SENTENZA N. 177
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, Parte prima, allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli nel procedimento vertente tra il Fallimento della Keymat Industrie spa e l’Agenzia delle entrate - direzione provinciale II di Napoli, con ordinanza del 20 maggio 2016, iscritta al n. 217 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 luglio 2017 il Giudice relatore Daria de Pretis.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 20 maggio 2016, iscritta al n. 217 del registro ordinanze 2016, la Commissione tributaria provinciale di Napoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, Parte prima, allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro).
La questione è sorta nel corso di un giudizio promosso dal curatore del fallimento della Keymat Industrie spa nei confronti dell’Agenzia delle entrate - direzione provinciale II di Napoli.
La controversia ha ad oggetto un avviso di liquidazione, che ha determinato in euro 68.559,00 l’imposta di registro relativa un decreto pronunciato ai sensi dell’art. 98 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa; in seguito: legge fallimentare). Con esso il Tribunale ordinario di Napoli, definendo un giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento della Keymat Industrie spa, ha ammesso al concorso un credito in precedenza escluso.
Il ricorrente nel processo principale lamenta che sia stata applicata l’imposta di registro nella misura proporzionale dell’uno per cento, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 (in seguito, anche: Tariffa), anziché nella misura fissa, nonostante si tratti della registrazione di un provvedimento relativo a un credito derivante da operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto (IVA). Sostiene, altresì, che le pronunce rese a definizione dei giudizi di opposizione allo stato passivo, per la loro natura endofallimentare, non sarebbero soggette a registrazione.
Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 10 della Costituzione, nella parte in cui assoggetta all’imposta di registro nella misura proporzionale dell’uno per cento, anziché in misura fissa, gli «[a]tti dell’Autorità Giudiziaria ordinaria e speciale in materia di controversie civili che definiscono, anche parzialmente, il giudizio […] c) di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale», anche nel caso di accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette a IVA.
1.1.– Sulla rilevanza della questione, il rimettente osserva che, ai sensi della nota II all’art. 8 della Tariffa, gli atti giudiziari di cui al comma 1, lettera b) e al comma 1-bis dello stesso art. 8 non sono sottoposti all’imposta proporzionale di registro per la parte in cui dispongono il pagamento di corrispettivi o prestazioni soggetti a IVA. Tale norma costituirebbe una particolare attuazione del principio di alternatività fra l’imposta di registro e l’IVA stabilito dall’art. 40 del d.P.R. n. 131 del 1986, sicché agli atti in essa indicati si applicherebbe l’imposta in misura fissa.
Il rimettente osserva, altresì, che secondo la costante giurisprudenza di legittimità, alla quale dichiara di aderire, la norma di cui alla citata nota II si applica ai soli provvedimenti di condanna e, in quanto di stretta interpretazione, non si può estendere agli atti giudiziari che si limitano ad accertare crediti derivanti da operazioni soggette a IVA, come le sentenze pronunciate in esito ai giudizi di opposizione allo stato passivo del fallimento.
Così interpretata la norma – che sarebbe valida anche per i decreti che definiscono ora i giudizi di opposizione, ai sensi dell’art. 98 della legge fallimentare nella sua attuale formulazione – il ricorso dovrebbe essere respinto, mentre esso sarebbe invece destinato ad essere accolto se la Corte ritenesse fondato il dubbio di costituzionalità. In questo secondo caso infatti il ricorrente dovrebbe pagare solo l’imposta di registro in misura fissa.
Da qui, per il giudice a quo, la rilevanza della questione.
1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, la norma censurata violerebbe in primo luogo l’art. 3 Cost. per lesione del principio di eguaglianza, in quanto sarebbe del tutto irragionevole «trattare in maniera differenziata» le pronunce di accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette a IVA e le pronunce di condanna al pagamento degli stessi crediti, per le quali la nota II all’art. 8 della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, prevede l’applicazione dell’imposta in misura fissa.
Secondo il rimettente, la pronuncia di condanna al pagamento di un credito presuppone sempre, quale suo antecedente logico, un giudizio di accertamento dello stesso credito, sicché il legislatore disciplinerebbe in modo irragionevolmente diverso «situazioni con presupposti identici», solo perché la parte avrebbe deciso di non chiedere contestualmente anche la condanna del debitore.
