SENTENZA N. 83
ANNO 2017
Commento alla decisione di
Angela Della Bella
per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Franco MODUGNO ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), introdotto dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92 (Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 117, promosso dal Magistrato di sorveglianza di Padova sull’istanza presentata da E. H., con ordinanza del 2 maggio 2016, iscritta al n. 125 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visti l’atto di costituzione di E. H., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7 marzo 2017 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi l’avvocato Giovanni Gentilini per E. H. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1.– Con ordinanza del 2 maggio 2016 (r.o. n. 125 del 2016), il Magistrato di sorveglianza di Padova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come introdotto dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92 (Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 117, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3, 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
Il Magistrato di sorveglianza deve decidere su una domanda di risarcimento proposta, ai sensi dell’art. 35-ter impugnato, da una persona soggetta a misura di sicurezza detentiva, che deduce di essere stata internata in condizioni disumane, e tali da comportare la violazione dell’art. 3 della CEDU.
Il giudice rimettente ritiene provata la violazione per un periodo di 132 giorni, durante il quale il ricorrente, in applicazione della misura di sicurezza detentiva dell’assegnazione a una casa di lavoro, è stato internato in una “cella” con uno spazio inferiore ai tre metri quadrati per persona.
L’interpretazione letterale dell’art. 35-ter della legge n. 354 del 1975 impedirebbe, secondo il giudice rimettente, di accogliere la domanda risarcitoria, posto che la disposizione si riferisce esclusivamente al detenuto, e non anche all’internato, salvo che nella rubrica, che li menziona invece entrambi. Insomma la disposizione sarebbe applicabile solo se la violazione si verifica durante l’espiazione della pena detentiva, e non anche se si verifica durante l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva.
Ciò determinerebbe anzitutto la lesione dell’art. 3 Cost., a causa della disparità di trattamento tra detenuto e internato. Un’analoga diseguaglianza esisterebbe poi tra gli internati che avevano già un ricorso pendente davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo e gli altri, perché l’art. 2, comma 2, del d.l. n. 92 del 2014, al fine di prevenire la pronuncia del giudice europeo, permette ai primi, e solo a questi, di esperire il rimedio introdotto dall’art. 35-ter.
Parimenti leso sarebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3, 6 e 13 della CEDU, perché l’assenza di rimedi contro la detenzione in condizioni disumane comprometterebbe l’equità del processo, da garantire anche in fase esecutiva, e l’effettività dei ricorsi interni, e non reprimerebbe le violazioni del divieto di tortura.
Il rimettente deduce inoltre la lesione dell’art. 25, primo comma, Cost., perché l’internato, non disponendo di rimedi giudiziali, sarebbe privato del giudice naturale costituito dal magistrato di sorveglianza.
Infine, insieme a tali parametri, sarebbe violato anche l’art. 24 Cost., sia perché l’internato non può agire in giudizio, sia perché, quand’anche potesse agire, l’art. 35-ter non gli attribuirebbe una tutela adeguata. Infatti non sarebbe possibile né ridurre la durata della misura di sicurezza in corso di esecuzione, come è previsto per la pena detentiva (posto che tale misura non avrebbe un termine massimo di durata e potrebbe essere prorogata senza limiti), né riconoscere un ristoro economico, perché questo sarebbe subordinato dalla norma impugnata alla circostanza che la pena ancora da scontare non sia così lunga da permettere di sottrarvi l’intero periodo che il detenuto ha diritto di non espiare a ristoro del danno patito. Ma anche in tale caso sarebbe di ostacolo la mancanza di un termine massimo di durata della misura di sicurezza.
L’art. 35-ter è perciò denunciato, sia nella parte in cui non ammette anche l’internato a esperire il rimedio in questione, sia nella parte in cui, ove il rimedio dovesse ritenersi concesso, non prevede «la riduzione della durata della misura di sicurezza detentiva e/o il ristoro pecuniario a titolo di rimedio risarcitorio».
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile, e, in via subordinata, non fondata.
Secondo l’Avvocatura generale la questione muoverebbe dall’erroneo presupposto interpretativo che l’art. 35-ter impugnato non si applichi all’internato, quando invece il contrario sarebbe comprovato, sia dalla rubrica della disposizione, sia dall’applicabilità del rimedio a favore degli internati già ricorrenti davanti alla Corte EDU, ricordata dallo stesso rimettente.
