SENTENZA N. 204
ANNO 2016
Commento alla decisione di
(G.L. Gatta)
per g.c. di Diritto Penale Costituzionale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), inserito dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92 (Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 117, promosso dal Magistrato di sorveglianza di Padova, con ordinanza del 20 aprile 2015 sul reclamo proposto da C.G., iscritta al n. 176 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visto l’atto di costituzione di C.G., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 14 giugno 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi l’avvocato Giovanni Gentilini e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Il Magistrato di sorveglianza di Padova, con ordinanza del 20 aprile 2015 (r.o. n. 176 del 2015), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui «non prevede, nel caso di condannati alla pena dell’ergastolo che abbiano già scontato una frazione di pena che renda ammissibile la liberazione condizionale, il ristoro economico previsto dal comma 2 dell’art. 35-ter o.p. e, in ogni caso, nella parte in cui non prevede un effettivo rimedio compensativo nei confronti del condannato alla pena dell’ergastolo».
Il giudice a quo premette di essere investito del reclamo ai sensi dell’art. 35-ter della legge n. 354 del 1975, «per la violazione» dell’art. 3 della CEDU, da parte di un detenuto che asseriva «di aver subito, dalla data della sua detenzione in vari istituti italiani, una restrizione dello spazio disponibile nella cella al di sotto dei 3 mq, essendo stato costretto a condividere la cella con altri detenuti». Il detenuto, in ragione della violazione complessiva dei diritti subita durante la detenzione e a titolo di risarcimento del danno, aveva chiesto «una riduzione della pena di un giorno per ogni 10 di pregiudizio sofferto in relazione al periodo detentivo». La pena in espiazione riguardava vari periodi di detenzione «a partire dalla data dell’arresto» (1° giugno 1986) relativo a un omicidio, per il quale il reclamante era stato condannato alla pena dell’ergastolo con sentenza del 1° dicembre 1988 della Corte d’appello di Catania.
Il giudice rimettente ha accertato che il detenuto aveva subito un trattamento disumano e degradante, alla stregua dei criteri indicati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti «Corte EDU»), per il periodo complessivo di 404 giorni, con conseguente diritto a «una ipotetica riduzione di pena» pari a 40 giorni, in applicazione del criterio proporzionale di cui al citato art. 35-ter, comma 1. Ciò posto, il giudice ha dichiarato di aderire all’orientamento, giurisprudenziale e dottrinale, secondo cui davanti al magistrato di sorveglianza può agire chiunque sia ancora detenuto, indipendentemente dall’attualità delle condizioni «“inumane”» di carcerazione, dato che il testo normativo «in più punti», si riferisce a «coloro che hanno subìto il pregiudizio», e non invece a coloro che «attualmente» lo subiscono.
Questa interpretazione sarebbe coerente con la ratio legislativa, che tende a individuare nella riduzione di pena il rimedio naturale, ravvisando nell’indennità pecuniaria lo strumento riparativo residuale, da accordare solo se, per fattori oggettivi, non sia più possibile la detrazione della pena detentiva.
Nel caso in questione però il Magistrato di sorveglianza si troverebbe nell’impossibilità di accordare, sia una riduzione di pena, trattandosi di pena perpetua, sia un ristoro economico, dato che questo sarebbe previsto solo in via aggiuntiva, per la parte di riduzione della pena detentiva che risulta inapplicabile, mentre nel caso in esame non potrebbe operare alcuna riduzione. Questa infatti non potrebbe riferirsi alle persone condannate all’ergastolo, che, essendo una pena perpetua, per sua natura non ammette riduzioni.
Sarebbe teoricamente possibile diminuire proporzionalmente i limiti di pena previsti dalla legge per l’accesso dei condannati all’ergastolo ai benefici penitenziari, ma una simile operazione richiederebbe un’espressa previsione normativa, che nella specie manca. Occorrerebbe infatti una disposizione come quella dell’art. 54, quarto comma, della legge n. 354 del 1975, che consente di considerare come pena scontata i giorni maturati a titolo di liberazione anticipata, da detrarre «[a]gli effetti del computo della misura di pena che occorre avere espiato per essere ammessi ai benefici dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione condizionale».
Comunque, nel caso in esame, il richiedente, condannato all’ergastolo, avrebbe già raggiunto da tempo il periodo minimo di pena espiata richiesto per l’accesso al beneficio più ampio (liberazione condizionale), pertanto, anche se si applicasse in via analogica l’art. 54, quarto comma, della legge n. 354 del 1975, la riduzione di pena non apporterebbe alcun concreto vantaggio.
