ORDINANZA N. 57
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
- Giancarlo CORAGGIO "
- Giuliano AMATO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, 59, comma 1, 83, comma 1, numero 5), e comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati); degli artt. 14, comma 1, e 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica); degli artt. 10-bis e 14, commi 5-bis e 5-quater, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promossi dal Giudice di pace di Borgo San Dalmazzo con ordinanze del 10 luglio e dell’8 ottobre 2013, iscritte ai numeri 221 e 268 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 43 e 51, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 febbraio 2014 il Giudice relatore Paolo Grossi.
Ritenuto che, nel corso di un procedimento penale a carico di un cittadino extracomunitario, imputato del reato di cui all’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), il Giudice di pace di Borgo San Dalmazzo, con ordinanza emessa il 10 luglio 2013, ha sollevato – in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, 49, 56, primo comma, 58, primo comma, e 67 della Costituzione, nonché dell’art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 – questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, 59, comma 1, 83, comma 1, numero 5), e comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), nel testo risultante dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica); degli artt. 14, comma 1, e 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), nel testo risultante dalla citata legge n. 270 del 2005; nonché dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, così come inserito dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica);
che il rimettente rileva che il reato ascritto all’imputato «è stato introdotto con deliberazione da parte dei componenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, eletti a seguito dell’entrata in vigore della L. 270/2005 che affida agli organi di partito e non alla volontà del corpo elettorale, la designazione di coloro che devono essere nominati», così privando i cittadini elettori della facoltà di esercitare il diritto di voto in modo pieno e diretto;
che – premesso che «l’espressione del voto mediante il quale si manifesta la volontà popolare […] costituisce l’oggetto di un diritto inviolabile […] e permanente dei cittadini che devono poterlo esercitare in modo conforme alla Costituzione», poiché «la dichiarazione di appartenenza della sovranità al popolo non è che la conseguenza della forma democratica dello Stato» e «la rappresentanza politica è dunque il mezzo fondamentale adottato dalla nostra Costituzione ai fini dell’instaurazione e del funzionamento del sistema costituzionale» – il giudice a quo osserva che la legge n. 270 del 2005 «non permette al cittadino di esprimere la preferenza per i singoli candidati ma lascia, allo stesso, la sola possibilità di ratificare la scelta dei candidati già decisa dai partiti attraverso un gioco di procedure nella formazione delle liste elettorali determinando, in tal modo, unilateralmente la scelta dei candidati che, pertanto, vengono ad assumere la qualifica e il ruolo di nominati e non già di eletti», «rompendo la sacralità dell’istituto della rappresentanza politica dell’elettore così come, invece, voluto dalla Costituzione»;
che, al contrario, il rimettente ritiene che – enunciate dall’art. 48 Cost. le garanzie per l’esercizio democratico del voto individuate nei princípi di personalità, uguaglianza, libertà e segretezza e previsto il voto diretto, con esclusione di quello indiretto in qualsiasi forma congegnato – «mediante l’adozione del suffragio universale e diretto, la Costituzione agli artt. 56 e 58 ha voluto concretamente attuare il principio della sovranità popolare collegando la rappresentatività dei deputati e senatori in via immediata sia al corpo elettorale, del quale sono espressione, sia al contenuto dell’art. 67 Cost., a norma del quale, ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione»; e che, pertanto, «sorge il dubbio che il voto che non consenta all’elettore di esprimere una preferenza, potendo solo scegliere una lista di partito, possa considerarsi diretto e compatibile con la Carta costituzionale il cui solo rispetto può legittimare il Parlamento a dare leggi prescrittive»;
che, rilevato che la Carta suprema non riconosce ai partiti un ruolo nella presentazione delle candidature e più in generale un ruolo nella selezione del personale politico, il giudice a quo sottolinea che, pur se il partito si è andato progressivamente ad affermare come il «moderno principe», tuttavia ciò non può indurre a ritenere che vi sia stato un definitivo trapasso ad esso della sovranità dal corpo elettorale;
che pertanto, secondo il rimettente, le norme elettorali censurate si porrebbero in contrasto con gli evocati parametri, giacché «gli artt. 56 e 58 stabiliscono che il suffragio è universale e diretto per l’elezione dei deputati e senatori, l’art. 48 stabilisce che il voto è personale ed uguale, libero e segreto e l’art. 3 Prot. 1 CEDU riconosce la libera espressione dell’opinione del popolo nella scelta del corpo legislativo e, per l’effetto, risulta dubbio che la scelta del legislatore effettuata con la legge n. 207/2005 costituisca una scelta ragionevole e compatibile con il dettato costituzionale»;
