art. 76 Cost.
Il comma 28 dell’art. 1
della legge n. 76 del 2016, infatti, conferisce la delega facendo «salve le
disposizioni di cui alla presente legge». Viceversa, le norme censurate, lungi
dal far salvo il comma 10, ne determinerebbero lo svuotamento e la sostanziale
abrogazione. Esse impedirebbero a questa disposizione di esprimere tutti i suoi
precetti normativi e determinerebbero la lesione di diritti soggettivi
riconosciuti sia alle parti unite civilmente nella vigenza del d.P.C.m. n. 144 del 2016, sia a quelle che intendano, in
futuro, unirsi civilmente.
La disciplina del d.lgs. n.
5 del 2017 non sarebbe, quindi, coerente con il limite posto dalla delega, né
potrebbe ritenersi espressiva di adeguamento e riassetto legislativo.
3.3.– Le disposizioni censurate si porrebbero,
inoltre, in contrasto con gli artt. 2, 3, 11, 22 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in riferimento agli artt. 1 e 7 della CDFUE e all’art. 8 della
CEDU.
Invero, la cancellazione
retroattiva del «cognome comune» già assunto da una delle parti dell’unione
civile, lederebbe la dignità della persona e il suo diritto inviolabile al nome
e alla identità, protetto dall’art. 2 Cost., nonché il
diritto al rispetto alla vita privata e familiare. Si fa rilevare che la Corte
di Strasburgo ha garantito il diritto fondamentale alla vita familiare alle
coppie omosessuali (sentenza
24 giugno 2010, Schalk e Kopf
contro Austria) e che la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto il
diritto fondamentale delle stesse coppie ad essere riconosciute e tutelate ai
sensi dell’art. 2 Cost. (sentenza
n. 138 del 2010).
Con l’attribuzione della
valenza anagrafica del cognome comune, la legge n. 76 del 2016 avrebbe inteso
conferire all’unione civile visibilità sociale e caratterizzazione anche sotto
il profilo familiare. La modifica del cognome, disposta dalle disposizioni
censurate, frustrerebbe questa manifestazione della vita familiare, in
violazione dell’art. 2 Cost. e dell’art. 117, primo
comma, Cost., quest’ultimo in riferimento agli artt. l e 7 della CDFUE e
all’art. 8 della CEDU. Né sussisterebbe alcuna delle ragioni, previste dallo
stesso art. 8 della CEDU, che possa giustificare tale ingerenza del
legislatore.
3.4.– In particolare, con riferimento alla dedotta
violazione dell’art. 76 Cost., le parti fanno rilevare che l’art. 1, comma 28,
della legge n. 76 del 2016 esprimerebbe un principio di intangibilità, da parte
del legislatore delegato, delle disposizioni contenute nella legge delega. Tale
principio sarebbe violato dal legislatore delegato attraverso l’adozione di
disposizioni abrogative, che avrebbero l’effetto di stravolgere l’assetto
normativo delineato dal legislatore delegante, facendo degradare il cognome
comune dell’unione civile da cognome anagrafico a mero cognome d’uso.
Ad avviso delle parti,
l’esclusione della valenza anagrafica del cognome comune non costituirebbe
affatto un’opzione interpretativa di uno tra i diversi significati possibili
della disposizione, ma sarebbe una soluzione contra legem:
in tal modo, si finirebbe per attribuire all’art. 1, comma 10, della legge n.
76 del 2016 un’accezione priva di senso, in luogo dell’unico significato
possibile dotato di senso (in particolare circa la natura anagrafica del
cognome). In quanto frutto di un ripensamento del legislatore delegato, le
disposizioni correttive introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2017 sarebbero
illegittime.
3.5.– D’altra parte, l’art. 8 del d.lgs. n. 5 del
2017, nel prevedere la modificazione retroattiva delle risultanze anagrafiche,
sarebbe lesivo anche del diritto al nome e alla sua conservazione (art. 22
Cost.), quale prima e più immediata manifestazione del diritto all’identità
personale e del diritto alla dignità personale (art. 2 Cost. e
art. 1 della CDFUE).
Infatti, le coppie unite
civilmente, che abbiano assunto un cognome comune nell’intervallo di tempo
intercorrente tra l’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016 e l’entrata in
vigore del d.lgs. n. 5 del 2017, sarebbero titolari di un diritto fondamentale
alla conservazione di tale cognome, ormai divenuto elemento costitutivo della
loro identità personale. Pertanto, sarebbe illegittima la disposizione in esame
che, con efficacia retroattiva, incide sul cognome legittimamente assunto.