La disposizione censurata sarebbe perciò applicabile anche a favore di chi è sottoposto a una misura di sicurezza detentiva, tanto più che, in base all’art. 1, comma 1-quater, del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81, questa non può durare «oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima». Anche sotto il profilo delle forme di ristoro riconoscibili vi sarebbe una piena equiparazione rispetto al trattamento riservato al detenuto.
L’Avvocatura dello Stato aggiunge che la questione sarebbe inoltre non fondata perché l’internato, quand’anche non disponesse del rimedio introdotto dalla norma impugnata, potrebbe chiedere il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 del codice civile.
3.– Si è costituita la parte interessata chiedendo che la questione sia accolta.
La parte ritiene violato l’art. 3 Cost., perché la disparità di trattamento riservata agli internati contraddice la loro equiparazione ai detenuti riconosciuta dall’art. 1 della legge n. 354 del 1975. L’art. 24 Cost. sarebbe leso perché l’art. 35-ter strutturalmente non è idoneo ad assicurare all’internato una detrazione nella durata della misura di sicurezza, priva di un termine fisso, e neppure un ristoro economico, essendo quest’ultimo attribuibile solo unitamente alla riduzione di tale durata.
Quanto all’art. 25 Cost., la parte osserva che l’internato, nel corso della esecuzione della misura di sicurezza, è del tutto assimilabile al detenuto, e quindi che suo giudice naturale è il magistrato di sorveglianza, e non il giudice civile, previsto dal terzo comma della norma impugnata.
Sussisterebbe anche la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3, 6 e 13 della CEDU.
1.– Il Magistrato di sorveglianza di Padova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come introdotto dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92 (Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 117, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3, 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
La norma censurata è stata adottata per adeguare l’ordinamento alle prescrizioni della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri contro Italia, che ha sanzionato la Repubblica italiana per avere sottoposto i ricorrenti a una detenzione in condizioni disumane, con violazione dell’art. 3 della CEDU. L’Italia è stata inoltre sollecitata a introdurre una via di ricorso interno capace di far cessare tale genere di detenzione e a prevedere una forma di riparazione.
L’art. 35-ter ha perciò provveduto ad assicurare, per i casi di violazione dell’art. 3 della CEDU, un rimedio in forma specifica, consistente nella riduzione del periodo di restrizione della libertà personale di un giorno per ogni dieci di lesione del diritto, e, quando ciò non sia possibile, un risarcimento pari a otto euro per ogni giorno trascorso nelle condizioni predette.
La disposizione censurata, anche se nella rubrica si riferisce ai «soggetti detenuti o internati», riguarderebbe esclusivamente il “detenuto”, cioè colui che sta espiando una “pena detentiva”.
Nel giudizio a quo la domanda risarcitoria è stata invece proposta da un internato, ovvero da una persona soggetta alla misura di sicurezza detentiva dell’assegnazione a una casa di lavoro, in quanto socialmente pericolosa.
Il rimettente reputa che la lettera dell’art. 35-ter impugnato non gli consenta di riconoscere la legittimazione dell’internato a richiedere il rimedio risarcitorio ivi previsto, e sostiene che essa è di ostacolo a un’interpretazione costituzionalmente orientata.
La norma in questione è perciò anzitutto impugnata «nella parte in cui non prevede gli internati tra i soggetti legittimati a proporre la relativa istanza», in riferimento agli artt. 3, 24, 25, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 3, 6 e 13 della CEDU.
Il giudice a quo aggiunge che, quand’anche fosse riconosciuta tale legittimazione, la norma censurata non sarebbe idonea a garantire il soddisfacimento del diritto dell’internato, perché essa offre rimedi compatibili solo con la posizione del detenuto.
Il rimettente è infatti persuaso che le misure di sicurezza detentive, con l’eccezione di quelle “psichiatriche”, non siano soggette ad alcun termine di durata massima, in quanto ancorate alla sola persistenza della pericolosità sociale dell’internato. Mancherebbe perciò il minuendo al quale sottrarre il periodo di tempo che spetta a titolo di risarcimento, in proporzione ai giorni durante i quali si è stati ristretti in condizioni disumane.