che inoltre, poiché l’elezione dei membri del Parlamento risulta essere non già una conseguenza diretta dell’espressione di voto ma una scelta delle segreterie dei partiti, per il giudicante «sorge il fondato dubbio» che la legge oggetto della cognizione nel giudizio a quo, varata da un Parlamento di cui risulta dubbia la legalità ovvero la legittimità costituzionale della sua investitura, possa ritenersi prescrittiva;
che, infine, il giudice a quo ritiene le questioni rilevanti perché, se accolte, comporterebbero l’assoluzione del prevenuto;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la manifesta inammissibilità delle questioni, per insufficiente descrizione della fattispecie, per mancanza di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, per l’evocazione non pertinente dei parametri costituzionali che si assumono violati e per l’omessa verifica della possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa censurata;
che la difesa dello Stato sottolinea inoltre la incongruenza della prospettazione per la quale l’illegittimità costituzionale della legge elettorale del 2005 determinerebbe l’illegittimità delle norme approvate dal Parlamento costituitosi a seguito del relativo suffragio elettorale;
che – nel corso di altro procedimento penale, a carico di un cittadino extracomunitario imputato del reato previsto e punito dall’art. 14, comma 5-quater, in relazione al comma 5-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 – il medesimo Giudice di pace di Borgo San Dalmazzo (con premesse ed argomentazioni pressoché coincidenti a quelle poste a fondamento della precedente questione incidentale) ha sollevato, con ordinanza emessa l’8 ottobre 2013 e con riferimento agli stessi parametri, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, 59, comma 1, 83, comma 1, numero 5), e comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, nel testo risultante dalla legge n. 270 del 2005; degli artt. 14, comma 1, e 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993, nel testo risultante dalla legge n. 270 del 2005; nonché dell’art. 14, commi 5-quater e 5-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, già inseriti dall’art. 13, comma 1, lettera b), della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), e sostituiti rispettivamente dai numeri 6) e 4) della lettera d) del comma 1 dell’art. 3 del decreto-legge 23 giugno 2011, n. 89 (Disposizioni urgenti per il completamento dell’attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 agosto 2011, n. 129.
Considerato che, in entrambi i giudizi, il Giudice di pace di Borgo San Dalmazzo censura gli artt. 4, comma 2, 59, comma 1, 83, comma 1, numero 5), e comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), nel testo risultante dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica); e gli artt. 14, comma 1, e 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), nel testo risultante dalla citata legge n. 270 del 2005, in quanto norme per l’elezione dei componenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica che non permettono al cittadino di esprimere la preferenza per i singoli candidati, ma lasciano allo stesso la sola possibilità di ratificare la scelta dei candidati già decisa dai partiti, attraverso un gioco di procedure nella formazione delle liste elettorali, determinando, in tal modo, unilateralmente la scelta dei candidati, i quali, pertanto, vengono ad assumere la qualifica e il ruolo di nominati e non già di eletti;
che, conseguentemente, il rimettente censura altresì, nel primo giudizio, l’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), così come inserito dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica); e, nel secondo giudizio, l’art. 14, commi 5-quater e 5-bis, dello stesso d.lgs. n. 286 del 1998, già inseriti dall’art. 13, comma 1, lettera b), della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), e sostituiti rispettivamente dai numeri 6) e 4) della lettera d) del comma 1 dell’art. 3 del decreto-legge 23 giugno 2011, n. 89 (Disposizioni urgenti per il completamento dell’attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 agosto 2011, n. 129, in quanto norme, oggetto della cognizione nei giudizi a quibus, approvate da un Parlamento di cui risulta dubbia la legalità ovvero la legittimità costituzionale della sua investitura;
che, secondo il rimettente, le norme impugnate si porrebbero in contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, 49, 56, primo comma, 58, primo comma, e 67 della Costituzione, nonché con l’art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950;
che, in considerazione della identità delle sollevate questioni, i giudizi vanno riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia;
che – anche a prescindere dalla circostanza che, dopo la proposizione degli odierni giudizi, tutte le impugnate disposizioni dei testi unici delle leggi elettorali di Camera e Senato sono state dichiarate incostituzionali da questa Corte con la sentenza n. 1 del 2014; e che, di conseguenza, è venuto meno l’oggetto delle sollevate questioni, giacché, a seguito di tale decisione, le predette norme sono state già rimosse dall’ordinamento con efficacia ex tunc (ex plurimis, ordinanze n. 321, n. 294, n. 280 e n. 257 del 2013) – le ordinanze di rimessione presentano ulteriori profili di radicale inammissibilità;