Inoltre, l’indicazione
della procedura di correzione di cui all’art. 98, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000 sarebbe impropria ed incongrua. Le
parti costituite ritengono, infatti, che l’annotazione della scelta del
cognome, già effettuata in base al d.P.C.m. n. 144
del 2016, non costituisca un errore materiale, ma sia invece un adempimento
amministrativo effettuato dall’ufficiale di stato civile nell’esecuzione di
puntuali istruzioni legislative e regolamentari. L’annullamento delle
annotazioni rappresenterebbe un tentativo surrettizio di dissimulare una
rettificazione anagrafica imposta d’ufficio e in assenza di contraddittorio.
Ciò determinerebbe il sacrificio dei diritti fondamentali delle coppie unite
civilmente che abbiano esercitato il diritto di scelta del cognome comune.
4.– Nel giudizio innanzi alla Corte, è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili
o comunque non fondate.
4.1.– L’interveniente ha eccepito, in primo luogo,
l’inammissibilità delle questioni per l’incompleta ricostruzione del quadro
normativo. Il rimettente avrebbe omesso di considerare la disciplina delle
schede anagrafiche individuali, di cui all’art. 20 del d.P.R.
n. 223 del 1989, e dell’annotazione negli archivi dello stato civile di cui
all’art. 63 del d.P.R. n. 396 del 2000.
Si fa rilevare che con il
matrimonio la moglie acquista il diritto di aggiungere il cognome del marito al
proprio (art. 143-bis cod. civ.); da ciò non deriva alcuna modifica anagrafica
del cognome della moglie, ma solo il diritto di usare il cognome del marito,
aggiungendolo al proprio. La relativa scheda anagrafica non subisce
modificazioni e continua a riportare il cognome da nubile.
Per le unioni civili, la
legge n. 76 del 2016, all’art. l, comma 10, consente alle parti di scegliere un
cognome comune. Nel prevedere che le schede anagrafiche siano intestate al
cognome posseduto prima dell’unione civile, l’art. 3 del d.lgs. n. 5 del 2017
sarebbe coerente con le disposizioni in materia di matrimonio.
Inoltre, sempre
nell’intento di regolare in modo uniforme unioni civili e matrimoni, il
legislatore delegato ha modificato l’art. 63 del d.P.R.
n. 396 del 2000, prevedendo l’iscrizione negli archivi dello stato civile della
dichiarazione di voler assumere un cognome comune e di anteporlo o posporlo al
proprio.
4.2.– D’altra parte, non sarebbero fondate le
questioni sollevate in riferimento agli artt. 2, 22 e 117, primo comma, Cost.,
con riguardo al parametro interposto dell’art. 8 della CEDU.
Al momento della
costituzione dell’unione civile le parti possono scegliere il cognome, rendendo
esplicita dichiarazione in tal senso. Secondo quanto stabilito dal novellato
art. 20 del d.P.R. n. 223 del 1989, tali
dichiarazioni non devono essere annotate nell’atto di nascita, né deve
procedersi all’aggiornamento della scheda anagrafica.
4.3.– Ciò posto, si fa rilevare che, nel disporre
l’annullamento dell’annotazione del cognome effettuata in vigenza del d.P.C.m. n. 144 del 2016, il censurato art. 8 avrebbe la
funzione di norma di coordinamento.
Ad avviso dell’Avvocatura
dello Stato, questa disposizione non inciderebbe su diritti fondamentali della
persona e non comporterebbe un cambio di identità. Quest’ultima ha radice nel
cognome proprio di ogni soggetto, il quale è immutabile e identifica la
persona. Oggetto di modifica sarebbe l’annotazione dello status, per sua natura
transitorio, di componente dell’unione civile. Esso sarebbe identificativo non
già dell’identità dell’individuo, ma della creazione di un nucleo familiare. Da
queste considerazioni deriverebbe la non fondatezza delle questioni, in
riferimento agli artt. 2, 22 e 117 Cost., in relazione
al parametro interposto dell’art. 8 della CEDU.