Questa conclusione varrebbe, a maggior ragione, per i giudizi di opposizione allo stato passivo, in quanto il creditore escluso non potrebbe agire per ottenere la condanna del fallimento, ostandovi le regole del concorso, che consentono solo l’azione di accertamento endofallimentare. Con l’opposizione si proporrebbe quindi una domanda di accertamento equivalente, nella sostanza, a un’azione di condanna, sia pure nei limiti del concorso, poiché il creditore chiede, oltre all’accertamento del suo diritto, anche di concorrere nell’attivo.
1.3.– In secondo luogo, la norma censurata violerebbe l’art. 24 Cost. per lesione del diritto di difesa sia del creditore che del fallimento, in quanto il primo «non azionerà le sue pretese nel giudizio di opposizione (specialmente laddove vanti importi di notevole entità), perché a fronte di una ipotetica partecipazione al concorso (credito verosimilmente falcidiato e di molto) sosterrà viceversa un costo certo e di notevole entità (l’1% della somma vantata)», mentre il secondo avrebbe «maggiore convenienza a non coltivare alcun giudizio», perché l’ammissione al passivo del credito e il suo pagamento con la falcidia concorsuale si tradurrebbe per la massa dei creditori in un «costo» inferiore a quello che deriverebbe dal pagamento in prededuzione, ex art. 111 della legge fallimentare, dell’importo versato a titolo di imposta di registro proporzionale dal creditore vittorioso nel giudizio di opposizione.
1.4.– Sarebbe violato anche l’art. 53 Cost. per lesione del principio di capacità contributiva, in quanto il creditore di una prestazione soggetta a IVA sarebbe tenuto al pagamento dell’imposta in misura proporzionale, anziché fissa, indipendentemente «da una sua attività o scelta processuale» e «per il solo fatto che è stato costretto ad agire in ambito endo-fallimentare», non potendo agire in via ordinaria nei confronti del debitore fallito; e in quanto, inoltre, «il pagamento dell’imposta viene chiesto anche al Fallimento (anzi, in caso di accoglimento dell’opposizione il creditore istante avrà diritto al pagamento in prededuzione)».
1.5.– Infine, sarebbe violato l’art. 10 Cost. per lesione del «principio di concorrenza (garantito anche a livello comunitario)», in quanto la norma censurata porrebbe il creditore del fallito «in una posizione deteriore rispetto a un creditore che agisca contro un debitore non fallito».
2.– Con atto depositato in cancelleria il 22 novembre 2016 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque manifestamente infondata.
2.1.– L’interveniente osserva che l’imposta di registro, quale imposta d’atto, può avere natura di tassa o natura di imposta in senso stretto a seconda che essa sia legata alla prestazione di un servizio amministrativo di registrazione, che comporta l’applicazione del tributo in misura fissa, oppure al contenuto e agli effetti giuridici degli atti, dai quali emerga un evento suscettibile di valutazione economica, con conseguente applicazione di una misura proporzionale. L’imposta dovuta per i decreti che definiscono il giudizio di opposizione allo stato passivo avrebbe questa seconda natura, dal momento che essi contengono l’accertamento dell’esistenza e dell’efficacia del credito nei confronti della procedura e consentono al contribuente di partecipare al concorso ottenendo la soddisfazione del credito in sede di riparto.
Ciò premesso, ad avviso dell’Avvocatura la diversità delle situazioni messe a confronto escluderebbe la fondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. Solo la pronuncia di condanna, a differenza di quella di accertamento, costituisce titolo esecutivo idoneo a ottenere sia la soddisfazione coattiva del credito che l’adozione di misure cautelari, quale l’ipoteca giudiziale ex art. 2818 del codice civile. Il fatto che la condanna presupponga sempre l’accertamento del diritto non rileverebbe, perché «quest’ultimo è qualcosa in meno rispetto alla condanna», così da giustificare l’assoggettamento delle corrispondenti decisioni giudiziarie a un’imposta proporzionale dell’uno per cento, ridotta a un terzo di quella ordinariamente prevista per le sentenze di condanna, pari al tre per cento ex art. 8, comma 1, lettera b), della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986.
Nel caso di accertamento giudiziale di un credito derivante da operazioni soggette a IVA, la mancata applicazione del principio di alternatività sarebbe del tutto logica e coerente con il sistema, perché la natura dichiarativa della pronuncia esclude l’obbligo di versamento dell’IVA. Verrebbe pertanto meno la necessità di evitare una doppia imposizione dello stesso fatto economico, costituente la ratio dell’assoggettamento alla sola imposta fissa delle pronunce di condanna, la cui esecuzione determina l’applicazione immediata dell’IVA. Il trattamento delle sentenze di accertamento con una tassazione di registro autonoma, pari a un terzo di quella ordinaria, sembrerebbe dunque ragionevole.