Perciò «il rimedio risarcitorio di natura “detrattiva”» si rivelerebbe inefficace.
Resterebbe da esplorare la possibilità di esperire il rimedio pecuniario, previsto dai commi 2 e 3 dell’art. 35-ter della legge n. 354 del 1975.
Secondo il giudice a quo, la possibilità del ristoro economico sarebbe prevista solo «quando il periodo di pena ancora da espiare è tale da non consentire la detrazione dell’intera misura percentuale di cui al comma 1». L’uso dell’avverbio «altresì» e l’espressione «residuo periodo» eliminerebbero ogni dubbio sul ruolo solo complementare della liquidazione di somme di denaro da parte del magistrato di sorveglianza.
A questo non sarebbe consentito liquidare tale somma «“per l’intero”»; egli potrebbe liquidarla solo per la parte «“residua”», rispetto alla riduzione di pena spettante e parzialmente inoperante. Insomma non sarebbe possibile estendere un potere, «già eccezionale e straordinario» nell’ambito del procedimento di sorveglianza ex artt. 666 e 678 del codice di procedura penale, e applicarlo in via analogica a ipotesi non previste.
Conseguentemente l’impossibilità di accordare un ristoro effettivo per il pregiudizio subìto dal richiedente, sia attraverso l’applicazione analogica dell’art. 54, quarto comma, della legge n. 354 del 1975, sia attraverso il rimedio risarcitorio pecuniario previsto dall’art. 35-ter, comma 2, e l’impossibilità di avvalersi dell’azione civile disciplinata dal comma 3 dello stesso articolo, essendo il richiedente ancora detenuto, renderebbero la questione sollevata non manifestamente infondata.
Sarebbe violato l’art. 3 Cost., in quanto la norma escluderebbe gli «ergastolani» dal trattamento risarcitorio senza alcuna ragionevole giustificazione. Si determinerebbe infatti una palese differenza di tutela dei diritti «fra detenuti temporanei e perpetui», posto che solamente i primi potrebbero beneficiare della riduzione della pena, e, in forma solo parziale, del ristoro patrimoniale, mentre i secondi potrebbero far valere le loro pretese unicamente attraverso un’azione da proporre davanti al giudice civile, ma solo nell’ipotesi, del tutto eventuale, di rimessione in libertà.
La norma censurata violerebbe inoltre l’art. 24 Cost., perché renderebbe lo strumento giudiziale di tutela, per le persone condannate all’ergastolo, privo di effettività, nonostante la prescrizione, da parte della sentenza della Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia, di creare un ricorso o una combinazione di ricorsi aventi effetti preventivi e compensativi.
Sarebbe, conseguentemente violato anche l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 della CEDU, in quanto l’art. 35-ter, escludendo qualsiasi meccanismo ristorativo per il condannato all’ergastolo, eluderebbe il giudicato della sentenza della Corte EDU, Torreggiani contro Italia, che «nell’invitare» all’introduzione nell’ordinamento di nuovi rimedi con effetti preventivi e compensativi «è rivolta […] all’intera popolazione detenuta, senza distinzione fra ergastolani e reclusi comuni».
Sarebbe violato infine l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la protezione della sfera giuridica del detenuto costituirebbe elemento imprescindibile per consentire alla pena di tendere alla rieducazione del condannato.
Di qui la questione di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter della legge n. 354 del 1975, nei termini sopramenzionati.
Il petitum del giudice a quo mira a «due addizioni normative all’art. 35-ter» della legge n. 354 del 1975, entrambe riferibili alla «condizione del condannato alla pena dell’ergastolo: 1) una riduzione di pena a titolo risarcitorio agli effetti del computo della misura di pena scontata per accedere ai benefici penitenziari dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione condizionale; 2) l’estensione del ristoro economico, previsto al comma 2 della disposizione impugnata, al caso dell’ergastolano che abbia già scontato una frazione di pena che renda ammissibile la concessione della liberazione condizionale».
Il giudice a quo si dichiara, peraltro, perfettamente consapevole del difetto di rilevanza dell’“addizione” sub 1), che a suo avviso potrebbe, però, essere oggetto di una dichiarazione di illegittimità consequenziale ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in caso di accoglimento della questione.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata «in parte qua» inammissibile e «nel resto» non fondata.
L’Avvocatura generale sostiene che la questione deve essere dichiarata inammissibile, per difetto di rilevanza, limitatamente alla censura relativa al comma 1 dell’art. 35-ter della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede per i condannati all’ergastolo il computo della riduzione “risarcitoria” per determinare la misura di pena scontata, occorrente per avere accesso ai benefici penitenziari dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione condizionale.
