ORDINANZA N. 96
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI
”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
ha
pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei
giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 24, commi 25, lettere b), c), d)
ed e), e 25-bis, del decreto-legge
6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge
22 dicembre 2011, n. 214 – come sostituito (il comma 25) e inserito (il
comma 25-bis), rispettivamente, dai numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del
decreto-legge 21 maggio 2015, n. 65 (Disposizioni urgenti in materia di
pensioni, di ammortizzatori sociali e di garanzie TFR), convertito, con
modificazioni, nella legge 17 luglio 2015, n. 109 – e dell’art. 1, comma
483, lettera e), della legge
27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)», promossi
dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, con
cinque ordinanze del 5 luglio 2017, iscritte, rispettivamente, ai nn. 122,
123,
131,
132
e 133
del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica nn. 38 e 40, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti
gli atti di costituzione di A.C. A. e altri, di S. C. e dell’Istituto nazionale
della previdenza sociale (INPS), nonché gli atti di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito nella
camera di consiglio del 18 aprile 2018 il Giudice relatore Silvana Sciarra.
Ritenuto che,
con l’ordinanza n. 90 del 5 luglio 2017 (reg. ord. n. 122 del 2017), la Corte
dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, ha sollevato, in
riferimento agli artt.
3, secondo comma, 36,
primo comma, e 38,
secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale:
a) degli artt. 24, commi 25, lettere b), c), d) ed e), e 25-bis del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita,
l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con
modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, come sostituito (il comma
25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente, dai numeri 1) e 2) del comma
1 dell’art. 1 del decreto-legge 21 maggio 2015, n. 65 (Disposizioni urgenti in
materia di pensioni, di ammortizzatori sociali e di garanzie TFR), convertito,
con modificazioni, nella legge 17 luglio 2015, n. 109; b) dell’art. 1, comma
483, lettera e), della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di
stabilità 2014)», nella parte in cui stabilisce che, «per il solo anno 2014,
[la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici] non è riconosciuta
con riferimento alle fasce di importo superiori a sei volte il trattamento
minimo INPS»;
che
le disposizioni censurate dettano norme in materia di rivalutazione automatica
dei trattamenti pensionistici, stabilendo, rispettivamente: il comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, che «La rivalutazione automatica dei
trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’articolo 34,
comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e 2013,
è riconosciuta: […] b) nella misura del 40 per cento per i trattamenti
pensionistici complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo INPS
e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo INPS con riferimento
all’importo complessivo dei trattamenti medesimi. […]; c) nella misura del 20
per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a quattro
volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a cinque volte il
trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti
medesimi. […]; d) nella misura del 10 per cento per i trattamenti pensionistici
complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o
inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento all’importo
complessivo dei trattamenti medesimi. […]; e) non è riconosciuta per i
trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento
minimo INPS con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi»;
il comma 25-bis dello stesso art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, che «La
rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo
stabilito dall’articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448,
relativa agli anni 2012 e 2013 come determinata dal comma 25, con riguardo ai
trattamenti pensionistici di importo complessivo superiore a tre volte il
trattamento minimo INPS è riconosciuta: a) negli anni 2014 e 2015 nella misura
del 20 per cento; b) a decorrere dall’anno 2016 nella misura del 50 per cento»;
il comma 483 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013, come modificato dall’art.
1, comma 286, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per
la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di
stabilità 2016)», che «Per il periodo 2014-2018 la rivalutazione automatica dei
trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’articolo 34,
comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta: […] e) nella
misura del 40 per cento, per l’anno 2014, e nella misura del 45 per cento, per
ciascuno degli anni 2015, 2016, 2017 e 2018, per i trattamenti pensionistici
complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS con
riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi e, per il solo
anno 2014, non è riconosciuta con riferimento alle fasce di importo superiori a
sei volte il trattamento minimo INPS. Al comma 236 dell’articolo 1 della legge
24 dicembre 2012, n. 228, il primo periodo è soppresso, e al secondo periodo le
parole: "Per le medesime finalità” sono soppresse»;
che
il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del
giudizio pensionistico introdotto con ricorso, notificato il 17 marzo 2016 e
depositato il giorno successivo, proposto nei confronti dell’Istituto nazionale
della previdenza sociale (INPS) da ottantuno titolari di trattamenti
pensionistici; b) che i ricorrenti lamentavano che, dopo che la Corte
costituzionale, con la sentenza n. 70 del
2015, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, nel testo anteriore alla sua sostituzione,
nella parte in cui stabiliva il blocco della perequazione automatica relativa
agli anni 2012 e 2013 per le pensioni di importo superiore a tre volte il
trattamento minimo INPS, l’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 aveva previsto, per
quegli stessi anni, «un meccanismo perequativo assolutamente insufficiente» per
le pensioni superiori a tre volte e fino a sei volte il trattamento minimo INPS
e, nuovamente, nessuna rivalutazione per le pensioni superiori a tale importo,
mentre l’art. 1, comma 483, lettera e), della legge n. 147 del 2013 aveva
«reitera[to] tale blocco anche per gli anni 2014 e 2015»; c) che gli stessi
ricorrenti avevano, perciò, eccepito l’illegittimità costituzionale di tali
disposizioni, per contrasto con gli artt. 2, 3, 36, primo comma, 38, secondo
comma, 81 e 117 Cost., chiedendo, previa trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale, la condanna dell’INPS al pagamento «dei maggiori ratei
pensionistici per le annualità dal 2012 al 2015»; d) che si era costituito
l’INPS, contestando la fondatezza delle eccezioni di illegittimità
costituzionale e della domanda dei ricorrenti; e) che, alla luce della comparsa
dell’INPS, doveva «considerarsi incontestata la suddivisione [di essi] nelle
quattro fasce di pensioni eccedenti il triplo del trattamento minimo INPS»;
che,
in punto di rilevanza delle questioni, il giudice rimettente, dopo avere posto
a raffronto la rivalutazione automatica riconosciuta dalle lettere b), c), d)
ed e) del vigente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 con quella
prevista dall’art. 69, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
(legge finanziaria 2001)», «previgente rispetto al D.L. n° 201/2011» – comma in
base al quale l’indice di rivalutazione automatica delle pensioni era applicato
nella misura del 90 per cento per le fasce di importo dei trattamenti
pensionistici comprese tra tre e cinque volte il trattamento minimo INPS e
nella misura del 75 per cento per le fasce di importo dei trattamenti
pensionistici superiori a cinque volte il predetto trattamento minimo – e avere
ribadito che «l’esclusione di qualsiasi perequazione è stata confermata […]