Secondo l’interveniente, il fatto che nel giudizio di opposizione allo stato passivo sia preclusa una pronuncia di condanna al pagamento del credito accertato non comporta alcuna violazione dell’art. 3 Cost., in quanto le situazioni messe a confronto permangono comunque diverse. Nelle procedure concorsuali, invero, l’impossibilità di ottenere pronunce di condanna al pagamento dei crediti ammessi al passivo sarebbe connaturata al sistema, che vieta di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, ex art. 51 della legge fallimentare, sicché l’auspicata estensione del principio di alternatività ai soli decreti che definiscono i giudizi di opposizione allo stato passivo, in sostanziale deroga alla regola generale che prevede la tassazione proporzionale delle decisioni di accertamento, apparirebbe del tutto ingiustificata.
2.2.– La questione sollevata in riferimento all’art. 24 Cost. sarebbe inammissibile, perché fondata sull’erroneo presupposto che il creditore escluso dal concorso sia indotto a non proporre opposizione per la certezza del costo corrispondente all’imposta proporzionale di registro applicabile sulla somma accertata giudizialmente, mentre la sua successiva riscossione in sede di riparto sarebbe invece incerta e soggetta alla falcidia concorsuale. Il giudice a quo non avrebbe considerato che il costo della registrazione del decreto emesso ex art. 98 della legge fallimentare non rimane a carico del creditore vittorioso che abbia anticipato il pagamento dell’imposta, avendo egli diritto al rimborso della spesa nei confronti della procedura, in prededuzione rispetto agli altri crediti.
2.3.– La questione sollevata in riferimento all’art. 53 Cost. sarebbe infondata, in quanto l’imposta di registro in esame è applicabile in presenza di una manifestazione di capacità contributiva, come si dovrebbe considerare la pronuncia di accertamento dell’esistenza di un credito.
2.4.– Infine, la questione riferita all’art. 10 Cost., sotto il profilo della lesione del principio comunitario di tutela della concorrenza, sarebbe inammissibile per mancanza assoluta di motivazione, apparendo in ogni caso improprio il riferimento a tale parametro, anziché all’art. 11 Cost.
Considerato in diritto
1.– La Commissione tributaria provinciale di Napoli dubita della legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, Parte prima, allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro) (in seguito, anche: Tariffa), in riferimento agli artt. 3, 10, 24 e 53 della Costituzione, nella parte in cui assoggetta all’imposta di registro nella misura proporzionale dell’uno per cento, anziché in misura fissa, gli «[a]tti dell’Autorità Giudiziaria ordinaria e speciale in materia di controversie civili che definiscono, anche parzialmente, il giudizio […] c) di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale», anche nel caso di accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto (IVA).
La questione è sorta nel corso di un giudizio promosso dal curatore di un fallimento nei confronti dell’Agenzia delle entrate - direzione provinciale II di Napoli. La controversia ha ad oggetto un avviso di liquidazione che ha applicato l’imposta di registro proporzionale a un decreto con il quale il Tribunale ordinario di Napoli, definendo un giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento, ha ammesso al concorso un credito in precedenza escluso, ai sensi dell’art. 99 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa; in seguito: legge fallimentare).
Il ricorrente nel processo principale lamenta che sia stata applicata l’imposta di registro nella misura proporzionale dell’uno per cento ai sensi dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, anziché nella misura fissa, nonostante si tratti della registrazione di un provvedimento relativo a un credito derivante da operazioni soggette a IVA.
Il rimettente osserva che ai sensi della nota II all’art. 8 della Tariffa gli atti giudiziari recanti condanna al pagamento di somme, di cui al comma 1, lettera b), e al comma 1-bis dello stesso art. 8, per la parte in cui dispongono il pagamento di corrispettivi o prestazioni soggetti a IVA, non sono sottoposti all’imposta proporzionale di registro, bensì all’imposta in misura fissa, in attuazione del principio di alternatività fra l’imposta di registro e l’IVA stabilito dall’art. 40 del d.P.R. n. 131 del 1986.
Il rimettente osserva, altresì, che secondo la costante giurisprudenza di legittimità, alla quale dichiara di aderire, la norma di cui alla citata nota II si applica ai soli provvedimenti di condanna e, per la sua natura di stretta interpretazione, non si può estendere agli atti giudiziari che si limitano ad accertare crediti derivanti da operazioni soggette a IVA, come quelli pronunciati in esito ai giudizi di opposizione allo stato passivo del fallimento.