Quanto alla denunciata
violazione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura dello Stato
eccepisce l’inammissibilità della censura per errata ed insufficiente
descrizione della fattispecie. Nel merito, essa sarebbe comunque manifestamente
infondata, poiché non vi sarebbe una modifica dell’identità personale, né
d’altra parte sussisterebbe un obbligo di contraddittorio. Si evidenzia, a
questo riguardo, che l’art. 98, comma 3, del d.P.R.
n. 396 del 2000 consente al procuratore della Repubblica e a chiunque vi abbia
interesse di proporre opposizione, con ciò garantendo il diritto di difesa.
4.4.– In riferimento al denunciato eccesso di
delega, l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità della censura
perché generica e non adeguatamente motivata.
Nel merito, la questione
sollevata in riferimento all’art. 76 Cost. non sarebbe
fondata. La disposizione di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017 sarebbe
perfettamente coerente con la legge delega. Essa dovrebbe essere esaminata
congiuntamente all’art. 1, lettera m), numero 1), del medesimo d.lgs. n. 5 del
2017. Nel modificare l’art. 63 del d.P.R. n. 396 del
2000, tale disposizione prevede, alla lettera g-sexies),
l’iscrizione della dichiarazione relativa alla scelta del cognome comune e alla
sua posizione.
Ad avviso dell’Avvocatura
generale dello Stato, nel prevedere il mantenimento del cognome originario
sulla scheda anagrafica, nonché nel disporre la cancellazione delle annotazioni
difformi effettuate nelle more dell’adozione della disciplina definitiva, il
legislatore delegato non avrebbe violato alcuno dei criteri della delega,
essendo autorizzato ad adottare le disposizioni necessarie per l’adeguamento
alla nuova normativa delle «disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in
materia di iscrizioni, trascrizioni ed annotazioni» (art. l, comma 28, della
legge n. 76 del 2016).
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario
di Ravenna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3,
lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5,
recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in
materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed
integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi
dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76»,
in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 22, 76 e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata
a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo
il 12 dicembre 2007.
1.1.– In particolare, la prima delle due
disposizioni censurate inserisce, nell’art. 20 del d.P.R.
30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della
popolazione residente), il comma 3-bis, il quale prevede che «[p]er le parti dell’unione civile le schede devono essere
intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile».
La disposizione dell’art. 8
prevede, d’altra parte, che «[…] l’ufficiale dello stato civile, con la
procedura di correzione di cui all’articolo 98, comma 1, del decreto del
Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, annulla l’annotazione relativa
alla scelta del cognome effettuata a norma dell’articolo 4, comma 2, del
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144».
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, entrambe le
disposizioni sopra richiamate violerebbero, in primo luogo, l’art. 2 Cost.,
poiché la parte dell’unione civile verrebbe privata, d’ufficio e senza
contraddittorio, del cognome comune legittimamente acquisito e utilizzato, così
determinando la lesione dei diritti al nome, all’identità e alla dignità
personale.
Sarebbe violato anche il
principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.,
non essendo rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale d’intervenire
d’imperio, con la procedura senza contraddittorio prevista per la correzione di
errori materiali, al fine di modificare l’identità personale di un soggetto.
Inoltre, le disposizioni
censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 22 Cost.,
poiché, con l’eliminazione della valenza anagrafica del cognome comune, la
parte dell’unione civile verrebbe privata di un cognome già acquisito.
Esse sarebbero altresì in
contrasto con l’art. 76 Cost., poiché il legislatore
delegante non avrebbe conferito alcun potere di revoca o annullamento delle
iscrizioni e annotazioni già effettuate.
Infine, è denunciata la
violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.,
poiché sarebbe pregiudicato il diritto al nome e al rispetto della vita privata
e familiare, garantito dall’art. 8 della CEDU e dagli artt. 1 e 7 della CDFUE.
2.– In via preliminare, vanno esaminate le
eccezioni di inammissibilità delle questioni, formulate dall’Avvocatura
generale dello Stato.
2.1.– Ad avviso di quest’ultima, il rimettente
avrebbe omesso di considerare la disciplina delle schede anagrafiche
individuali, di cui all’art. 20 del d.P.R. n. 223 del
1989, e dell’iscrizione negli archivi dello stato civile, di cui all’art. 63
del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per
la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma
dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127). La
considerazione di tali disposizioni avrebbe consentito di individuare la ratio
dell’intervento legislativo in esame nell’esigenza di uniformare la disciplina
del cognome delle unioni civili a quella del cognome coniugale.