dalla lettera e del comma 483 dell’art. 1 della legge n° 147/2013 per l’anno 2014»,
afferma che risulta «perciò indubbia la rilevanza della questione di
legittimità costituzionale sia della novella che il predetto art. 1 ha
apportato al comma 25 dell’art. 24 del D.L. n° 201/2011, sia [di detta] lettera
e»;
che
lo stesso giudice a quo ritiene tali questioni non manifestamente infondate in
riferimento sia al principio di ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost., sia
agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.;
che
il rimettente asserisce che, secondo la Corte costituzionale, la
proporzionalità e l’adeguatezza dei trattamenti previdenziali devono essere
costantemente assicurate anche dopo il collocamento a riposo, in relazione al
mutamento del potere di acquisto della moneta (è citata la sentenza n. 173 del
1986) e l’adeguamento a tale mutamento deve consentire alle pensioni di
essere sufficientemente difese da esso (è citata la sentenza n. 316 del
2010);
che,
ciò premesso, il giudice rimettente procede a calcolare la misura
dell’adeguamento al costo della vita assicurato dalle disposizioni censurate,
la quale, tenuto conto degli indici di rivalutazione automatica annualmente determinati
con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, sarebbe stata: per le
pensioni superiori a tre volte e fino a quattro volte il minimo INPS, dell’1,08
per cento per il 2012 e dell’1,2 per cento per il 2013; per le pensioni
superiori a quattro volte e fino a cinque volte il minimo INPS, dello 0,54 per
cento per il 2012 e dello 0,6 per cento per il 2013; per le pensioni superiori
a cinque volte e fino a sei volte il minimo INPS, dello 0,27 per cento per il
2012 e dello 0,3 per cento per il 2013; per le pensioni superiori a sei volte
il minimo INPS, pari a zero sia per il 2012 che per il 2013 («azzeramento […]
reiterato anche per l’annualità 2014, in virtù della lettera e del comma 483
dell’art. 1 della legge n° 147/2013»);
che
ulteriore «gravissimo e irragionevole pregiudizio» ai titolari di pensioni
superiori a tre volte il minimo INPS deriverebbe dal comma 25-bis dell’art. 24
del d.l. n. 201 del 2011, in base al quale, «alla fine del biennio 2012/2013
gli aumenti perequativi, già riconosciuti nella […] descritta misura declinante
dal 40% al 10%, permangono acquisiti nel 2014 soltanto per una quota di appena
il 20% della rispettiva percentuale (ossia l’8% per le pensioni ultra triplum,
il 4% per quelle ultra quadruplum e il 2% per quelle ultra quintuplum)»;
che,
alla luce di tali elementi, il giudice a quo asserisce che la sentenza della
Corte costituzionale n. 70 del 2015 sarebbe stata «stravolta» dall’art. 1
del d.l. n. 65 del 2015, atteso che, per le pensioni superiori a tre volte e
fino a quattro volte il minimo INPS, tale disposizione, per gli anni 2012 e
2013, ha riconosciuto la perequazione nella misura del 40 per cento «anziché al
90% […] più che dimezzata rispetto a quella sancita dalla normativa previgente
rispetto a quella dichiarata costituzionalmente illegittima» e, «a partire dal
1° gennaio 2014, [ha] pressoché azzera[to] finanche quella modesta
perequazione», mentre «peggio ancora dicasi per le pensioni più consistenti e
purtuttavia inferiori al sestuplo del minimo INPS»;
che,
quanto alle pensioni superiori a tale ammontare, la normativa censurata ne
avrebbe negato l’adeguamento «già da un lustro», così riducendone il potere di
acquisto del 5,78 per cento nel biennio 2012/2013 e del 6,94 per cento nel
triennio 2012/2014;
che
ne risulterebbe la «totale irragionevolezza delle norme […] censurate», tenuto
conto che la protezione non simbolica dall’inflazione è necessaria quale che
sia la misura della pensione;
che, a
quest’ultimo proposito, il rimettente reputa che le esigenze finanziarie,
richiamate nella Relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del
d.l. n. 65 del 2015, «non hanno indotto il legislatore […] ad esercitare in
quest’ultimo […] quel "… corretto bilanciamento …”» che era stato auspicato
dalla sentenza
della Corte costituzionale n. 70 del 2015, alla quale, pure, l’art. 1 del
d.l. n. 65 del 2015 afferma di voler dare attuazione;
che,
pertanto, i timori di un’insufficiente protezione di tutte le categorie di
pensioni di importo superiore a tre volte il minimo INPS sarebbero confermati
dalla normativa censurata;
che
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015
sarebbe, di conseguenza, non manifestamente infondata in riferimento non
soltanto al principio di ragionevolezza, ma anche a quegli stessi parametri
costituzionali degli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., che la sentenza della
Corte costituzionale n. 70 del 2015 ha ritenuto violati dal comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, nel testo anteriore alla sostituzione di
esso operata dell’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015;
che
il rimettente conclude affermando che il rispetto di tali parametri – che
potrebbe dipendere dallo specifico quantum di adeguamento all’inflazione previsto,
per ciascuna categoria di pensioni, dal d.l. n. 65 del 2015 – alla stregua di
quanto considerato deve, a suo avviso, essere escluso;
che
si sono costituiti gli ottantuno pensionati ricorrenti nel giudizio a quo,
chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate fondate;
che
tali parti deducono anzitutto che la fondatezza delle questioni aventi a
oggetto l’art. 1, comma 483, lettera e), della legge n. 147 del 2013
discenderebbe dalla circostanza – che non sarebbe stata considerata dalla Corte
costituzionale nelle sentenze n. 173 del 2016
e n. 70 del 2015
– che l’impatto di tale disposizione sulle pensioni superiori a sei volte il
minimo INPS dovrebbe essere valutato unitamente a quello prodotto sulle stesse
dall’art. 1, comma 1, del d.l. n. 65 del 2015, ciò che evidenzierebbe come tali
trattamenti pensionistici non abbiano beneficiato di alcuna rivalutazione nel
triennio 2012-2014, con la conseguente «trasformazione in senso strutturale del
sacrificio imposto»;
che,
ciò precisato, le parti costituite affermano che la normativa censurata viola,
in primo luogo, l’art.
3 Cost., perché difetta di ragionevolezza e di proporzionalità;
che
tali parti compiono, anzitutto, una disamina della giurisprudenza
costituzionale sul tema del necessario bilanciamento tra garanzia dei diritti
sociali ed esigenze di equilibrio del bilancio statale, traendone la
conclusione che la Corte costituzionale riconoscerebbe al legislatore un’ampia
discrezionalità al riguardo, «limitando il suo sindacato ai soli casi di
manifesta irragionevolezza nel rispetto del nucleo irriducibile di [detti]
diritti»;
che,
ciò premesso, le stesse parti reputano che la normativa censurata non risponda
ai principi enunciati dalla sentenza della
Corte costituzionale n. 70 del 2015, dichiarativa della parziale
illegittimità costituzionale del testo previgente del comma 25 dell’art. 24 del
d.l. n. 201 del 2011;
che
tale normativa, infatti, evidenzierebbe una «macroscopica iniquità
distributiva», atteso che, diversamente dalle discipline previgente e
successiva, prevede «il riconoscimento della (limitatissima) operatività del
meccanismo perequativo secondo una segmentazione dei redditi da pensione
completamente avulsa da qualsivoglia effettiva proporzionalità»;
che
la suddetta iniquità risulterebbe, in particolare, dal fatto che il meccanismo
perequativo previsto «vede scaglioni di riferimento e di rivalutazione
scollegati da qualsiasi idea di progressività»;
che
le parti costituite ritengono che la normativa censurata violi, in secondo
luogo, i principi di proporzionalità e sufficienza nonché di adeguatezza dei
trattamenti pensionistici, di cui agli articoli, rispettivamente, 36, primo comma, e 38, secondo comma,
Cost.;
che,
secondo tali parti, la limitazione o, addirittura, la negazione della
perequazione dei trattamenti pensionistici prevista dalla normativa censurata
comporterebbe un irragionevole scostamento tra l’entità degli stessi e le
variazioni del potere di acquisto della moneta, con la conseguente inidoneità
di tale disciplina ad assicurare il rispetto dei principi enunciati dagli artt.