Nel caso di specie, il reclamante, avendo già espiato 26 anni di pena detentiva, potrebbe essere ammesso alla liberazione condizionale, ex art. 176, terzo comma, del codice penale, che costituisce il massimo beneficio penitenziario concedibile ad un condannato all’ergastolo. Perciò un’eventuale sentenza additiva di accoglimento della questione di legittimità costituzionale che estendesse espressamente agli «ergastolani» una compensazione per il pregiudizio subìto, nei termini «detrattivi» previsti dal comma 1 dell’art. 35-ter, non avrebbe alcuna influenza sul giudizio principale e priverebbe la questione del requisito della rilevanza.
La questione dovrebbe invece essere rigettata nella parte in cui viene censurato il comma 2 dell’art. 35-ter della legge n. 354 del 1975. La mera circostanza che il detenuto condannato all’ergastolo possa solo azionare la propria pretesa risarcitoria secondo le ordinarie norme civilistiche, e che non gli sia riconosciuto anche il diritto al ristoro economico ex art. 35-ter, comma 2, della legge n. 354 del 1975, non potrebbe determinare l’illegittimità costituzionale della norma in questione.
3.– Si è costituito in giudizio C.G., che ha proposto il reclamo nel procedimento a quo, e ha chiesto che la questione sia dichiarata fondata.
La parte privata ha osservato che le lacune della norma impugnata non sono superabili in via interpretativa e che l’art. 35-ter della legge n. 354 del 1975 ha escluso ogni previsione riparativa in favore di categorie di soggetti che, seppure «non fuoriusciti dal circuito penitenziario e dunque non assoggettabili al giudice civile», non troverebbero «alcuna disciplina in seno alla Giurisdizione (naturale) della Sorveglianza».
Il condannato all’ergastolo avrebbe già espiato la frazione temporale di pena che gli consentirebbe di chiedere ed ottenere l’accesso ai «benefici tipici delle pene limitate». Pertanto, un’eventuale pronuncia additiva della Corte nel senso di estendere ai condannati all’ergastolo il complessivo meccanismo compensativo di cui al citato art. 35-ter «(prima detrattivo e, [poi], solo in subordine monetario)», non avrebbe una capacità concretamente satisfattiva delle legittime pretese risarcitorie della parte ricorrente.
Soluzione necessitata sarebbe quella, evocata nell’ordinanza di rimessione, volta ad «abilitare il Magistrato di sorveglianza a dotare l’odierno ricorrente […] dell’unico rimedio […] che consenta un ristoro apprezzabile, vale a dire quello interamente monetario».
4.– In prossimità dell’udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria, chiedendo, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte nell’atto di costituzione, che la questione sia dichiarata in parte inammissibile e per il resto non fondata.
In particolare l’Avvocatura dello Stato, con riguardo alla questione concernente l’art. 35-ter della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede per i condannati all’ergastolo il ristoro economico previsto al comma 2 (in tutti i casi in cui l’interessato abbia già scontato la parte di pena richiesta per la concessione della liberazione condizionale), sottolinea che la normativa in questione non ha introdotto nell’ordinamento un nuovo illecito civile, ma una nuova disciplina per il risarcimento di tale specifico danno, la quale, in quanto lex specialis, verrebbe a sostituirsi a quella ordinaria civilistica. In tutti i casi in cui non ricorrono le condizioni di cui al citato art. 35-ter, troverebbe applicazione la disciplina civilistica del risarcimento del danno. Pertanto, le persone condannate all’ergastolo potrebbero agire in giudizio secondo le regole generali, che consentirebbero loro di ottenere un risarcimento di importo ben più significativo di quello fissato nella norma speciale.
5.– Anche la difesa del ricorrente nel giudizio a quo ha depositato una memoria, insistendo nella richiesta di accoglimento della questione relativa al ristoro economico.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 20 aprile 2015 (r.o. n. 176 del 2015), il Magistrato di sorveglianza di Padova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui «non prevede, nel caso di condannati alla pena dell’ergastolo che abbiano già scontato una frazione di pena che renda ammissibile la liberazione condizionale, il ristoro economico previsto dal comma 2 dell’art. 35-ter o.p. e, in ogni caso, nella parte in cui non prevede un effettivo rimedio compensativo nei confronti del condannato alla pena dell’ergastolo».
Il giudice a quo deve decidere sulla domanda di riparazione proposta da una persona condannata all’ergastolo, che ha dimostrato di avere trascorso parte della detenzione in condizioni disumane e ha azionato per tale ragione il rimedio introdotto dalla disposizione censurata.