Tuttavia, è proprio su tale
volontà di assimilare la disciplina dei due istituti che il giudice a quo,
sulla scorta di argomenti illustrati anche dalle parti costituite, appunta le
proprie censure in ordine alle innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2017.
Nella prospettazione del rimettente, l’omologazione della disciplina del
cognome comune a quella del cognome coniugale avrebbe svuotato di significato
una previsione innovativa e caratterizzante il riconoscimento giuridico e
sociale delle unioni civili.
2.2.– L’Avvocatura dello Stato ha, inoltre,
eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, in
considerazione della carente descrizione della fattispecie.
Dall’ordinanza di
rimessione risulta che nel giudizio a quo le parti ricorrenti hanno chiesto
l’annullamento della variazione delle registrazioni anagrafiche, nonché
dell’annotazione nell’atto di nascita di una delle parti, conservato presso i
registri dello stato civile. Il giudice a quo ha evidenziato che tali
variazioni sono state eseguite in applicazione delle disposizioni censurate.
Egli ritiene quindi che la rilevanza delle questioni di legittimità
costituzionale discenda dalla natura stessa degli atti impugnati, in quanto
meramente applicativi della disciplina censurata.
L’esposizione della vicenda
concreta, se pur sintetica, è comunque sufficiente a soddisfare l’onere di
motivazione sulla rilevanza, essendo stata adeguatamente rappresentata una
situazione in cui le doglianze dei ricorrenti non potrebbero altrimenti essere
accolte che a seguito dell’eventuale accoglimento della questione di
legittimità proposta nei confronti della disposizione di legge di cui i
provvedimenti impugnati sono applicazione (sentenze n. 16 del 2017,
n. 151 del 2009,
n. 303 del 2007
e n. 4 del 2000).
2.3.– Non è, infine, fondata l’eccezione di
inammissibilità della censura relativa all’eccesso di delega, perché generica e
non adeguatamente motivata.
Con motivazione sintetica,
ma non implausibile, il giudice a quo deduce la violazione dell’art. 76 Cost., in quanto l’art. 1, comma 28, della legge 20 maggio
2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso
sesso e disciplina delle convivenze), nel delegare la potestà legislativa al
Governo «[f]atte salve le disposizioni di cui alla presente legge», non avrebbe
previsto alcun potere di revoca o annullamento retroattivo di iscrizioni e
annotazioni già effettuate.
I termini della questione
sono stati dunque enucleati con un’argomentazione adeguata, che supera il
vaglio preliminare di ammissibilità richiesto a questa Corte, giacché «[a]ttiene al merito – e non al profilo preliminare
dell’ammissibilità – la valutazione della forza persuasiva degli argomenti
addotti a sostegno delle censure» (sentenza n. 259 del
2017).
3.– Va d’altra parte dichiarata
l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in
riferimento all’art. 22 Cost.
Il rimettente si limita ad
osservare che il nome costituisce elemento distintivo della personalità al
punto da meritare un’espressa tutela da parte dell’art. 22 Cost.,
ma omette qualsiasi argomentazione a sostegno del denunciato contrasto tra le
disposizioni censurate e il parametro evocato, il quale esclude la privazione
del nome per motivi politici. Inoltre, nessun argomento è svolto circa la
natura politica della lamentata privazione.
Tale difetto motivazionale
comporta l’inammissibilità della questione. Per costante giurisprudenza di
questa Corte, non basta l’indicazione delle norme da raffrontare per valutare
la compatibilità dell’una rispetto al contenuto precettivo dell’altra, ma è
necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e, se del caso,
illustrare i passaggi interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi
contenuti di normazione (ex multis, sentenze n. 240 e n. 35 del 2017,
n. 120 del 2015,
n. 236 del 2011;
ordinanze n. 26
del 2012, n.
321 del 2010 e n. 181 del 2009).
4.– Nel merito, le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 non
sono fondate.
4.1.– Con la disposizione censurata il legislatore
delegato ha escluso la valenza anagrafica del cognome comune scelto dalle parti
dell’unione civile. Ferma restando la facoltà di scegliere ed utilizzare tale
cognome comune per la durata della unione, viene espressamente esclusa la
necessità di modificare la scheda anagrafica individuale, la quale resta,
pertanto, intestata alla stessa parte con il cognome posseduto prima della
costituzione dell’unione.