Né vi sarebbe modo di conseguire un risarcimento monetario, perché l’art. 35-ter lo consentirebbe solo nelle ipotesi in cui viene disposta la riduzione della durata della detenzione residua fino al suo esaurimento e rimanga un periodo di tempo ulteriore da ristorare.
La norma censurata sarebbe perciò costituzionalmente illegittima anche «nella parte in cui non prevede, nel caso di accertata violazione dell’art. 3 CEDU per un periodo non inferiore a 15 giorni, la riduzione della durata della misura di sicurezza detentiva e/o il ristoro pecuniario a titolo di rimedio risarcitorio». L’ineffettività della tutela accordata comporterebbe infatti una violazione degli artt. 24 e 117, primo comma, Cost., oltre che degli artt. 3 e 25, primo comma, Cost.
Due sono perciò le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal rimettente, l’una consequenziale all’altra in ordine logico. A questa Corte il giudice a quo, al fine di accogliere la domanda, chiede di adeguare la norma impugnata alla duplice esigenza costituzionale di consentire anche all’internato un’azione per richiedere la riparazione per il trattamento disumano subìto e di configurare in favore dello stesso idonei strumenti riparatori.
2.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter censurato, nella parte in cui non consente all’internato di proporre la domanda, non è fondata.
L’Avvocatura dello Stato ne ha eccepito l’inammissibilità perché, a suo avviso, il rimettente avrebbe dovuto interpretare la disposizione in senso costituzionalmente orientato, riconoscendo la legittimazione dell’internato, senza considerare che il giudice non lo ha fatto perché ha dichiaratamente escluso che la formulazione della norma lasciasse un margine interpretativo in tal senso.
Questa Corte ha in più occasioni affermato che quando il rimettente si prospetta la via dell’interpretazione adeguatrice, ma esclude che essa sia percorribile, la questione che ne deriva non può ritenersi inammissibile a causa della erroneità di tale conclusione. In questo caso infatti il giudice a quo ha assolto al proprio dovere di motivazione sui requisiti di ammissibilità, e lo stabilire se l’interpretazione conforme è o non è praticabile attiene al merito della questione di legittimità costituzionale (sentenze n. 42 del 2017, n. 240, n. 95 e n. 45 del 2016, n. 262 del 2015), non alla sua ammissibilità.
L’odierna questione è pertanto ammissibile, ma rimane da verificare se davvero la disposizione censurata non si presti all’interpretazione conforme.
Nel caso oggetto del giudizio non vi è dubbio che, se la sola interpretazione possibile della disposizione impugnata imponesse di precludere all’internato l’azione prevista dall’art. 35-ter della legge n. 354 del 1975, sarebbero violati gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost.
Con riguardo al diritto di godere di un rimedio risarcitorio, la condizione della persona soggetta a una misura di sicurezza detentiva, che subisce una restrizione della libertà personale in condizioni disumane, è del tutto equivalente a quella del detenuto, perché identico è il bene giuridico leso e analoghe sono le modalità con cui la lesione viene inflitta. Queste ultime sono infatti indicate dallo stesso art. 35-ter nella violazione dell’art. 3 della CEDU, che può avvenire in particolare quando lo spazio di cui dispone l’individuo recluso è inferiore a tre metri quadrati (sentenza n. 279 del 2013).
Il principio di uguaglianza non può pertanto tollerare una discriminazione tra detenuto e internato che, fondandosi sulla differente natura giuridica dei titoli in base ai quali si è ristretti, pur rilevante ad altri fini, trascura invece la sostanziale identità, nell’uno e nell’altro caso, dei soli fattori che hanno importanza ai fini risarcitori.
Né una tale distinzione sarebbe compatibile con l’art. 3 della CEDU, atteso che nel sistema della Convenzione è necessario avere riguardo non al titolo formale in base al quale si è ristretti, ma alla sostanza della violazione, sicché forme di ristoro spettano non solo al detenuto che sconta la pena, ma anche a chi è colpito da una misura di custodia cautelare in carcere o in strutture equivalenti (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 20 ottobre 2016, Muršić contro Croazia, paragrafo 115).
In definitiva, l’esito combinato dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata dovrebbe condurre a includere gli internati tra le persone legittimate a valersi dell’azione prevista dall’art. 35-ter censurato, alla quale non può certamente sostituirsi, con analoghi effetti e tempestività, la domanda proponibile ai sensi dell’art. 2043 del codice civile (sentenza n. 204 del 2016).