2.– La norma censurata violerebbe in primo luogo l’art. 3 Cost. per lesione del principio di eguaglianza, in quanto sarebbe del tutto irragionevole trattare in maniera differenziata le pronunce di accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette a IVA e le pronunce di condanna al pagamento degli stessi crediti, per le quali la nota II all’art. 8 della Tariffa prevede l’applicazione dell’imposta in misura fissa.
Secondo il rimettente, la pronuncia di condanna al pagamento di un credito presuppone sempre, quale suo antecedente logico, un giudizio di accertamento dello stesso credito, sicché il legislatore disciplinerebbe in modo irragionevolmente diverso «situazioni con presupposti identici», solo perché la parte avrebbe deciso di non chiedere contestualmente anche la condanna del debitore.
Questa conclusione varrebbe, a maggior ragione, per i giudizi di opposizione allo stato passivo, in quanto il creditore escluso non potrebbe agire per ottenere la condanna del fallimento, ostandovi le regole del concorso, che consentono solo l’azione di accertamento endofallimentare. Con l’opposizione, pertanto, si proporrebbe una domanda di accertamento equivalente nella sostanza a un’azione di condanna, sia pure nei limiti del concorso, poiché il creditore chiede, oltre all’accertamento del suo diritto, anche di concorrere nell’attivo.
In secondo luogo, la norma censurata violerebbe l’art. 24 Cost., per lesione del diritto di difesa, sia del creditore che del fallimento, in quanto il primo «non azionerà le sue pretese nel giudizio di opposizione (specialmente laddove vanti importi di notevole entità) perché a fronte di una ipotetica partecipazione al concorso (credito verosimilmente falcidiato e di molto) sosterrà viceversa un costo certo e di notevole entità (l’1% della somma vantata)», mentre il secondo avrebbe «maggiore convenienza a non coltivare alcun giudizio», perché l’ammissione al passivo del credito e il suo pagamento con la falcidia concorsuale si tradurrebbe per la massa dei creditori in un «costo» inferiore a quello che deriverebbe dal pagamento in prededuzione, ex art. 111 della legge fallimentare, dell’importo versato a titolo di imposta di registro proporzionale dal creditore vittorioso nel giudizio di opposizione.
Sarebbe violato anche l’art. 53 Cost., per lesione del principio di capacità contributiva, in quanto il creditore di una prestazione soggetta a IVA sarebbe tenuto al pagamento dell’imposta in misura proporzionale, anziché fissa, indipendentemente «da una sua attività o scelta processuale» e «per il solo fatto che è stato costretto ad agire in ambito endo-fallimentare», non potendo agire in via ordinaria nei confronti del debitore fallito; inoltre, in quanto «il pagamento dell’imposta viene chiesto anche al Fallimento (anzi, in caso di accoglimento dell’opposizione il creditore istante avrà diritto al pagamento in prededuzione)».
Infine, sarebbe violato l’art. 10 Cost. per lesione del «principio di concorrenza (garantito anche a livello comunitario)», in quanto la norma censurata porrebbe il creditore del fallito «in una posizione deteriore rispetto a un creditore che agisca contro un debitore non fallito».
3.– La questione è fondata.
Secondo la costante giurisprudenza di legittimità la sentenza che a seguito del giudizio di opposizione ammette al passivo del fallimento un credito in precedenza escluso deve essere assoggettata all’imposta proporzionale dell’uno per cento, prevista dall’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986. Si tratta infatti di una pronuncia emessa in esito a un giudizio contenzioso di cognizione contenente l’accertamento, nei confronti della procedura fallimentare, dell’esistenza e dell’efficacia del credito con l’effetto di consentire al contribuente la partecipazione al concorso e la possibile soddisfazione delle sue ragioni in sede di riparto (Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenza 7 novembre 2012, n. 19247; Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenze 19 ottobre 2012, n. 17947 e n. 17946; Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenza 5 luglio 2011, n. 14816; Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenza 26 giugno 2009, n. 15159; Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenza 10 giugno 2005, n. 12359; Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenza 18 febbraio 2000, n. 1849).
Queste caratteristiche segnano la differenza fra la pronuncia in esame e gli atti giudiziali indicati nell’art. 8, comma 1, lettera b), e comma 1-bis della Tariffa, i quali, contenendo una statuizione di condanna, sono suscettibili di esecuzione forzata, preclusa, invece, nella procedura concorsuale.