36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.;
che
ciò varrebbe sia per il blocco «strutturale» della perequazione delle pensioni
superiori a sei volte il minimo INPS previsto, per gli anni dal 2012 al 2014,
dal combinato disposto dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 e della lettera e)
del comma 483 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013, sia per la perequazione
riconosciuta ai trattamenti pensionistici compresi tra tre e sei volte il
minimo INPS, tenuto conto delle «risibili percentuali» di essa;
che,
secondo le parti costituite, l’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 rinnoverebbe la
generalizzata paralisi del meccanismo perequativo per gli anni 2012 e 2013 che
era stata censurata dalla sentenza della
Corte costituzionale n. 70 del 2015, non rilevando che l’incidenza su tale
meccanismo sia totale o parziale, considerato «il portato pratico delle
novelle»;
che,
con l’ordinanza n. 91 del 5 luglio 2017 (reg. ord. n. 123 del 2017), la Corte
dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, ha sollevato, in
riferimento agli artt.
3, secondo comma, 36,
primo comma, e 38,
secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24,
commi 25, lettere b), c), d) ed e), e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011, come
sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente, dai
numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015;
che
il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del
giudizio pensionistico introdotto con ricorso, notificato il 15 luglio 2016 e
depositato il 24 marzo «di quello stesso anno», proposto nei confronti
dell’INPS da centoventiquattro titolari di trattamenti pensionistici
(specificamente indicati nell’epigrafe dell’ordinanza di rimessione); b) che i
ricorrenti lamentavano che, dopo che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 70 del
2015, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, nel testo anteriore alla sua
sostituzione, nella parte in cui stabiliva il blocco della perequazione
automatica relativa agli anni 2012 e 2013 per le pensioni di importo superiore
a tre volte il trattamento minimo INPS, l’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 aveva
previsto, per quegli stessi anni, «un meccanismo perequativo assolutamente
insufficiente» per le pensioni superiori a tre volte e fino a sei volte il
trattamento minimo INPS e, nuovamente, nessuna rivalutazione per le pensioni
superiori a tale importo; c) che gli stessi ricorrenti avevano, perciò,
eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015,
per contrasto con gli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost.,
chiedendo, previa trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, la
condanna dell’INPS al pagamento «dei maggiori ratei pensionistici per gli anni
dal 2012 al 2016»; d) che si era costituto l’INPS, contestando la fondatezza
delle eccezioni di illegittimità costituzionale e della domanda dei ricorrenti;
e) che, alla luce della comparsa dell’INPS, doveva «considerarsi incontestata
la suddivisione [di essi] nelle quattro fasce di pensioni eccedenti il triplo
del trattamento minimo INPS»;
che,
in punto di rilevanza delle questioni, il giudice rimettente, dopo avere posto
a raffronto la rivalutazione automatica riconosciuta dalle lettere b), c), d)
ed e) del vigente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 con quella
prevista dall’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000, «previgente
rispetto al D.L. n° 201/2011», afferma che risulta «perciò indubbia la
rilevanza della questione di legittimità costituzionale della novella che il
predetto art. 1 ha apportato al comma 25 dell’art. 24 del D.L. n° 201/2011»;
che,
in punto di non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo
prospetta argomentazioni coincidenti con quelle dell’ordinanza iscritta al n.
122 reg. ord. 2017;
che,
con l’ordinanza n. 88 del 5 luglio 2017 (reg. ord. n. 131 del 2017), la Corte
dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, secondo comma, 36, primo comma, e 38, secondo comma,
Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, lettera
e), del d.l. n. 201 del 2011, nel testo di tale comma sostituito dall’art. 1,
comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015;
che
il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del
giudizio pensionistico introdotto con ricorso, notificato il 25 febbraio 2016 e
depositato il 23 «di quello stesso mese», proposto nei confronti dell’INPS da
L. D.R., titolare di un trattamento pensionistico; b) che il ricorrente
lamentava che, dopo che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 70 del
2015, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, nel testo anteriore alla sua
sostituzione, nella parte in cui stabiliva il blocco della perequazione
automatica relativa agli anni 2012 e 2013 per le pensioni di importo superiore
a tre volte il trattamento minimo INPS, l’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 aveva
nuovamente negato la perequazione per le pensioni superiori a sei volte tale
trattamento minimo; c) che lo stesso ricorrente aveva, perciò, eccepito
l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, per
contrasto con gli artt. 2, 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.,
chiedendo, previa trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, la
condanna dell’INPS al pagamento «dei maggiori ratei pensionistici per il
biennio 2012/2013»; d) che si era costituto l’INPS, contestando la fondatezza
della domanda del ricorrente; e) che, dal cedolino del mese di gennaio 2012,
allegato al ricorso, risulta che, a quel momento, questi percepiva una pensione
lorda mensile superiore a sei volte il minimo INPS;
che,
in punto di rilevanza delle questioni, il giudice rimettente, dopo avere
evidenziato che, per i trattamenti pensionistici superiori a sei volte il
minimo INPS, il vigente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011
«continua ad escludere qualsiasi perequazione relativamente al biennio
2012/2013», asserisce che risulta «perciò indubbia la rilevanza della questione
di legittimità costituzionale della novella che il predetto art. 1 ha apportato
al comma 25 dell’art. 24 del D.L. n° 201/2011»;
che,
in punto di non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo
prospetta argomentazioni coincidenti con quelle delle ordinanze iscritte ai n.
122 e n. 123 reg. ord. 2017, per la parte di queste che si riferisce, in
particolare, alla disciplina della rivalutazione automatica dei trattamenti
pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS dettata, per gli
anni 2012 e 2013, dalla lettera e) del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201
del 2011, nel testo di tale comma sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1),
del d.l. n. 65 del 2015;
che,
con l’ordinanza n. 87 del 5 luglio 2017 (reg. ord. n. 132 del 2017), la Corte
dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, ha sollevato, in
riferimento agli artt.
3, secondo comma, 36,
primo comma, e 38,
secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24,
commi 25, lettera b), e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito (il
comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente, dei numeri 1) e 2) del
comma 1 dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015;
che
il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del
giudizio pensionistico introdotto con ricorso, notificato il 29 febbraio 2016 e
depositato il 23 «di quello stesso mese», proposto nei confronti dell’INPS da
B. P., titolare di un trattamento pensionistico; b) che il ricorrente lamentava
che, dopo che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 70 del
2015, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, nel testo anteriore alla sua
sostituzione, nella parte in cui stabiliva il blocco della perequazione
automatica relativa agli anni 2012 e 2013 per le pensioni di importo superiore
a tre volte il trattamento minimo INPS, l’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 aveva
previsto una perequazione «sensibilmente inferiore a quella previgente rispetto
alla norma censurata dal giudice delle leggi»; c) che lo stesso ricorrente
aveva, perciò, eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. n.
65 del 2015, per contrasto con gli artt. 2, 3, 36, primo comma, e 38, secondo
comma, Cost., chiedendo, previa trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale, la condanna dell’INPS al pagamento «dei maggiori ratei pensionistici
per il biennio 2012/2013»; d) che si era costituto l’INPS, contestando la
fondatezza della domanda del ricorrente; e) che, dal cedolino del mese di
gennaio 2013, allegato al ricorso, risulta che, a quel momento, questi
percepiva una pensione lorda mensile superiore a tre volte e inferiore a
quattro volte il minimo INPS;
che,
in punto di rilevanza delle questioni, il giudice rimettente, dopo avere posto
a raffronto la rivalutazione automatica riconosciuta dalla lettera b) del
vigente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 con quella prevista
dall’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000, «previgente» rispetto al
d.l. n. 201 del 2011, asserisce che risulta «perciò indubbia la rilevanza della
questione di legittimità costituzionale della novella che il predetto art. 1 ha
apportato al comma 25 dell’art. 24 del D.L. n° 201/2011»;
che,
in punto di non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo
prospetta argomentazioni coincidenti con quelle delle ordinanze iscritte ai n.