È questa la scelta del
legislatore delegato che è stata censurata dal giudice rimettente, assumendo
che essa contrasti, in primo luogo, con i principi posti dalla legge n. 76 del
2016 e, dunque, con l’art. 76 Cost.
4.1.1.– Secondo la costante giurisprudenza di questa
Corte, «la previsione di cui all’art. 76 Cost. non
osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che
rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal
legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia
limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo.
Il sindacato costituzionale sulla delega legislativa deve, così, svolgersi
attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli,
riguardanti, da un lato, le disposizioni che determinano l’oggetto, i princìpi
e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione e, dall’altro, le
disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato
compatibile con i princìpi e i criteri direttivi della delega. Il che, se porta
a ritenere del tutto fisiologica quell’attività normativa di completamento e
sviluppo delle scelte del delegante, circoscrive, d’altra parte, il vizio in
discorso ai casi di dilatazione dell’oggetto indicato dalla legge di delega,
fino all’estremo di ricomprendere in esso materie che ne erano escluse» (sentenza n. 194 del
2015; sentenze n. 229, n. 182 e n. 50 del 2014).
4.1.2.– Ciò premesso, va in primo luogo rilevato che
oggetto della delega in esame era «[l’] adeguamento […] delle disposizioni
dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e
annotazioni» alle previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con
salvezza delle disposizioni da essa direttamente introdotte, e in particolare
di quella di cui all’art. 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome
comune delle unioni civili.
Quest’ultima disposizione
prevede un sistema di individuazione del cognome comune fondato sull’accordo e
ispirato alla libertà di determinazione delle parti dell’unione civile. Ad esse
è riconosciuta infatti la facoltà di adottare un cognome unico, scegliendolo
tra quello dell’una o dell’altra. Parimenti, esse potrebbero legittimamente decidere
di mantenere i rispettivi cognomi, rinunciando a contraddistinguere il vincolo
con un cognome comune e condiviso.
Ancorché la disposizione
del comma 10 non contenga un’espressa qualificazione degli effetti di tale
scelta, essa fornisce tuttavia un’indicazione quanto mai significativa circa la
necessità di modifiche anagrafiche, laddove espressamente delimita la durata
del cognome comune a quella dell’unione civile. Ai sensi del comma 10 in esame,
infatti, la scelta del cognome è operata «per la durata dell’unione». Dallo
scioglimento dell’unione civile, anche in caso di morte di una delle parti,
discende la perdita automatica del cognome comune.
È stata proprio la
considerazione di tale delimitazione temporale che ha guidato la scelta operata
dal legislatore delegato. Infatti, nella relazione illustrativa che accompagna
lo schema del d.lgs. n. 5 del 2017, si rileva che «una vera e propria
variazione anagrafica del cognome della parte dell’unione civile avrebbe
effetto solo per la durata dell’unione». Tale rilievo sottintende la
contraddittorietà e l’irragionevolezza insite nell’attribuire alla scelta
compiuta dalle parti dell’unione civile un effetto, la variazione del cognome
anagrafico, che è nell’ordinamento tendenzialmente definitivo e irreversibile,
mentre nella specie sarebbe temporaneo e limitato alla durata dell’unione.
Vale la pena di rammentare
che l’aggiornamento della scheda anagrafica individuale avrebbe comportato che
qualsiasi successiva certificazione anagrafica sarebbe stata rilasciata con il
solo cognome modificato, con la conseguente necessità di aggiornare non solo i
documenti di identità, ma anche i dati fiscali, lavorativi, sanitari e
previdenziali.
L’impostazione fatta
propria dal rimettente non appare dunque coerente con il principio di
ragionevolezza, né con le previsioni della legge delega ed in particolare con
l’indicazione rinvenibile nell’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016.
Nell’adeguare l’ordinamento dello stato civile alle previsioni sul cognome delle
unioni civili, è stata dunque compiuta una scelta che rappresenta il coerente
sviluppo dei principi posti dalla legge di delega.
4.2.– Anche in riferimento agli artt. 2, 3, 11 e
117, primo comma, Cost. le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 non
sono fondate.