Dalle diverse caratteristiche (e dai diversi effetti) dei due tipi di pronunce deriva che la regola dell’alternatività fra l’imposta di registro e l’IVA stabilita dall’art. 40 del d.P.R. n. 131 del 1986 – secondo il quale «[p]er gli atti relativi a cessioni di beni e prestazioni di servizi soggetti all’imposta sul valore aggiunto, l’imposta si applica in misura fissa» – non opera nel caso in cui il credito ammesso al concorso fallimentare in esito al giudizio di opposizione sorga da operazioni soggette a IVA. La nota II all’art. 8 della Tariffa limita infatti l’applicazione della citata regola dell’alternatività ai soli atti indicati espressamente (quelli di cui al comma 1, lettera b, e al comma 1-bis dell’art. 8), con una previsione agevolativa che, per la sua natura eccezionale e derogatoria, non è applicabile ad altri atti giudiziari.
«In definitiva» – afferma la Cassazione – «il legislatore, nell’ambito delle tipologie di atti dell’autorità giudiziaria elencate nell’art. 8 della tariffa, ha individuato in modo specifico e puntuale, nell’esercizio della sua discrezionalità, quelle […] da assoggettare, in deroga alla previsione generale, ad imposta in misura fissa anziché proporzionale: ne deriva che, pur se in astratto anche le disposizioni tributarie recanti benefici fiscali sono suscettibili di interpretazione estensiva […], la norma in esame, per le caratteristiche suddette, non lascia spazio all’interprete per ampliarne la precisa portata applicativa» (Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenze 19 ottobre 2012, n. 17947 e n. 17946).
Questo orientamento interpretativo può essere riferito anche al decreto motivato che definisce le medesime controversie ai sensi dell’art. 99 della legge fallimentare, nel testo vigente, trattandosi di provvedimento emesso all’esito di un giudizio contenzioso in materia di diritti soggettivi, sicché la sua forma, propria del rito camerale scelto dal legislatore, non ne muta la natura di pronuncia di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale, ex art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa.
Per la sua uniformità e costanza nel tempo, la descritta interpretazione della portata dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa integra il diritto vivente, sicché correttamente il giudice a quo pone in riferimento ad essa il suo dubbio di legittimità costituzionale, sottoponendola allo scrutinio di questa Corte.
3.1.– Nell’esame della censura relativa alla violazione dell’art. 3 Cost., si deve muovere dalla riconosciuta natura agevolativa della disciplina che applica l’imposta di registro in misura fissa alle (sole) pronunce di condanna al pagamento di crediti derivanti da operazioni soggette a IVA.
Questa Corte si è trovata più volte a vagliare la legittimità costituzionale di disposizioni che prevedono agevolazioni fiscali e, in questo contesto, ha affermato che «norme di tale tipo, aventi carattere eccezionale e derogatorio, costituiscono esercizio di un potere discrezionale del legislatore, censurabile solo per la sua eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità (sentenza n. 292 del 1987; ordinanza n. 174 del 2001); con la conseguenza che la Corte stessa non può estenderne l’ambito di applicazione, se non quando lo esiga la ratio dei benefici medesimi (sentenze n. 6 del 2014, n. 275 del 2005, n. 27 del 2001, n. 431 del 1997 e n. 86 del 1985; ordinanze n. 103 del 2012, n. 203 del 2011, n. 144 del 2009 e n. 10 del 1999)» (da ultimo, sentenze n. 153 del 2017 e n. 111 del 2016).
È pertanto necessario verificare innanzitutto se, come sostiene il giudice a quo, la ratio dell’agevolazione si possa considerare comune anche alla categoria delle pronunce di accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette a IVA, per le quali l’applicazione dell’imposta in misura fissa è negata.
L’agevolazione trova il suo fondamento nel principio di alternatività fra l’imposta di registro e l’IVA, stabilito in via generale dal citato art. 40 del d.P.R. n. 131 del 1986 e diretto a evitare fenomeni di doppia imposizione, conseguenti alla simmetria del sistema IVA-registro. Condizione necessaria e sufficiente del trattamento agevolato è che l’operazione ricada nell’ambito di applicazione dell’IVA, delineato oggettivamente e soggettivamente dal d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto). Si deve trattare, cioè, di «cessioni di beni» (art. 2) o «prestazioni di servizi» (art. 3) effettuate da soggetti esercenti attività di impresa (art. 4) o «arti e professioni» (art. 5).