122 e n. 123 reg. ord. 2017, per la parte di queste che si riferisce, in
particolare, alla disciplina della rivalutazione automatica dei trattamenti
pensionistici superiori a tre volte e inferiori a quattro volte il minimo INPS
dettata dai commi 25, lettera b), e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del
2011, nel testo di tali commi, rispettivamente, sostituito dal numero 1), e
inserito dal numero 2) del comma 1 dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015;
che,
con l’ordinanza n. 86 del 5 luglio 2017 (reg. ord. n. 133 del 2017), la Corte
dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, ha sollevato, in
riferimento agli artt.
3, secondo comma, 36,
primo comma, e 38,
secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24,
comma 25, lettera e), del d.l. n. 201 del 2011, nel testo di tale comma
sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015, e
dell’art. 1, comma 483, lettera e), della legge n. 147 del 2013, nella parte in
cui stabilisce che «per il solo anno 2014, [la rivalutazione automatica dei
trattamenti pensionistici] non è riconosciuta con riferimento alle fasce di
importo superiori a sei volte il trattamento minimo INPS»;
che
il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del giudizio
pensionistico introdotto con ricorso, notificato il 7 luglio 2016 e depositato
il 27 «del mese precedente», proposto nei confronti dell’INPS da S. C.,
titolare di un trattamento pensionistico; b) che il ricorrente lamentava che,
dopo che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 70 del
2015, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, nel testo anteriore alla sua sostituzione,
nella parte in cui stabiliva il blocco della perequazione automatica relativa
agli anni 2012 e 2013 per le pensioni di importo superiore a tre volte il
trattamento minimo INPS, l’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 aveva nuovamente
azzerato la perequazione per le pensioni superiori a sei volte tale trattamento
minimo, ciò che era stato previsto «anche per l’anno 2014 e per i successivi»;
c) che lo stesso ricorrente aveva, perciò, eccepito l’illegittimità
costituzionale dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, per contrasto con gli artt.
2, 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, 117, 136 e 137 Cost., chiedendo,
previa trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, la condanna dell’INPS
al pagamento «dei maggiori ratei pensionistici corrispondenti, sia per il triennio
2012/2014 che per il futuro, alla differenza: […] in via principale, tra una
perequazione al 100% e quella sancita dall’art. 1 del D.L. n° 65/2015; […] in
via subordinata, tra la perequazione risultante dalla normativa previgente
rispetto all’art. 24 comma 25 del D.L. n. 201/2011 e quella sancita dall’art. 1
del D.L. n° 65/2015»; d) che si era costituto l’INPS, che, in via preliminare,
aveva eccepito il carattere non incidentale della questione di legittimità
costituzionale sollevata dal ricorrente e, nel merito, aveva contestato la
fondatezza della domanda; e) che, dal cedolino del mese di giugno 2012,
allegato al ricorso, risulta che, a quel momento, il ricorrente percepiva una
pensione lorda mensile superiore a sei volte il minimo INPS;
che
il giudice rimettente, ritenuta l’infondatezza dell’eccezione preliminare
dell’INPS, in punto di rilevanza delle questioni, dopo avere evidenziato che,
per i trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS, il
vigente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 «continua ad escludere
qualsiasi perequazione relativamente al biennio 2012/2013 [e che] lo stesso
dicasi, per l’annualità 2014, in virtù della lettera e del comma 483 dell’art.
1 della legge n° 147/2013», asserisce che risulta perciò «indubbia la rilevanza
della questione di legittimità costituzionale della novella […] apportat[a] al
comma 25 dell’art. 24 del D.L. n° 201/2011» e che la rilevanza «sussiste anche
in riferimento alla […] lettera e del comma 483 dell’art. 1 della legge n° 147/2013»;
che,
in punto di non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo
prospetta argomentazioni coincidenti con quelle delle ordinanze iscritte ai n.
122 e n. 123 reg. ord. 2017, per la parte di esse che si riferisce, in
particolare, alla disciplina della rivalutazione automatica dei trattamenti
pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS dettata, per gli
anni 2012 e 2013, dalla lettera e) del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201
del 2011 – nel testo di tale comma sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1),
del d.l. n. 65 del 2015 – e, per l’anno 2014, dalla lettera e) del comma 483
dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013;
che
si è costituito S. C., ricorrente nel giudizio principale, chiedendo che le
questioni sollevate siano dichiarate fondate;
che
la parte costituita, premesso che il combinato disposto delle norme censurate
ha stabilito l’azzeramento della perequazione delle pensioni superiori a sei
volte il minimo INPS per tre anni, afferma che, così disponendo, il legislatore
avrebbe introdotto un «discrimen» tra i titolari di tali pensioni – che
costituiscono delle retribuzioni differite – e i percettori di redditi di altra
natura e i titolari di pensioni fino a sei volte il minimo INPS, dettando una
disciplina «che sfugge ai criteri di proporzionalità, progressività,
adeguatezza, irragionevolezza ed uguaglianza sostanziale»;
che
la parte, richiamando le sentenze della Corte costituzionale n. 173 del 2016
e n. 70 del 2015,
asserisce che il legislatore, nel disciplinare la rivalutazione automatica
delle pensioni, deve assicurare il rispetto dei principi di proporzionalità, di
adeguatezza, di uguaglianza e di ragionevolezza anche con riguardo a quelle più
alte e che tali principi, «per giurisprudenza costituzionale, potrebbero essere
derogati eccezionalmente per un solo anno. Certamente non per tre anni»;
che,
a proposito del denunciato azzeramento triennale della perequazione automatica
delle pensioni superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, S. C.
prospetta poi due considerazioni;
che,
con la prima, «strettamente giuridica», tale parte asserisce che: secondo la
giurisprudenza della Corte costituzionale, la proporzionalità e l’adeguatezza
dei trattamenti pensionistici devono sussistere anche successivamente al
collocamento a riposo, in relazione al mutamento del potere di acquisto della
moneta, e l’adeguamento (in misura non meramente simbolica) delle prestazioni
previdenziali a tale mutamento è indispensabile, anche per le pensioni di
maggiore consistenza; la pretesa del legislatore di fare fronte a una
contingente negativa situazione finanziaria dello Stato mediante una riduzione
permanente delle pensioni, che permarrà anche una volta che tale situazione
avrà avuto termine, sarebbe «irragionevole e sproporzionata […], poiché i mezzi
usati per una compressione dei diritti costituzionali eccedono i fini
proposti»;
che,
con la seconda considerazione, «logico-matematica», S. C. evidenzia che: con il
censurato azzeramento triennale della perequazione, il legislatore «utilizza il
parametro zero che, per sua natura, non può oggettivamente assicurare alcun
rapporto di proporzionalità […] e conseguentemente […] alcun rapporto di
adeguatezza […], allorquando si dimostri che sussista un consistente
deprezzamento del valore della moneta negli anni presi in considerazione dal
provvedimento legislativo»; ciò si sarebbe verificato nel triennio 2012/2014,
in cui il potere di acquisto delle pensioni è diminuito di quasi il 7 per
cento; il detto azzeramento, «ancorché […] formalmente temporaneo», si
configurerebbe come una «decurtazione permanente, […] non essendo previsto
alcun meccanismo di recupero»;
che,
per tali ragioni, la disciplina denunciata violerebbe i principi di
proporzionalità, di adeguatezza e di «uguaglianza, ex art. 3, comma 2,
Cost. con riferimento all’uguaglianza di tutti i percettori di trattamento
pensionistico ed anche tra i cittadini percettori di pensione e cittadini
percettori di redditi di altra natura»;
che
verrebbe «[c]onseguentemente» violato anche il principio di ragionevolezza, «in
quanto non è possibile effettuare alcun rapporto di natura matematica (di
proporzionalità e/o di progressività) utilizzando il parametro zero»;
che,
dopo avere ribadito che il denunciato blocco triennale «equivale ad una
decurtazione permanente, […] non essendo previsto alcun meccanismo di
recupero», la parte deduce ancora che «risulta estranea "allo Stato di diritto”
la pretesa del Governo di risolvere i problemi finanziari dello Stato
ricorrendo ad un prelievo unilaterale che rompe l’equilibrio sinallagmatico che
regola il rapporto di lavoro: Ordinamento Stato e pubblico funzionario.