Tuttavia ciò non significa che tale interpretazione sia anche possibile, poiché «[l]’obbligo di addivenire ad un’interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all’incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca […]. L’interpretazione secondo Costituzione è doverosa ed ha un’indubbia priorità su ogni altra […], ma appartiene pur sempre alla famiglia delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell’esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo. Ove, perciò, sulla base di tali tecniche, non sia possibile trarre dalla disposizione alcuna norma conforme alla Costituzione», il dubbio di costituzionalità non potrà essere risolto in via ermeneutica (sentenza n. 36 del 2016; in precedenza, sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008).
La convinzione del giudice rimettente che la lettera della disposizione censurata osti a una sua estensione agli internati, posto che essa avrebbe per destinatari i soli detenuti, omette di considerare che proprio tale lettera opera un rinvio all’art. 69, comma 6, lettera b), della legge n. 354 del 1975, al fine di ricondurre la violazione dell’art. 3 della CEDU nell’ambito della competenza del magistrato di sorveglianza a riparare ai pregiudizi subiti dai detenuti e (anche) dagli internati. In altri termini, per mezzo del rinvio a una disposizione la cui formulazione lessicale esplicitamente contempla l’internato, è lo stesso testo dell’art. 35-ter censurato a svilupparsi nella medesima direzione, arricchendo la sua dizione legislativa con una corrispondente, inequivoca, espressione linguistica. A questo punto, una volta rimosso l’ostacolo frapposto dalla lettera della legge, l’interpretazione inclusiva dell’internato tra le persone legittimate ad agire diviene tutt’altro che «improbabile o difficile» (sentenza n. 42 del 2017). Anzi, essa si rivela l’unica capace di soddisfare la Costituzione, e la più corretta anche sul piano logico-sistematico, atteso che salda la disciplina normativa a regime, per tale profilo, con quanto il legislatore aveva già previsto espressamente con riguardo a un periodo transitorio (art. 2, comma 2, del d.l. n. 92 del 2014), e rende armonico il contenuto della norma con la sua rubrica (sentenza n. 78 del 1969).
La prima questione di legittimità costituzionale proposta è perciò non fondata, perché l’erroneo presupposto interpretativo su cui è basata ha distolto il rimettente dal suo dovere di interpretare le norme in senso costituzionalmente conforme.
3.– Anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter censurato, nella parte in cui non offrirebbe all’internato un rimedio utile a fronte del danno patito, non è fondata, perché si regge su un duplice, erroneo, presupposto interpretativo.
Come si è anticipato, l’ineffettività del rimedio descritto dalla norma oggetto di censura discenderebbe, secondo il Magistrato di sorveglianza, da due ragioni concomitanti, che però si rivelano entrambe insussistenti.
Anzitutto il giudice a quo reputa inapplicabile il rimedio consistente nella riduzione del periodo di internamento perché le misure di sicurezza detentive diverse dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dall’assegnazione a una casa di cura e di custodia non sarebbero soggette a un termine massimo di durata, dal quale scomputare utilmente il periodo che spetta in sottrazione.
Il rimettente è a conoscenza del fatto che l’art. 1, comma 1-quater, del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81, ha disposto che «Le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva [massima] prevista per il reato commesso». Tuttavia per il rimettente questa disposizione, inserita in un decreto-legge emanato per il «superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari», riguarderebbe solo questi ospedali e le case di cura e di custodia, mentre per ogni altra misura di sicurezza detentiva continuerebbe ad applicarsi la regola pregressa, che ne lega la durata alla persistenza della pericolosità sociale dell’internato (artt. 207 e 208 del codice penale).
Tale interpretazione dell’art. 1, comma 1-quater, del d.l. n. 52 del 2014 è però erronea perché ne pone del tutto in ombra la chiara lettera, che si rivolge all’insieme indistinto delle misure di sicurezza detentive, al punto da specificare che tra queste è anche «compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione» di tali misure. Queste “residenze” costituiscono le strutture sanitarie dove, a partire dal 31 marzo 2015, trovano esecuzione le misure di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario e del ricovero in una casa di cura e di custodia (art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211, recante «Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 17 febbraio 2012, n. 9), ed è perciò del tutto ovvio che tale specificazione non avrebbe alcun significato se la norma disciplinasse esclusivamente la durata massima dell’internamento presso tali “residenze”, come sostiene il rimettente, e non avesse invece un contenuto più ampio.