Quanto agli atti giudiziari, l’ambito di applicazione del principio è specificamente limitato, come precisato dalla citata nota II all’art. 8 della Tariffa, ai provvedimenti di condanna «per la parte in cui dispongono il pagamento di corrispettivi o prestazioni soggetti all’imposta sul valore aggiunto». Come visto, l’estensione del trattamento agevolativo alle pronunce di accertamento di corrispettivi o prestazioni ugualmente soggetti all’IVA è impedita, per diritto vivente, dalla natura eccezionale e derogatoria della sua previsione rispetto alla regola generale dell’assoggettamento delle pronunce di condanna all’imposta di registro proporzionale.
A sostegno della censura di irragionevolezza, il giudice a quo muove innanzitutto dal rilievo che la condanna presuppone sempre un giudizio di accertamento, con la conseguenza che il legislatore disciplinerebbe in modo diverso situazioni aventi gli stessi presupposti, facendo dipendere la diversità di trattamento fiscale solo dalla decisione della parte di non chiedere contestualmente anche la condanna del debitore.
Questa tesi non può essere condivisa. In generale, il fatto che l’accertamento del diritto di credito costituisca il necessario antecedente logico-giuridico della condanna non rende omogenee le fattispecie messe a confronto, neppure ai fini del regime tributario agevolato. È evidente, infatti, la diversità degli effetti che derivano dai due tipi di pronunce, quanto alla realizzazione degli interessi del creditore, perché solo quelle di condanna sono suscettibili di esecuzione forzata, rientrando così nell’ambito di applicazione dell’IVA qualora dispongano il pagamento di corrispettivi o prestazioni soggetti a tale imposta.
Nondimeno, tenuto conto della ratio del principio di alternatività, che mira a evitare la doppia imposizione dello stesso atto, si deve pervenire a una diversa conclusione con riguardo alle pronunce di accertamento dei crediti che definiscono il giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento. Può così circoscriversi il più ampio petitum formulato dal giudice a quo, alla luce delle specifiche motivazioni che egli dedica a tale profilo della censura di irragionevolezza, in stretta correlazione con la fattispecie dedotta nel processo principale. Il rimettente precisa infatti che nei giudizi di opposizione allo stato passivo il creditore escluso non potrebbe agire per ottenere la condanna del fallimento, ostandovi le regole del concorso, che consentono solo l’azione di accertamento endofallimentare, con la quale il creditore chiede, altresì, di concorrere nella ripartizione dell’attivo.
Invero, il trattamento differenziato non risponde a ragionevolezza qualora l’accertamento del credito soggetto a IVA sia, come nel caso dell’accoglimento dell’opposizione allo stato passivo, il presupposto necessario e sufficiente della partecipazione del creditore all’esecuzione collettiva, che è strumentale al pagamento del credito stesso, sia pure in “moneta fallimentare”. Sotto tale profilo, la differenza tra le pronunce di accertamento e le pronunce di condanna, da cui la richiamata giurisprudenza trae la conclusione dell’inapplicabilità del regime fiscale agevolato alle prime, tende a sfumare sino a dissolversi. Per la soddisfazione del credito ammesso al passivo, infatti, non è richiesta una successiva pronuncia di condanna suscettibile di esecuzione forzata, preclusa dal divieto ex art. 51 della legge fallimentare.
Da questo angolo visuale, la ratio sottesa all’alternatività fra l’imposta di registro e l’IVA risulta comune a entrambe le situazioni messe a confronto ed esige pertanto che l’ambito di applicazione del beneficio fiscale sia esteso alle pronunce in questione, non essendo rilevante che il pagamento del corrispettivo soggetto a IVA, in sede di riparto dell’attivo fallimentare, sia un evento futuro e incerto nell’an e nel quantum, ben potendo valere questa stessa affermazione anche per il pagamento coattivo in seguito a condanna, che dipende comunque dalla capienza del patrimonio del debitore.
Di conseguenza, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, nella parte in cui assoggetta all’imposta di registro proporzionale, anziché in misura fissa, anche le pronunce che definiscono i giudizi di opposizione allo stato passivo del fallimento con l’accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto.
Le altre censure, con le quali il giudice a quo lamenta la violazione degli artt. 10, 24 e 53 Cost., rimangono assorbite.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, Parte prima, allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), nella parte in cui assoggetta all’imposta di registro proporzionale, anziché in misura fissa, anche le pronunce che definiscono i giudizi di opposizione allo stato passivo del fallimento con l’accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 luglio 2017.