Violando così il principio del "legittimo affidamento”»;
che
in tutti i giudizi incidentali si è costituito l’INPS, resistente nei giudizi
principali, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate
manifestamente infondate;
che
l’Istituto osserva anzitutto che: dall’esame della sentenza della
Corte costituzionale n. 70 del 2015, risulterebbe che l’art. 24, comma 25,
del d.l. n. 201 del 2011, nel testo dichiarato incostituzionale con tale
pronuncia, si differenziava dalle altre norme adottate nel tempo in tema di
perequazione, in quanto si limitava a stabilire la piena indicizzazione di
alcuni trattamenti, escludendola per tutti gli altri (ivi incluse pensioni di
ammontare meno elevato), senza prevedere per essi una tutela, ancorché
decrescente in rapporto al loro ammontare; il d.l. n. 65 del 2015 avrebbe dato
attuazione alle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 70 del
2015, abbandonando il modello da questa censurato e tornando al precedente;
che,
ciò premesso, l’INPS deduce l’infondatezza delle argomentazioni del giudice a
quo in tema di adeguatezza e di proporzionalità dei trattamenti pensionistici;
che,
secondo l’INPS, il rispetto di tali principi andrebbe assicurato secondo
valutazioni riservate alla discrezionalità del legislatore, purché esercitata
in modo non irragionevole o arbitrario, sicché il principio di adeguatezza non
comporterebbe un rigido meccanismo di perequazione, così come il principio di
proporzionalità non darebbe luogo a una garanzia di integrale corrispondenza
tra retribuzione e pensione, atteso che la scelta dello strumento idoneo a
salvaguardare le pensioni dall’erosione del potere di acquisto causata
dall’inflazione è riservata al legislatore, sulla base del bilanciamento tra le
varie esigenze, nel quadro della politica economica generale, tenendo conto
anche delle concrete disponibilità finanziarie;
che,
sempre ad avviso dell’INPS, andrebbe anche considerato che la normativa
censurata è intervenuta in un momento di crisi economica, che ha determinato,
da un lato, la riduzione delle risorse disponibili e, dall’altro, un
indebolimento della domanda interna che ha condotto all’azzeramento
dell’inflazione;
che,
in tale particolare situazione, non potrebbe ritenersi irragionevole la scelta
compiuta dal legislatore di assicurare – con un intervento non più limitato,
come in passato, a un periodo annuale o biennale – una tutela piena ai
pensionati più bisognosi e una tutela parziale decrescente ai titolari di
trattamenti più elevati;
che,
inoltre, diversamente da quanto ritenuto dal giudice rimettente, il legislatore
avrebbe illustrato le ragioni poste a fondamento dell’intervento normativo, le
quali risulterebbero, in particolare, dalla Relazione illustrativa al disegno
di legge di conversione in legge del d.l. n. 65 del 2015;
che
in tutti i giudizi incidentali è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, assistito e difeso dall’Avvocatura generale Stato, chiedendo che le
questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate;
che,
dopo avere richiamato alcuni dei contenuti della sentenza della
Corte costituzionale n. 70 del 2015, l’interveniente sottolinea come l’art.
1 del d.l. n. 65 del 2015 abbia dato attuazione ai principi enunciati dalla
stessa, assicurando un trattamento pensionistico adeguato, pur nel
contemperamento di tale esigenza con il principio dell’equilibrio di bilancio e
con gli obiettivi di finanza pubblica, concentrando le limitate risorse
disponibili a favore delle categorie di pensionati con i trattamenti più bassi;
che
l’interveniente sottolinea poi come la giurisprudenza della Corte
costituzionale abbia: valorizzato da tempo, nella materia, il principio del
bilanciamento complessivo degli interessi costituzionali nel quadro delle
compatibilità economiche e finanziarie, sicché «soltanto le fasce più basse
debbono essere integralmente tutelate»; ritenuto legittime riduzioni temporanee
della rivalutazione delle pensioni; affermato l’insussistenza di un diritto
all’aggancio costante delle pensioni agli stipendi; asserito che spetta alla
discrezionalità del legislatore stabilire la misura dei trattamenti di
quiescenza e la variazione dell’ammontare degli stessi attraverso il
bilanciamento dei valori contrapposti delle esigenze di vita dei destinatari e
delle concrete disponibilità finanziarie ed esigenze di bilancio;
che,
secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, in assenza di precisi
parametri cui attenersi nella determinazione dei coefficienti di rivalutazione
dei trattamenti pensionistici e tenuto conto di quanto affermato dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 316 del
2010, considerata la necessità di garantire l’equilibrio di bilancio e gli
obiettivi di finanza pubblica, la normativa censurata non sarebbe irragionevole
e costituirebbe espressione del potere discrezionale del legislatore;
che,
sotto altra prospettiva, tenuto conto degli obiettivi dell’intervento normativo
censurato, non sarebbe possibile dubitare della legittimità costituzionale
dello stesso soltanto perché introduce un coefficiente di rivalutazione
automatica ritenuto insufficiente a bilanciare la perdita di potere di acquisto
dei trattamenti pensionistici;
che,
in proposito, il Presidente del Consiglio dei ministri osserva come lo stesso
rimettente abbia sottolineato che, nella scelta del meccanismo perequativo da
utilizzare, il legislatore gode di una certa discrezionalità, considerato che,
dal combinato disposto degli artt. 36 e 38 Cost., emerge esclusivamente
l’obbligo di adeguamento delle pensioni al costo della vita ma non anche
l’obbligo del legislatore di adottare un particolare meccanismo perequativo;
che,
secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, le questioni sollevate sarebbero,
perciò, anzitutto, inammissibili, dovendosi ritenere insindacabili le scelte
discrezionali del legislatore «in ordine alle modalità e ai tempi della
rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici; laddove, come nel caso
di specie, [l’]intervento sia necessitato dal dare attuazione ai principi
enunciati nella […] sentenza n. 70/16
[recte: n. 70 del 2015], tenendo conto dell’eccezionalità della situazione
economica internazionale, dell’esigenza prioritaria del raggiungimento degli
obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, anche garantendo
l’equilibrio di bilancio dell’ente previdenziale»;
che
l’interveniente sottolinea infine come in materia previdenziale assuma rilievo
determinante l’attenzione all’equilibrio del sistema, inteso come tendente alla
corrispondenza tra le risorse disponibili e le prestazioni erogate e come la
normativa censurata garantirebbe tale equilibrio, sia in ossequio all’art. 3
Cost., sia in adempimento del vincolo imposto dall’art. 81, quarto comma
[recte: terzo comma], Cost., tenuto conto che essa vale a escludere effetti
finanziari tali da compromettere gli equilibri di finanza pubblica e gli
impegni assunti dall’Italia con l’Unione europea;
che,
in prossimità della camera di consiglio, S. C., costituito nel giudizio reg.