Questa disposizione, come è noto, costituisce la risposta del legislatore alla sollecitazione proveniente dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti «Corte EDU»), 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia, e, successivamente, dalla sentenza di questa Corte n. 279 del 2013, affinché fosse garantita una riparazione effettiva delle violazioni della CEDU derivate dal sovraffollamento carcerario in Italia.
La disposizione impugnata, a tal fine, al detenuto che ha subìto condizioni carcerarie disumane, assicura una riduzione della pena detentiva ancora da espiare (comma 1), e, quando ciò non è possibile, un ristoro pecuniario (commi 2 e 3).
Nel giudizio principale il ricorrente non ha modo di avvalersi dello sconto di pena detentiva, sia perché il rimedio non può operare nei confronti di una pena perpetua, sia perché egli ha già maturato il periodo di detenzione utile per godere degli istituti di favore dell’ordinamento penitenziario applicabili anche alle persone condannate all’ergastolo.
Il giudice rimettente reputa però inapplicabile anche il rimedio risarcitorio economico, nella convinzione che l’art. 35-ter, comma 2, lo riservi solo ai casi in cui, detratta una misura di pena detentiva ai sensi del comma 1, residuerebbe un danno ulteriore non riparabile in forma specifica, a causa dell’esaurimento del periodo da trascorrere in detenzione.
Ad avviso di tale giudice la norma impugnata, così interpretata, violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto escluderebbe le persone condannate all’ergastolo dal trattamento risarcitorio, senza alcuna ragionevole giustificazione, determinando una «palese differenza di tutela dei diritti fra detenuti temporanei e perpetui posto che soltanto i primi possono beneficiare dell’ambìta riduzione della sanzione penale e, in forma solo parziale, del ristoro patrimoniale».
La norma censurata sarebbe inoltre in contrasto con l’art. 24 Cost., rendendo lo strumento giudiziale di tutela privo per gli «ergastolani» di effettività, nonostante la prescrizione della Corte EDU allo Stato italiano di prevedere un ricorso, o una combinazione di ricorsi, aventi effetti preventivi e compensativi per i casi sopra indicati.
Sarebbe conseguentemente violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 della CEDU, in quanto l’art. 35-ter della legge n. 354 del 1975, escludendo per il condannato all’ergastolo qualsiasi meccanismo riparatorio, eluderebbe il giudicato della sentenza Torreggiani, che «nell’invitare» alla creazione di nuovi rimedi con effetti preventivi e compensativi «è rivolta […] all’intera popolazione detenuta, senza distinzione fra ergastolani e reclusi comuni».
La norma impugnata sarebbe infine in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto comprimerebbe in modo irragionevole il percorso rieducativo dei condannati all’ergastolo, impedendo nei loro confronti la progressiva umanizzazione della pena.
Il giudice rimettente, pur consapevole che nel giudizio principale non potrebbe comunque trovare applicazione la riduzione di pena, di cui il detenuto non necessita più, sollecita questa Corte a considerare l’eventualità di una dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale dell’art. 35-ter, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui impedisce di operare detrazioni di pena a favore dell’ergastolano ai soli fini dell’accesso alla liberazione condizionale.
Resta chiaro che il dubbio di legittimità costituzionale investe solo il comma 2 della disposizione impugnata, con riferimento al ristoro economico.
2.– La questione è ammissibile.
Il rimettente dà conto delle ragioni di applicabilità della norma impugnata anche a favore dei detenuti per i quali sia cessato attualmente il trattamento disumano nell’esecuzione della pena, peraltro anticipando sul punto le conclusioni della più recente giurisprudenza di legittimità. Ciò è sufficiente ai fini del controllo sulla rilevanza della questione, pur a fronte di altro orientamento giurisprudenziale di segno contrario.
Né si può contestare al rimettente di non avere esperito un tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme della norma impugnata, dato che tale interpretazione a parere del giudice a quo è impedita dalla formulazione letterale della disposizione (sentenza n. 95 del 2016).
Altro è, invece, decidere se tale premessa sia o no corretta.
3.– La questione non è fondata, perché si basa su un erroneo presupposto interpretativo.
Il giudice a quo muove dall’idea che, nel testo della disposizione impugnata, «[l]’uso dell’avverbio “altresì” e l’espressione “residuo periodo” dissolv[a]no ogni dubbio sul ruolo solo “complementare” delle somme di denaro liquidabili dal magistrato di sorveglianza», sicché il rimedio pecuniario non sarebbe «approdo consentito al magistrato di sorveglianza “per l’intero” ma solo per la parte “residua” non coperta da una pena che, per limiti oggettivi, si riveli “incapiente”».