Che il diritto al nome,
quale elemento costitutivo dell’identità personale, debba concretizzarsi nel
cognome comune, rendendo così doverosa la modifica anagrafica di quello
originario, non discende, infatti, né dalle norme della nostra Costituzione, né
da quelle interposte che essa richiama.
Va sottolineato, inoltre,
che la ipotizzata valenza anagrafica del cognome comune sarebbe suscettibile di
produrre effetti pregiudizievoli sulla sfera personale e giuridica dei figli di
quella delle parti che avesse assunto tale cognome in sostituzione del proprio.
Ad essi infatti, in base all’art. 262 del codice civile, è attribuito il
cognome del genitore che li abbia riconosciuti. A seguito dello scioglimento
dell’unione civile i figli (salva la facoltà di scelta riconosciuta al figlio
maggiorenne dall’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 396
del 2000) rimarrebbero privi di uno degli elementi che, fino al momento dello
scioglimento, identificava il relativo nucleo familiare, con tutto ciò che
questo comporta nell’ambiente in cui essi vivono.
È bensì vero che le parti
del giudizio a quo rifiutano ogni analogia con il matrimonio per quanto attiene
al cognome comune. È tuttavia espressivo di un principio caratterizzante
l’ordinamento dello stato civile che il cognome d’uso assunto dalla moglie a
seguito di matrimonio non comporti alcuna variazione anagrafica del cognome
originario, che rimane immodificato. L’art. 20, comma 3, del d.P.R. n. 223 del 1989 prevede, infatti, che «Per le donne
coniugate o vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile». In
linea di coerenza con tale previsione, si prevede che la scheda anagrafica
della parte dell’unione civile debba indicare il nome ed il cognome dell’altra
parte dell’unione (comma 1 dell’art. 20), senza che ciò comporti una modifica
del proprio cognome anagrafico (comma 3-bis).
D’altra parte, la
dichiarazione della scelta circa la posizione del cognome comune non è affatto
priva di significato, come sostengono le parti, neppure laddove a tale cognome
si riconnetta mero valore d’uso. Anche in questo caso, infatti, la posizione
del cognome acquisito rispetto a quello originario riveste indubbio rilievo. Va
infatti sottolineato che la dichiarazione sulla posizione del cognome comune
costituisce esercizio di un’ulteriore facoltà che la legge n. 76 del 2016 ha
espressamente attribuito alle parti dell’unione civile. Il rilievo di tale
dichiarazione trova riscontro anche nella previsione della sua iscrizione, a
cura dell’ufficiale dello stato civile, negli archivi informatici degli atti
dello stato civile (art. 63, comma 1, lettera g-sexies,
del d.P.R. n. 396 del 2000).
La natura paritaria e
flessibile della disciplina del cognome comune da utilizzare durante l’unione
civile e la facoltà di stabilirne la collocazione accanto a quello originario –
anche in mancanza di modifiche della scheda anagrafica – costituiscono dunque
garanzia adeguata dell’identità della coppia unita civilmente e della sua
visibilità nella sfera delle relazioni sociali in cui essa si trova ad
esistere.
5.– Anche le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
5.1.– Le censure del giudice a quo attengono in
primo luogo alla violazione dell’art. 76 Cost., in quanto non sarebbe stato
conferito al legislatore delegato alcun potere di revoca o annullamento di
iscrizioni e annotazioni già effettuate e relative alla scelta del cognome.
Al riguardo va rilevato che
la disposizione dell’art. 8 detta una disciplina transitoria destinata ad
applicarsi alle unioni civili costituite nell’intervallo temporale tra il
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144
(Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei
registri nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo 1, comma 34,
della legge 20 maggio 2016, n. 76), e il d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, nelle
quali sia stata esercitata l’opzione per il cognome comune e sia stata altresì
effettuata la variazione anagrafica prevista dall’art. 4 del citato d.P.C.m. e successivamente esclusa dall’art. 3, lettera c),
numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017.
Va ribadito che la delega
conferita dall’art. 1, comma 28, lettera a), della legge n. 76 del 2016 aveva
ad oggetto «[l’] adeguamento […] delle disposizioni dell’ordinamento dello
stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni» alle
previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle
disposizioni da essa direttamente introdotte, ed in particolare di quella di
cui all’art. 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome comune delle
unioni civili.