che, infatti, dalla stessa prospettazione, emerge chiaramente come, per la definizione dei giudizi principali, il rimettente non sia in alcun modo chiamato ad applicare nei giudizi a quibus le censurate norme elettorali (ex plurimis, ordinanze n. 306, n. 176 e n. 81 del 2013), dovendo egli esclusivamente accertare la penale responsabilità dei due cittadini extracomunitari, per i reati loro rispettivamente ascritti di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato e di violazione dell’ordine di lasciare il territorio medesimo;
che, in ragione di ciò, si manifesta con altrettanta evidenza come, nella specie, l’impugnazione delle menzionate norme elettorali (rispetto alle quali va, altresì, sottolineata la completa assenza di qualsiasi argomentazione in ordine alle ragioni della asserita incostituzionalità dell’art. 83, comma 1, numero 5), e comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, e dell’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993, che regolamentano l’attribuzione del premio di maggioranza) si configuri quale tentativo da parte del rimettente di proporre in via diretta un controllo di costituzionalità, che risulta surrettiziamente attivato, al di fuori dei limiti sanciti dall’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte costituzionale) e dall’art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), essendo del tutto carente il nesso di indispensabile pregiudizialità dello specifico scrutinio richiesto alla Corte rispetto agli esiti della decisione del giudizio principale (ordinanza n. 196 del 2013);
che, d’altronde, la radicale mancanza d’incidentalità del richiesto vaglio delle norme neppure può dirsi colmata dalla affermazione – peraltro formulata in maniera del tutto apodittica – di una conseguente “non prescrittività” delle leggi approvate dai Parlamenti succedutisi dopo il dicembre del 2005 (e costituiti sulla base di norme elettorali incostituzionali) e quindi anche di quelle penali applicabili nei processi a quibus;
che, comunque, questa Corte (nella citata sentenza n. 1 del 2014) ha chiarito che la decisione di annullamento delle norme censurate, «avendo modificato in parte qua la normativa che disciplina le elezioni per la Camera e per il Senato, produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale, consultazione che si dovrà effettuare o secondo le regole contenute nella normativa che resta in vigore a seguito della presente decisione, ovvero secondo la nuova normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camere»; e che «essa, pertanto, non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto», e neppure gli «atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali»;
che infine – con riferimento alle questioni riguardanti gli artt. 10-bis e 14, comma 5-quater, in relazione al comma 5-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 – il Giudice di pace si è esclusivamente limitato, in termini puramente assiomatici, a far cenno alla circostanza che, nei giudizi principali, si procede a carico degli imputati rispettivamente per i relativi reati, e ad asserire che le questioni sarebbero «rilevanti perché, se accolte, comporterebbero l’assoluzione del prevenuto» in entrambi i processi;
che manca, perciò, ogni specifico riferimento (atto a permettere a questa Corte la necessaria verifica dell’asserita rilevanza delle questioni, sia nel loro complesso sia in rapporto alle singole censure: ordinanze n. 175, n. 84 e n. 65 del 2013) alle vicende concrete che hanno dato origine alle imputazioni ed alla loro effettiva riconducibilità ai paradigmi punitivi considerati;
che, pertanto, le sollevate questioni sono manifestamente inammissibili.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, 59, comma 1, 83, comma 1, numero 5), e comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), nel testo risultante dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica); e degli artt. 14, comma 1, e 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), nel testo risultante dalla citata legge n. 270 del 2005, sollevate – in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, 49, 56, primo comma, 58, primo comma, e 67 della Costituzione, nonché dell’art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 – dal Giudice di pace di Borgo San Dalmazzo, con le ordinanze indicate in epigrafe;
2) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), così come inserito dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica); e dell’art. 14, commi 5-quater e 5-bis, dello stesso d.lgs. n. 286 del 1998, già inseriti dall’art. 13, comma 1, lettera b), della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), e sostituiti rispettivamente dai numeri 6) e 4) della lettera d) del comma 1 dell’art. 3 del decreto-legge 23 giugno 2011, n. 89 (Disposizioni urgenti per il completamento dell’attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 agosto 2001, n. 129, sollevate – in riferimento ai sopra richiamati parametri – dallo stesso Giudice di pace di Borgo San Dalmazzo, con le medesime ordinanze.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 marzo 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 27 marzo 2014.