ord. n. 133 del 2017, ha depositato una memoria illustrativa, con la quale ha
chiesto che le disposizioni censurate siano dichiarate costituzionalmente
illegittime in riferimento «agli articoli: 2, 3 secondo comma, 36 primo comma e
38 secondo comma della Costituzione ed anche all’art. 117 comma 1 in
riferimento alle norme interposte 6 e 13 della CEDU»;
che,
dopo avere segnalato la pubblicazione, intervenuta medio tempore, della sentenza della
Corte costituzionale n. 250 del 2017, la parte afferma di ritenere che le
argomentazioni del giudice a quo «esplorino la vicenda sotto un distinto e
nuovo profilo», inerente la violazione del principio del legittimo affidamento;
che,
a tale proposito, S. C. asserisce che, nella specie, ricorrerebbero «tutti i
presupposti essenziali per l’ingenerarsi di un legittimo affidamento», atteso
che egli «ha maturato la convinzione lungo l’intero arco lavorativo e per un
periodo iniziale del periodo di quiescenza che il suo trattamento pensionistico
sarebbe stato costantemente aggiornato per tutto il resto della sua esistenza
in modo proporzionale […] ed adeguato al potere di acquisto. Non
necessariamente al cento%, ma nemmeno allo zero%, con l’aggravio degli effetti
permanenti, irreversibili e progressivi nel tempo»;
che,
nel ribadire quanto dedotto nel proprio atto di costituzione in giudizio a
proposito della violazione degli artt. 3, secondo comma, 36, primo comma, e 38,
secondo comma, Cost., la parte costituita afferma che le disposizioni
denunciate violerebbero, perciò, «innanzitutto l’art. 2 Cost. (principio del
legittimo affidamento) e l’art. 117, comma 1 Cost. in riferimento agli artt. 6
e 13 CEDU»;
che,
in prossimità della camera di consiglio, il Presidente del Consiglio dei
ministri ha depositato memorie illustrative, con le quali, dopo avere ribadito
quanto dedotto nei propri atti di intervento in giudizio, rammenta che,
successivamente alle ordinanze di rimessione, è intervenuta la sentenza della
Corte costituzionale n. 250 del 2017, con la quale sarebbero state
dichiarate non fondate «questioni di tenore testuale analogo e concernenti
fattispecie identiche a quell[e] in esame», sicché, non avendo i rimettenti
fornito «alcun elemento nuovo o spunti diversi di valutazione», queste ultime
dovrebbero essere dichiarate inammissibili o manifestamente infondate;
che,
in prossimità della camera di consiglio, anche l’INPS ha depositato, in tutti i
cinque giudizi, delle memorie illustrative, con le quali rappresenta che le
questioni sollevate sarebbero state ritenute non fondate dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 250 del
2017, sicché esse dovrebbero essere dichiarate inammissibili;
che,
con riguardo al giudizio iscritto al n. 122 reg. ord. 2017, la rimettente Corte
dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, ha trasmesso
copia della propria sentenza n. 81 del 2018, depositata il 9 aprile 2018, con
la quale ha dichiarato l’estinzione del giudizio principale per rinuncia agli
atti dello stesso da parte dei ricorrenti.
Considerato che, con cinque ordinanze di contenuto in larghissima parte
coincidente, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la
Lombardia, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: a) del comma
25 – in particolare, lettere b), c), d) ed e) (reg. ord. n. 122 e n. 123 del
2017), lettera e) (reg. ord. n. 131 e n. 133 del 2017) e lettera b) (reg. ord.
n. 132 del 2017) – dell’art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201
(Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti
pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214,
nel testo di tale comma sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1), del
decreto-legge 21 maggio 2015, n. 65 (Disposizioni urgenti in materia di pensioni,
di ammortizzatori sociali e di garanzie TFR), convertito, con modificazioni,
nella legge 17 luglio 2015, n. 109; b) del comma 25-bis dello stesso art. 24,
nel testo di tale comma inserito dall’art. 1, comma 1, numero 2), del d.l. n.
65 del 2015 (reg. ord. n. 122, n. 123 e n. 132 del 2017); c) dell’art. 1, comma
483, lettera e), della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di
stabilità 2014)», nella parte in cui stabilisce che, «per il solo anno 2014,
[la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici] non è riconosciuta
con riferimento alle fasce di importo superiori a sei volte il trattamento
minimo INPS» (reg. ord. n. 122 e n. 133 del 2017);
che
il giudice a quo espone che, sulla base di tali disposizioni: la rivalutazione
automatica dei trattamenti pensionistici compresi tra quelli superiori a tre
volte il trattamento minimo INPS e quelli fino a sei volte lo stesso
trattamento, per gli anni 2012 e 2013, è riconosciuta solo nelle limitate
percentuali – rispettivamente, del 40 per cento, del 20 per cento e del 10 per
cento – stabilite dalle lettere b), c) e d) del comma 25 dell’art. 24 del d.l.
n. 201 del 2011; la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici
superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, per gli anni 2012 e 2013, non
è riconosciuta (ai sensi della lettera e dello stesso comma 25) e, per l’anno
2014, «non è riconosciuta con riferimento alle fasce di importo superiori a sei
volte il trattamento minimo INPS» (ai sensi della lettera e del comma 483
dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013); nell’anno 2014, la rivalutazione
automatica dei trattamenti pensionistici, come determinata dal comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, è riconosciuta nella misura del solo 20
per cento (ai sensi del comma 25-bis dello stesso art. 24);
che,
secondo il rimettente, tale disciplina della cosiddetta perequazione delle
pensioni per gli anni 2012, 2013 e 2014 violerebbe gli artt. 3, secondo comma
(recte: primo comma), 36, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione
– in relazione ai principi, rispettivamente, di ragionevolezza e di
proporzionalità e adeguatezza dei trattamenti pensionistici – perché opererebbe
un non corretto bilanciamento tra le esigenze di risparmio della finanza
pubblica e l’interesse dei pensionati alla conservazione del potere di acquisto
dei trattamenti pensionistici e non assicurerebbe la proporzionalità e
l’adeguatezza degli stessi, in relazione alla diminuzione di tale potere di
acquisto causata dall’inflazione;
che,
dato che le questioni sollevate con le cinque ordinanze di rimessione hanno a
oggetto, per la gran parte, le stesse disposizioni, e queste sono censurate in
riferimento a parametri e con argomentazioni coincidenti, i giudizi di
legittimità costituzionale devono essere riuniti, per essere congiuntamente
trattati e decisi con un’unica pronuncia;
che,
preliminarmente, va rilevato che S. C., parte costituita nel giudizio reg. ord.