Come si è visto nel
precedente punto 4., il legislatore delegato ha
dapprima esplicitato il significato del principio posto dall’art. 1, comma 10,
della legge n. 76 del 2016, escludendo la valenza anagrafica del cognome
comune. Con il successivo art. 8, e sempre al fine dell’adeguamento della
disciplina dello stato civile, ha previsto la caducazione delle annotazioni
effettuate medio tempore, in applicazione di una fonte normativa, provvisoria e
di carattere secondario, non coerente con i principi della delega.
5.2.– Non è ravvisabile neppure la denunciata
violazione degli artt. 2, 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in
riferimento all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE. Nella
prospettazione del rimettente, tali censure sono ricondotte al sacrificio del
diritto alla conservazione del cognome comune da parte di chi lo abbia
acquisito nel vigore dell’art. 4, comma 2, del d.P.C.m.
n. 144 del 2016.
Introdotto da una
disposizione destinata ad applicarsi in attesa dell’entrata in vigore dei
decreti legislativi previsti dalla legge n. 76 del 2016, l’effetto modificativo
della scheda anagrafica rivestiva la medesima natura provvisoria della fonte
regolamentare che l’aveva previsto e che era destinata a cessare per effetto
dei successivi decreti legislativi. La dichiarata transitorietà del d.P.C.m. in esame e la relativa brevità del suo orizzonte
temporale di riferimento portano ad escludere che le novità da esso introdotte
abbiano determinato un ragionevole affidamento in ordine all’emersione e al
consolidamento di un nuovo tratto identificativo della persona. Ne consegue che
la previsione dell’annullamento delle variazioni anagrafiche già effettuate non
può ritenersi lesiva di una nuova identità personale, ancora non affermata.
Pertanto, non risulta
conferente il richiamo alla sentenza n. 13 del 1994,
con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 165
del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), per
violazione dell’art. 2 Cost., nella parte in cui esso non prevedeva che, ove la
rettifica degli atti dello stato civile, per ragioni indipendenti dalla volontà
del soggetto, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa
ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome
originariamente attribuitogli.
In quella occasione,
l’esigenza di protezione dell’interesse alla conservazione del cognome è stata
riconosciuta «[…] in presenza di una situazione nella quale con quel cognome la
persona sia ormai individuata e conosciuta nell’ambiente ove vive […]», ciò che
non può ritenersi verificato nel caso in esame.
5.3.– Non è fondata, infine, la censura di
irragionevolezza proposta dal rimettente in riferimento all’indicazione
legislativa del procedimento di cui all’art. 98 del d.P.R.
n. 396 del 2000 per l’annullamento delle variazioni anagrafiche effettuate in
base all’art. 4 del citato d.P.C.m.
Il modello procedimentale
prescelto dal legislatore delegato prevede, in particolare, che del
provvedimento sia data comunicazione agli interessati, al procuratore della
Repubblica ed al prefetto. A partire da questa comunicazione gli interessati
hanno trenta giorni per proporre ricorso al tribunale, a norma dell’art. 95 del
d.P.R. n. 396 del 2000. Lo stesso termine è previsto
per il procuratore della Repubblica che può proporre ricorso contro la
correzione effettuata dall’ufficiale dello stato civile.
Si tratta dunque di una
procedura che garantisce il contraddittorio con la parte interessata attraverso
la proposizione di un ricorso e l’instaurazione di un giudizio di fronte ad un
tribunale (come è avvenuto proprio nel giudizio a quo).
E, se è vero che la
procedura indicata contempla il contraddittorio e l’intervento del giudice in
una fase differita, si tratta pur sempre di uno strumento processuale che
consente alle parti coinvolte di contestare l’annullamento di variazioni
anagrafiche. L’art. 8 in esame prescrive dunque l’utilizzo di uno schema
procedimentale, già previsto nel sistema dell’ordinamento dello stato civile,
ancorché utilizzato per differenti evenienze. La legittimità del rinvio a tale
modello non è inficiata dall’estensione del suo ambito applicativo a ulteriori
fattispecie, differenti da quelle per le quali esso era originariamente
previsto.
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio
2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello
stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché
modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni
civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20
maggio 2016, n. 76», sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento
all’art. 22 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal
Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117,
primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12
dicembre 2007, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di
Ravenna, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della CEDU e
agli artt. 1 e 7 della CDFUE, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 ottobre 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI,
Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria
il 22 novembre 2018.