Tuttavia, l’ultimo periodo dell’art. 35-ter, comma 2, della legge n. 354 del 1975 stabilisce che il risarcimento del danno in forma pecuniaria spetta anche nel caso in cui non è ammessa la riduzione di pena, perché il periodo di detenzione trascorso in condizioni disumane è stato inferiore a quindici giorni, e perciò prevede espressamente la competenza del magistrato di sorveglianza ad adottare il provvedimento economico, pure in mancanza di qualsiasi collegamento con un’effettiva riduzione del periodo detentivo.
È perciò direttamente nella lettera della disposizione impugnata che l’interprete rinviene il criterio logico per risolvere il caso sottoposto all’attenzione del giudice rimettente.
Il legislatore, introducendo il ristoro economico, si è preoccupato di coordinarlo con il rimedio della riduzione di pena, specificando, per mezzo delle espressioni letterali ricordate dallo stesso rimettente, quando e come al secondo subentra il primo. È a questo scopo che il comma 2 dell’art. 35-ter reca indicazioni linguistiche di mero appoggio al comma 1.
Con tali indicazioni la disposizione ha anche la funzione di stabilire la priorità del rimedio costituito dalla riduzione di pena. Priorità che non può significare però preclusione nel caso in cui non ci sia alcuna detrazione da operare.
Al di fuori dell’ipotesi del coordinamento tra i rimedi del primo e quelli del secondo comma dell’art. 35-ter impugnato resta la piena autonomia del ristoro economico, appunto confermata dall’ultimo periodo del secondo comma sopra ricordato.
Una volta ritenuto insussistente l’ostacolo erroneamente individuato dal rimettente nella lettera della legge, l’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della norma impugnata torna possibile, e nel caso di specie coincide con gli esiti cui conduce l’interpretazione logico-sistematica.
Sarebbe infatti fuori da ogni logica di sistema, oltre che, come ha prospettato il giudice rimettente, in contrasto con i principi costituzionali, immaginare che durante la detenzione il magistrato di sorveglianza debba negare alla persona condannata all’ergastolo il ristoro economico, dovuto per una pena espiata in condizioni disumane, per la sola ragione che non vi è alcuna riduzione di pena da operare. Non può sfuggire infatti all’interprete che quest’ultima evenienza non ha alcuna relazione con la compromissione della dignità umana indotta da un identico trattamento carcerario.
Né si può sostenere che la persona condannata all’ergastolo potrebbe comunque rivolgersi al giudice civile, ai sensi del comma 3 della disposizione impugnata, posto che vi sono ipotesi in cui l’ergastolo va scontato interamente in carcere, ovvero casi nei quali di fatto l’azione civile sarebbe negata.
I commi 2 e 3 dell’art. 35-ter impugnato distinguono la competenza a provvedere sulla richiesta di ristoro economico a seconda che l’interessato sia o no detenuto: nel primo caso è competente il magistrato di sorveglianza, nel secondo il tribunale civile. Diversamente da quanto ha affermato il giudice rimettente, infatti, non può considerarsi «eccezionale e straordinario» il potere del magistrato di sorveglianza di liquidare, «a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro» al detenuto che ha subìto un trattamento disumano, e non c’è alcuna ragione per negarlo nei casi in cui non vi è prima una riduzione di pena da operare.
Giova infine ricordare che la sentenza della Corte EDU, nel caso Torreggiani, ha chiesto all’Italia di introdurre procedure attivabili dai detenuti per porre fine e rimedio a condizioni di detenzione o a trattamenti carcerari in contrasto con l’art. 3 della CEDU, le quali, a differenza di quelle al momento in vigore, avrebbero dovuto essere accessibili ed effettive; procedure, in altri termini, idonee a produrre rapidamente la cessazione della violazione e, anche nel caso in cui la situazione lesiva fosse già cessata, ad assicurare con rapidità e concretezza forme di riparazione adeguate. E questa richiesta deve costituire un indefettibile criterio ermeneutico ai fini della corretta applicazione della disciplina successivamente introdotta dal legislatore.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui «non prevede, nel caso di condannati alla pena dell’ergastolo che abbiano già scontato una frazione di pena che renda ammissibile la liberazione condizionale, il ristoro economico previsto dal comma 2 dell’art. 35-ter o.p.», sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Magistrato di sorveglianza di Padova, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 giugno 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2016.