SENTENZA N. 22
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3-ter, comma 8-quater, del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 17 febbraio 2012, n. 9 (recte: dell’art. 1, comma 1-quater, del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52, recante «Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81), promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli nel procedimento penale a carico di F.G., con ordinanza del 21 maggio 2015, iscritta al n. 187 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 novembre 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
1.– Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli, con ordinanza del 21 maggio 2015 (r.o. n. 187 del 2015), ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale «dell’art. 3 ter, co.8 quater, DL 211 del 2011, conv. con modif. in L.9 del 2012, modificato dal DL 52 del 2014, conv, con modif. in L.81 del 2014», nella parte in cui «stabilisce che le misure di sicurezza detentive, provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione massima (…)».
Il giudice rimettente riferisce di dover sciogliere una «riserva di decidere» relativa a una persona indagata per i reati di cui agli artt. 337, 582, 61, numero 2), e 635, secondo comma, del codice penale, nei cui confronti il procedimento era stato sospeso a norma dell’art. 71 del codice di procedura penale. Questa persona era stata sottoposta alla misura di sicurezza provvisoria del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario con provvedimento del 28 maggio 2005, sempre confermato nel corso degli anni, ed era ancora internata, pur essendo decorso il termine massimo fissato dall’«art. 3 ter DL 211 del 2011, conv. con modif. in L.9 del 2012, modificato dal DL 52 del 2014, conv, con modif. in L.81 del 2014, che al co.8 quater stabilisce che le misure di sicurezza detentive, provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione massima (…)».
Secondo il giudice rimettente lo stato di persona socialmente pericolosa dell’internato sarebbe «del tutto preoccupante», in quanto dalla relazione semestrale del Dipartimento di salute mentale dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, del 4 ottobre 2014, risultava che il medesimo era affetto da «psicosi cronica con sintomatologia delirante di grandezza, fenomeni allucinatori, disorganizzazione del pensiero, assenza dei poteri di critica e di giudizio, eteroaggressività e condotte compulsive alla base dell’iperfagia alimentare e dell’episodica ingestione di sostanze non commestibili (pica), ipertensione arteriosa, broncopatia asmatica, tabagismo cronico, obesità grave (all’ingresso oltre kg. 200), disturbi strutturali della coscienza (disorientamento, distraibilità, disturbi mnesici, incoerenza ideativa), mancata autonomia alla cura di sé e dei propri spazi».
La successiva relazione psichiatrica del Dipartimento di salute mentale del 25 marzo 2015 aveva confermato la situazione di gravità psicopatologica dell’internato, precisando che sarebbe stata possibile la sua allocazione «in prosieguo» presso una struttura residenziale alternativa, purché avente caratteristiche di «alta intensità assistenziale e [di] congrua disponibilità di personale specializzato». Secondo la stessa relazione non vi erano, però, strutture sul territorio disponibili all’accoglienza dell’internato, né la sua famiglia aveva l’intenzione di accoglierlo in casa.
Ciò posto, la norma impugnata sarebbe irragionevole, in quanto il suo fondamento riposerebbe su interpretazioni delle vicende sociali che «vengono in fatto a rivelarsi fallaci in quanto divergenti dagli accadimenti della quotidianità». Questa norma infatti ancorerebbe la cessazione della misura di sicurezza detentiva alla pena edittale del reato per cui è stata applicata, anziché alla cessazione della pericolosità sociale, come disposto dall’art. 206, secondo comma, cod. pen. «(implicitamente abrogato “in parte qua” dalla predetta legge successiva)». Così verrebbe applicato alle misure di sicurezza un principio proprio delle «misure di custodia cautelare», secondo il quale la misura cautelare applicata «va sostituita quando non appare più proporzionata alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata (art. 299, co.2 CPP)», ovvero «la custodia cautelare perde efficacia quando è pronunciata sentenza di condanna, ancorché sottoposta ad impugnazione, se la durata della custodia già subita non è inferiore alla pena irrogata (art. 300 co.4 CPP), e quindi, a maggior ragione, quando la custodia cautelare sia superiore alla pena edittale massima prevista per quel reato».
Le misure cautelari avrebbero, però, una funzione diversa da quella delle misure di sicurezza. Le prime tenderebbero a scongiurare l’inquinamento probatorio, il pericolo di fuga o la reiterazione dei reati; le seconde sarebbero volte a curare il malato di mente, in quanto la malattia ne determinerebbe la pericolosità sociale.
L’avere equiparato le due situazioni significherebbe prevedere un uguale trattamento per situazioni diverse. La norma impugnata sarebbe irragionevole pure perchè non consentirebbe in alcun modo l’applicazione di altre misure, «anche detentive, se del caso, come quello in esame, [idonee] ad assicurare alla persona inferma di mente cure adeguate ed a contenere la pericolosità sociale, misure di sicurezza previste […] dal co.4 da eseguirsi nelle strutture sanitarie previste dal co.2 fino alla cessazione della pericolosità».