n. 133 del 2017, ha dedotto la violazione di parametri e profili di
incostituzionalità ulteriori rispetto a quelli indicati in tale ordinanza di
rimessione;
che,
in particolare, tale parte ha dedotto: con l’atto di costituzione in giudizio,
la violazione dell’art. 3 Cost. «con riferimento all’uguaglianza […] tra […]
cittadini percettori di pensione e cittadini percettori di redditi di altra
natura» e la violazione del «principio del "legittimo affidamento”»; con la
memoria illustrativa depositata in prossimità della camera di consiglio, la
violazione dell’«art. 2 Cost. (principio del legittimo affidamento)» nonché
dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva
con la legge 4 agosto 1955, n. 848;
che
tali parametri e profili di incostituzionalità non sono indicati nell’ordinanza
menzionata;
che
le relative censure si traducono, quindi, in questioni non sollevate nel
giudizio iscritto al n. 133 reg. ord. 2017 e sono, perciò, inammissibili;
che,
infatti, in base alla costante giurisprudenza di questa Corte, «[l]’oggetto del
giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle
disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione; non
possono, pertanto, essere presi in considerazione, oltre i limiti in queste
fissati, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti,
sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o
modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 251, n. 250, n. 35 e n. 29 del 2017;
n. 214 e n. 96 del 2016)»
(sentenza n. 27
del 2018, punto 3.1.1. del Considerato in diritto; nello stesso senso,
oltre alle pronunce citate da quest’ultima, sentenza n. 12 del
2018);
che,
sempre in via preliminare, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità
delle sollevate questioni prospettata dal Presidente del Consiglio dei ministri
con riferimento all’asserita insindacabilità delle scelte discrezionali del
legislatore «in ordine alle modalità e ai tempi della rivalutazione automatica
dei trattamenti pensionistici; laddove, come nel caso di specie, [l’]intervento
sia necessitato dal dare attuazione ai principi enunciati nella […] sentenza n. 70/16
[recte: n. 70 del 2015], tenendo conto dell’eccezionalità della situazione
economica internazionale, dell’esigenza prioritaria del raggiungimento degli
obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, anche garantendo
l’equilibrio di bilancio dell’ente previdenziale»;
che
la discrezionalità spettante al legislatore nella scelta dei meccanismi diretti
ad assicurare nel tempo l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici trova pur
sempre un limite nel «criterio di ragionevolezza», il quale «circoscrive la
discrezionalità del legislatore e vincola le sue scelte all’adozione di
soluzioni coerenti con i parametri costituzionali» (sentenza n. 70 del
2015, punto 8. del Considerato in diritto);
che,
pertanto, la sussistenza della discrezionalità legislativa invocata dal
Presidente del Consiglio dei ministri non esclude la necessità di verificare
nel merito le scelte di volta in volta operate dal legislatore riguardo ai
meccanismi di rivalutazione dei trattamenti pensionistici, quale che sia il
contesto giuridico e di fatto nel quale esse si inseriscono, contesto del quale
questa Corte, nel compiere tale verifica, non potrà, ovviamente, non tenere
conto;
che
non ha rilievo, ai fini dell’ammissibilità delle questioni sollevate con
l’ordinanza iscritta al n. 122 reg. ord. 2017, il fatto che la rimettente Corte
dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, con la sentenza
n. 81 del 2018, depositata il 9 aprile 2018 e trasmessa a questa Corte, abbia
dichiarato l’estinzione del giudizio principale per rinuncia agli atti dello
stesso da parte dei ricorrenti;
che,
infatti, a norma dell’art. 18, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale, l’estinzione del processo principale non
produce effetti sul giudizio davanti a questa Corte;
che,
nel merito, le questioni sollevate sono manifestamente infondate;
che,
con la sentenza
n. 250 del 2017, questa Corte ha dichiarato non fondate identiche questioni
di legittimità costituzionale, concernenti le stesse disposizioni e sollevate
in riferimento (tra gli altri) agli stessi parametri costituzionali e sotto gli
stessi profili;
che, con
riguardo ai commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, con la
detta sentenza questa Corte, dopo avere ribadito la necessità che, nella
disciplina dei trattamenti pensionistici, sia salvaguardata la garanzia di un
reddito che non comprima le «esigenze di vita cui era precedentemente
commisurata la prestazione previdenziale» (sentenza n. 240 del
1994) e come tale obiettivo sia raggiungibile «per il tramite e nella
misura» dell’art. 38, secondo comma, Cost. (sentenza n. 156 del
1991) – il che comporta «solo indirettamente» (sentenza n. 361 del
1996) un aggancio all’art. 36, primo comma, Cost., «anche al fine di dare
un più concreto contenuto al parametro della adeguatezza» – ha posto in rilievo
come, su questo terreno, si debba esercitare la discrezionalità del
legislatore, chiamato a bilanciare, secondo criteri non irragionevoli,
l’interesse dei pensionati a preservare il potere di acquisto dei propri
trattamenti previdenziali con le esigenze finanziarie e di equilibrio del
bilancio dello Stato;
che,
ciò rimarcato, unitamente alla necessità che, al fine di assicurare la coerente
applicazione del principio di ragionevolezza negli interventi legislativi che
si prefiggono risparmi di spesa nella materia pensionistica, questi ultimi
siano «accuratamente motivati», la sentenza n. 250 del
2017 ha reputato che i denunciati commi 25 e 25-bis siano frutto di scelte
non irragionevoli del legislatore;
che,
in proposito, questa Corte ha affermato che, dal disegno complessivo di tali commi,
emergono con evidenza le esigenze finanziarie di cui il legislatore ha tenuto
conto nell’esercizio della sua discrezionalità, le quali sono state preservate
attraverso un sacrificio parziale e temporaneo dell’interesse dei pensionati a
tutelare il potere di acquisto dei propri trattamenti, nell’attuazione dei
principi di adeguatezza e di proporzionalità dei trattamenti pensionistici, la
cui osservanza trova conferma nella scelta non irragionevole di riconoscere la
perequazione in misure percentuali decrescenti all’aumentare dell’importo
complessivo del trattamento pensionistico, sino a escluderla per i trattamenti
superiori a sei volte il minimo INPS, destinando, così, le limitate risorse
finanziarie disponibili, in via prioritaria, alle categorie di pensionati con i
trattamenti più bassi;
che,
allo stesso proposito, questa Corte ha altresì statuito che tale scelta
legislativa di privilegiare i trattamenti pensionistici di modesto importo
soddisfa un canone di non irragionevolezza che trova riscontro nei maggiori
margini di resistenza delle pensioni di importo più alto rispetto agli effetti
dell’inflazione;
che
la sentenza n.
250 del 2017 ha escluso anche che i denunciati commi 25 e 25-bis violino il
principio di adeguatezza dei trattamenti pensionistici, di cui all’art. 38,
secondo comma, Cost.;
che,
a tale riguardo, questa Corte ha anzitutto negato che il blocco, per gli anni
2012 e 2013, della perequazione dei trattamenti pensionistici superiori a sei
volte il minimo INPS sia tale da minare l’adeguatezza degli stessi, considerati
nel loro complesso, atteso che esso incide su trattamenti di importo
medio-alto, i quali, proprio per la loro maggiore entità, presentano margini di
resistenza all’erosione del potere di acquisto causata dall’inflazione,
peraltro di livello piuttosto contenuto negli anni 2011 e 2012;
che
ad analoga conclusione questa Corte è pervenuta a proposito del riconoscimento,
sempre per gli anni 2012 e 2013, della rivalutazione automatica dei trattamenti
pensionistici superiori a tre volte e fino a sei volte il minimo INPS nelle
misure percentuali progressivamente decrescenti previste dalle lettere b), c) e
d) del denunciato comma 25;
che,
sul punto, la sentenza
n. 250 del 2017 ha osservato: da un lato, che siffatti «criteri di
progressività» erano già stati ritenuti «parametrati sui valori costituzionali
della proporzionalità e dell’adeguatezza dei trattamenti di quiescenza»
(sentenze n. 173
del 2016 e n.