Del resto l’art. 1, comma 1-quater, del d.l. n. 52 del 2014 è diretto a porre fine al fenomeno dei cosiddetti ergastoli bianchi (sentenza n. 22 del 2017), che si verificava nelle ipotesi in cui a una condanna a pena anche lieve seguiva, in caso di persistente pericolosità sociale, un internamento tendenzialmente senza fine. Si tratta di una situazione che, almeno astrattamente, si sarebbe potuta concretizzare anche con riguardo alle misure di sicurezza detentive diverse dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e in una casa di cura e di custodia, e alla quale il legislatore ha inteso in ogni caso porre fine.
A fronte di tali convergenti elementi, il solo argomento legato alla finalità del d.l. n. 52 del 2014, peraltro ulteriormente indebolito dalla circostanza che la norma in questione è stata introdotta con un emendamento in sede di conversione, è del tutto privo di consistenza.
Posto che ad oggi tutte le misure di sicurezza detentive, comprese quelle disposte prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 52 del 2014 (art. 200 cod. pen.), hanno una durata massima, sarebbe astrattamente possibile, nell’approssimarsi del termine di tale durata, operarne, a norma dell’art. 35-ter, comma 1, una riduzione a titolo di risarcimento del danno subìto per i giorni trascorsi dall’internato in condizioni disumane.
È però vero che mentre la durata della detenzione è predeterminata, e quindi è agevole fin dall’inizio ridurla in ragione dei giorni trascorsi dal detenuto in condizioni disumane, lo stesso non può dirsi per la misura di sicurezza, perché la sua durata non è predeterminata, ma dipende dal perdurare della pericolosità dell’internato.
Il limite massimo stabilito dall’art. 1, comma 1-quater, del d.l. n. 52 del 2014 infatti è meramente eventuale, dato che, per la cessazione della pericolosità, la misura di sicurezza generalmente viene revocata prima.
È chiaro che, quando non è prevedibile che la durata della misura si protrarrà fino al suo limite massimo, il risarcimento per il periodo trascorso in condizioni disumane non può avvenire per detrazione, mancando il relativo minuendo, e in questo caso quindi all’internato non può non spettare il risarcimento in forma monetaria.
È infatti errata anche la seconda idea posta dal rimettente a base del dubbio di costituzionalità, ovvero che tale risarcimento non sia permesso se non per completare una tutela già accordata, seppur parzialmente, per mezzo della detrazione della durata della misura da scontare. Questa Corte ha già avuto modo di smentire tale assunto con la sentenza n. 204 del 2016, posteriore all’ordinanza di rimessione.
In quel caso, che riguardava la posizione dell’ergastolano, si è rilevato che sarebbe «fuori da ogni logica di sistema, oltre che […] in contrasto con i principi costituzionali, immaginare che durante la detenzione il magistrato di sorveglianza debba negare alla persona condannata all’ergastolo il ristoro economico, dovuto per una pena espiata in condizioni disumane, per la sola ragione che non vi è alcuna riduzione di pena da operare. Non può sfuggire infatti all’interprete che quest’ultima evenienza non ha alcuna relazione con la compromissione della dignità umana indotta da un identico trattamento carcerario».
Va perciò ribadito che il risarcimento patrimoniale del danno ha carattere subordinato, rispetto al ristoro in forma specifica, ma autonomo, nel senso che il primo compete ogni qual volta il secondo, in tutto o in parte, non sia utilmente attribuibile. L’internato che non può godere di alcuna riduzione della durata della misura di sicurezza detentiva è perciò legittimato a domandare il risarcimento integrale del danno in forma patrimoniale.
Chiarito ciò, è evidente che i rimedi previsti dall’art. 35-ter a favore anche dell’internato hanno natura effettiva e che di conseguenza risulta non fondata la questione di legittimità costituzionale, data l’erroneità del duplice presupposto interpretativo postulato dal rimettente.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come introdotto dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92 (Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 117, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3, 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Magistrato di sorveglianza di Padova, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Carmelinda MORANO, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 aprile 2017.