La questione inoltre sarebbe rilevante, dato che il procedimento in oggetto non potrebbe essere definito indipendentemente dalla sua risoluzione; il giudice infatti dovrebbe scegliere tra l’inosservanza della legge impugnata, «sia pure per stato di necessità, e non più procrastinabile per la chiusura degli OPG», e la messa in libertà di una persona socialmente pericolosa. Sulla rilevanza non potrebbe incidere la sentenza n. 45 del 2015, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 159, primo comma, cod. pen., rendendo possibile l’estinzione del reato per prescrizione nel caso, come quello in esame, di sospensione del procedimento per incapacità dell’imputato quando è accertato che la situazione è irreversibile.
Il giudice rimettente precisa che l’internato in via provvisoria era affetto da uno stato mentale patologico irreversibile, anteriore al 2000, per cui sarebbe maturata nei suoi confronti la prescrizione del reato, ma a norma dell’art. 205 cod. pen. «andrebbe comunque applicata la misura di sicurezza».
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza.
L’Avvocatura sostiene che il giudice rimettente è incorso in una palese aberratio ictus, avendo sottoposto a scrutinio della Corte una disposizione legislativa non pertinente rispetto all’oggetto delle censure e non conferente rispetto al thema decidendum.
Il giudice a quo avrebbe infatti erroneamente individuato nel «comma 8-quater dell’art. 3 ter del decreto legge n. 211 del 2011, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge n. 9 del 2012 (come modificato dal decreto-legge n. 52 del 2014, convertito in legge con modificazioni, dalla legge n. 81/2014)» la disposizione oggetto di censura, anziché nell’art. 1, comma 1-quater, del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81, il quale ha effettivamente previsto che la durata delle misure di sicurezza detentive non può eccedere il massimo edittale della pena comminata per il reato commesso.
Stante l’estraneità della disposizione denunciata rispetto al thema decidendum demandato all’esame della Corte, l’eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale non avrebbe alcuna incidenza sul giudizio a quo, e di conseguenza la questione sarebbe inammissibile.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 21 maggio 2015 (r.o. n. 187 del 2015), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale «dell’art. 3 ter, co.8 quater, DL 211 del 2011, conv. con modif. in L.9 del 2012, modificato dal DL 52 del 2014, conv, con modif. in L.81 del 2014», nella parte in cui «stabilisce che le misure di sicurezza detentive, provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione massima (…)».
Secondo il giudice a quo la disposizione impugnata, imponendo la cessazione della misura di sicurezza detentiva nonostante la persistente pericolosità sociale, anche elevata, dell’internato, sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto applicherebbe alle misure di sicurezza detentive, provvisorie o definitive, un principio proprio delle «misure di custodia cautelare», così da equiparare situazioni diverse e misure caratterizzate da una diversa funzione. La disposizione sarebbe inoltre irragionevole perché non consentirebbe di disporre «altre misure idonee, anche detentive», atte ad assicurare alla persona inferma di mente cure adeguate e a contenerne la pericolosità sociale.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della questione, perché il giudice rimettente sarebbe incorso in una palese aberratio ictus, avendo sottoposto a scrutinio della Corte una disposizione legislativa non pertinente rispetto all’oggetto delle censure.
3.– L’eccezione è priva di fondamento.
Il giudice a quo, nell’impugnare «l’art. 3 ter, co.8 quater, DL 211 del 2011, conv. con modif. in L.9 del 2012, modificato dal DL 52 del 2014, conv, con modif. in L.81 del 2014», ha fatto riferimento a un comma del citato art. 3-ter che non esiste, ma ha indicato esattamente il contenuto testuale della disposizione che intendeva sottoporre all’esame della Corte, riportandone con precisione le parole. Si tratta dell’art. 1, comma 1-quater, del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81, che è così formulato: «Le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima […]».
È chiaro dunque che il giudice ha commesso un errore materiale nell’indicare gli estremi legislativi della norma censurata, ma ciò non preclude l’ammissibilità della questione, dato che l’ordinanza, riportandone il testo esatto, consente l’individuazione della disposizione censurata (sentenza n. 307 del 2009).
4.– La norma impugnata è diretta a evitare i cosiddetti ergastoli bianchi, cui può dar luogo la permanenza a tempo indeterminato in strutture detentive per l’esecuzione delle misure di sicurezza, e pone così fine a situazioni in cui per l’infermità mentale, anche nel caso di commissione di reati di modesta gravità, persone senza supporti familiari o sociali rimanevano perennemente private della loro libertà in un contesto di natura penale. È vero però che la situazione sottoposta dal giudice rimettente all’attenzione della Corte desta effettivamente preoccupazione, per la mancanza sul territorio di strutture idonee a soddisfare le esigenze di cura e di controllo delle persone socialmente pericolose rimesse in libertà.