70 del 2015), il che è comprovato dal fatto che essi assicurano a tali
trattamenti una salvaguardia dall’erosione del potere di acquisto che aumenta
gradualmente al diminuire, con la riduzione del loro importo, anche della loro
capacità di resistenza alla stessa erosione; dall’altro, che le anzidette
misure percentuali decrescenti della perequazione riconosciuta a trattamenti
pensionistici medi (quali devono considerarsi quelli superiori a cinque volte e
pari o inferiori a sei volte il minimo INPS) o, ancorché modesti, tuttavia pur
sempre superiori a tre e quattro volte il trattamento che costituisce il
«nucleo essenziale» della tutela previdenziale (sentenza n. 173 del
2016), non sono irragionevoli, non essendo tali da poter concretamente pregiudicare
l’adeguatezza degli stessi trattamenti, considerati nel loro complesso, a
soddisfare le esigenze di vita;
che
la stessa sentenza
n. 250 del 2017 ha altresì argomentato come tali conclusioni non siano
inficiate, rispettivamente, dal fatto che il censurato blocco della
perequazione dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS
non preveda alcuna forma di recupero e produca i propri effetti anche sulla perequazione
per gli anni successivi – trattandosi di normali conseguenze, in difetto di
specifiche disposizioni di segno contrario, delle misure di blocco della
perequazione – e dal fatto che, a norma del denunciato comma 25-bis, gli
incrementi perequativi attribuiti per gli anni 2012 e 2013 con riguardo alle
pensioni superiori a tre volte e fino a sei volte il minimo siano riconosciuti,
ai fini della determinazione delle basi di calcolo per il computo della
perequazione a decorrere dal 2014, nelle limitate percentuali indicate nello
stesso comma;
che
la sentenza n.
250 del 2017 ha infine escluso che i denunciati commi 25 e 25-bis violino
il principio di proporzionalità dei trattamenti pensionistici alla quantità e
qualità del lavoro prestato, di cui all’art. 36, primo comma, Cost.;
che,
a tale riguardo, questa Corte ha anzitutto richiamato la sentenza n. 70 del
2015, con la quale, nell’applicare il principio di proporzionalità ai
trattamenti di quiescenza, aveva statuito che ciò non comporta «un’automatica
ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione,
poiché è riservata al legislatore una sfera di discrezionalità per
l’attuazione» anche di tale principio, e la sentenza n. 173 del
2016, con cui aveva rimarcato che la garanzia dell’art. 38 Cost. è
«agganciata anche all’art. 36 Cost., ma non in modo indefettibile e
strettamente proporzionale», sicché la determinazione del trattamento
pensionistico e del suo adeguamento «tiene conto anche dell’impegno individuale
nella quantità e qualità del lavoro svolto nella vita attiva» (sentenza n. 250 del
2017);
che
la stessa sentenza
n. 250 del 2017 ha quindi statuito che, considerato tale orientamento, le
argomentazioni in essa spese con riguardo al principio di adeguatezza, di cui
all’art. 38, secondo comma, Cost., muovono nella direzione della non
irragionevolezza del bilanciamento tra l’interesse dei pensionati e le esigenze
finanziarie dello Stato operato dai denunciati commi 25 e 25-bis, i quali,
inoltre, rispettano il principio di proporzionalità dei trattamenti di
quiescenza alla quantità e qualità del lavoro prestato;
che
questa Corte ha concluso che è nella costante interazione tra i principi costituzionali
racchiusi negli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. che si
devono rinvenire i limiti alle misure di contenimento della spesa che, in
mutevoli contesti economici, hanno inciso sui trattamenti pensionistici e che
l’individuazione di un equilibrio tra i valori coinvolti determina la non
irragionevolezza dei censurati commi 25 e 25-bis;
che,
con riguardo all’art. 1, comma 483, lettera e), della legge n. 147 del 2013,
nella parte in cui disciplina la rivalutazione automatica dei trattamenti
pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS per l’anno 2014, nella sentenza n. 250 del
2017 questa Corte ha richiamato la sentenza n. 173 del
2016, con la quale, nell’esaminare l’intero comma 483, aveva statuito che,
ancorché «la limitazione della rivalutazione monetaria dei trattamenti
pensionistici, per il biennio 2012-2013, di cui al citato art. 24, comma 25,
del d.l. n. 201 del 2011 [sia] stata dichiarata costituzionalmente illegittima
con sentenza di
questa Corte n. 70 del 2015», tuttavia «questa stessa sentenza (al punto 7.
del Considerato in diritto), ha sottolineato come da quella norma (fonte di un
"blocco integrale” della rivalutazione per le pensioni di importo superiore a
tre volte il minimo) si "differenzi” (non condividendone, quindi, le ragioni di
incostituzionalità) l’art. 1, comma 483, della legge 147 del 2013, che,
viceversa, "ha previsto, per il triennio 2014-2016, una rimodulazione
nell’applicazione della percentuale di perequazione automatica sul complesso
dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo di cui all’art. 34, comma
1, della legge n. 448 del 1998, con l’azzeramento per le sole fasce di importo
superiore a sei volte il trattamento minimo INPS e per il solo anno 2014”,
ispirandosi "a criteri di progressività, parametrati sui valori costituzionali
della proporzionalità e della adeguatezza dei trattamenti di quiescenza”»;
che
le ricordate argomentazioni e quelle ulteriori esposte nella stessa sentenza n. 250 del
2017 hanno condotto, infine, questa Corte a ritenere l’infondatezza delle
censure sollevate – sempre in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38,
secondo comma, Cost. – nei confronti dell’art. 24, comma 25, lettere b), c), d)
ed e), del d.l. n. 201 del 2011, congiuntamente all’art. 1, comma 483, lettera
e), della legge n. 147 del 2013 e nei confronti dell’art. 24, commi 25 e
25-bis, del d.l. n. 201 del 2011 «in collegamento» con l’art. 1, comma 483,
lettere d) ed e), della legge n. 147 del 2013;
che
la rimettente Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la
Lombardia, non ha prospettato profili o argomentazioni diversi rispetto a
quelli già esaminati da questa Corte con la sentenza n. 250 del
2017 o comunque idonei a indurre a una differente pronuncia sulle questioni
di legittimità costituzionale in esame;
che
queste ultime, pertanto, devono essere dichiarate manifestamente infondate.
Visti gli
artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle
Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti
i giudizi,
dichiara
la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art.
24, commi 25, lettere b), c), d) ed e), e 25-bis, del decreto-legge 6 dicembre
2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge
22 dicembre 2011, n. 214 – come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma
25-bis), rispettivamente, dai numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del
decreto-legge 21 maggio 2015, n. 65 (Disposizioni urgenti in materia di
pensioni, di ammortizzatori sociali e di garanzie TFR), convertito, con
modificazioni, nella legge 17 luglio 2015, n. 109 – e dell’art. 1, comma 483,
lettera e), della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità
2014)», sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 36, primo comma, e
38, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte dei conti, Sezione
giurisdizionale regionale per la Lombardia, con le ordinanze indicate in
epigrafe.
Cosí
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 18 aprile 2018.
F.to:
Giorgio
LATTANZI, Presidente
Silvana
SCIARRA, Redattore
Roberto
MILANA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria l'11 maggio 2018.