Ciò premesso la questione, anche se per una ragione diversa da quella indicata dall’Avvocatura generale dello Stato, risulta inammissibile.
Il giudice rimettente ricorda che questa Corte, con la sentenza n. 45 del 2015, ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 159, primo comma, del codice penale, nella parte in cui, ove lo stato mentale dell’imputato sia tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento e questo venga sospeso, non esclude la sospensione della prescrizione quando è accertato che tale stato è irreversibile». Per effetto di questa sentenza «nel caso in esame è ormai maturata la prescrizione», e secondo il giudice rimettente l’avvenuta estinzione del reato andrebbe «dichiarata ai sensi dell’art. 129 cpp e degli artt. 70 co.1 e 71 co.1 cpp», e inoltre «andrebbe comunque applicata la misura di sicurezza a norma dell’art. 205 co.1 CP».
Queste parole significano che per il giudice rimettente, se non fosse di ostacolo la norma impugnata (che impone la cessazione della misura di sicurezza detentiva quando è superata la durata della «pena detentiva prevista per il reato commesso»), dovrebbe pronunciarsi una sentenza di non doversi procedere, per l’estinzione del reato, alla quale, per far fronte alla perdurante pericolosità sociale dell’indagato, dovrebbe fare seguito l’applicazione, in via definitiva, della misura di sicurezza detentiva.
Questa conclusione però è priva di fondamento.
Innanzi tutto va rilevato che, a quanto si desume dall’ordinanza di rimessione, il procedimento si trova ancora nella fase delle indagini preliminari e il giudice rimettente non spiega per quale ragione ritiene che queste debbano concludersi con una sentenza di proscioglimento, ai sensi dell’art. 129 del codice di procedura penale (norma generalmente considerata inapplicabile nella fase delle indagini), anziché con un provvedimento di archiviazione, ai sensi dell’art. 411 cod. proc. pen.; inoltre il giudice non considera che le misure di sicurezza definitive non possono essere applicate nella fase delle indagini preliminari e neppure, eccettuata la confisca, all’esito dell’udienza preliminare (art. 425, comma 4, cod. proc. pen.).
In ogni caso è decisiva l’osservazione che le misure di sicurezza non sono applicabili con una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato.
L’art. 205, primo comma, del codice penale, al quale fa riferimento il giudice rimettente, nel declinare la regola generale che le misure di sicurezza «sono ordinate dal giudice nella stessa sentenza di condanna o di proscioglimento», non può riguardare il caso in questione.
Come è stato chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, «Nessuna delle misure di sicurezza tra quelle indicate tassativamente dagli artt. 215 e 236 cod. pen., in relazione all’art. 199 stesso codice, può essere applicata [alla persona che sia stata prosciolta] per una causa diversa da quelle previste espressamente dagli artt. 49 (reato impossibile), 115 (istigazione ed accordo a commettere un delitto), 222 (reato commesso da persona non imputabile per infermità mentale e situazioni a queste equiparate), 224 (reato commesso da minore degli anni quattordici) cod. pen., in quanto presupposto indefettibile delle misure di sicurezza – compresa quella della libertà vigilata che ha carattere generale – prev[iste] dal codice penale è l’esistenza di una sentenza di condanna (salvo il disposto dell’art. 205 comma secondo in relazione all’art. 109 cod. pen.)» (Corte di cassazione, prima sezione penale, 15 marzo 1990, n. 686, rv. 184328).
L’applicazione delle misure di sicurezza presuppone di regola l’accertamento della commissione del reato per il quale si sta procedendo, accertamento che non avviene nel caso di estinzione del reato per prescrizione. Perciò l’art. 205 cod. pen., nel richiamare la sentenza di proscioglimento, non può riferirsi a quella di estinzione del reato, che infatti è regolata dall’art. 210 cod. pen., con la previsione che tale causa di proscioglimento «impedisce l’applicazione delle misure di sicurezza».
In coerenza con questa regola l’art. 312 cod. proc. pen. stabilisce che può essere applicata la misura di sicurezza provvisoria quando non ricorrono le condizioni previste dall’art. 273, comma 2, cod. proc. pen., il quale, tra l’altro, esclude l’applicazione delle misure cautelari «se sussiste una causa di estinzione del reato».
Perciò, una volta sopravvenuta l’estinzione del reato per prescrizione, le misure di sicurezza, provvisorie o definitive, risultavano inapplicabili, indipendentemente da quanto previsto dalla norma impugnata in merito alla loro durata.
Deve quindi concludersi che la questione proposta, riguardando una norma della quale il giudice rimettente non deve fare applicazione, è inammissibile per difetto di rilevanza (sentenza n. 192 del 2015; ordinanza n. 264 del 2015).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1-quater, del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 novembre 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 gennaio 2017.