SENTENZA N. 160
ANNO 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
- Giancarlo CORAGGIO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-ter, del decreto-legge 5 agosto 2010, n. 125 (Misure urgenti per il settore dei trasporti e disposizioni in materia finanziaria), aggiunto dalla legge di conversione 1° ottobre 2010, n. 163, promosso dal Tribunale di Roma nel procedimento vertente tra Z.M. e il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con ordinanza del 22 febbraio 2012, iscritta al n. 96 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti l’atto di costituzione di Z.M., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 10 aprile 2013 il Giudice relatore Aldo Carosi;
uditi l’avvocato Giorgio Cosmelli per Z.M. e l’avvocato dello Stato Giovanni Lancia per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza del 22 febbraio 2012 il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1-ter, del decreto-legge 5 agosto 2010, n. 125 (Misure urgenti per il settore dei trasporti e disposizioni in materia finanziaria.), aggiunto dalla legge di conversione 1° ottobre 2010 n. 163, denunciandone il contrasto con l’art. 3, primo comma, della Costituzione.
Detto art. 2, comma 1-ter, stabilisce che «L’articolo 45, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, si interpreta nel senso che l’incarico onorario di esperto del servizio consultivo ed ispettivo tributario si intende in ogni caso cessato ad ogni effetto, sia giuridico sia economico, a decorrere dalla data di entrata in vigore della predetta disposizione».
Riferisce il giudice a quo che la questione è sorta nella causa in materia di lavoro promossa dal dott. Z.M. contro il Ministero dell’economia e delle finanze (MEF).
Si legge nell’ordinanza di rimessione che il ricorrente era stato nominato nel 2007, con incarico di durata triennale, componente esperto a tempo pieno, esterno ai ruoli della pubblica amministrazione, del Servizio Consultivo ed Ispettivo Tributario (SECIT), originariamente istituito dalla legge 24 aprile 1980 n. 146 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1980) e regolato, quanto a funzioni, composizione e funzionamento, da svariate fonti normative successive; che, in seguito, l’art. 45 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, stabiliva, con decorrenza dal 26 giugno 2008, la soppressione del SECIT, attribuiva le relative funzioni al Dipartimento delle finanze del MEF e disponeva che il relativo personale di ruolo fosse restituito alle amministrazioni di appartenenza (ovvero, se già personale del ruolo del MEF, assegnato al Dipartimento stesso); che, conseguentemente, al dott. Z.M. veniva comunicata, verbalmente, la cessazione immediata dell’incarico di esperto SECIT.
Riferisce il giudice a quo che il ricorrente, sostenendo la natura subordinata a termine del suo rapporto con il SECIT, si era rivolto al giudice del lavoro lamentando l’illegittimità della risoluzione così intervenuta e l’inadempienza del MEF rispetto alle obbligazioni retributive assunte con il conferimento dell’incarico, domandandone la condanna al pagamento delle spettanze economiche dal momento della sua anticipata cessazione sino a quella di scadenza contrattualmente prevista. In subordine, e per l’ipotesi che il rapporto con il SECIT dovesse essere qualificato come autonomo, il ricorrente aveva invocato l’applicazione dell’art. 2227 del codice civile sul recesso unilaterale del committente e aveva domandato la condanna della controparte al pagamento del relativo indennizzo.
Nel giudizio davanti al giudice del lavoro di Roma – prosegue il giudice a quo – si era costituito il MEF, negando la configurabilità di un rapporto subordinato di pubblico impiego e rilevando che la disposizione legislativa che aveva soppresso il SECIT costituiva una causa sopravvenuta d’impossibilità totale della prestazione, ai sensi dell’art. 1463 cod. civ., ed in ogni caso segnalando l’entrata in vigore, sin dal 6 ottobre 2010, dell’art. 2 comma 1-ter del d.l. n. 125 del 2010, introdotto dalla legge di conversione n. 163 del 2010, norma d’interpretazione autentica che aveva chiarito la natura onoraria dell’incarico di esperto SECIT e la definitiva cessazione del medesimo incarico, ad ogni effetto giuridico ed economico, alla data di soppressione legislativa del Servizio.
Espone il rimettente, nel sollevare la questione, che, con particolare riguardo alla disciplina vigente all’atto della nomina del ricorrente (giugno 2007), i compiti e finalità del SECIT, risultanti dall’art. 22, comma 1, del d.P.R. 26 marzo 2001 n. 107, recante «Regolamento di organizzazione del Ministero delle finanze», consistevano nell’elaborazione di studi di politica economica e tributaria e di analisi fiscale in conformità agli indirizzi del Ministro (già delle finanze, poi dell’economia e delle finanze). Il giudice a quo provvede, poi, a ricostruire il quadro normativo.
Il servizio esplicava le sue attività mediante un organico composto di cinquanta esperti (art. 22, comma 1, del d.P.R. n. 107 del 2001), scelti (art. 10, secondo comma, della legge n. 146 del 1980, tra i funzionari dell’amministrazione finanziaria e delle altre pubbliche amministrazioni con qualifica non inferiore a dirigente, tra il personale di magistratura avente almeno la ex qualifica di appello (esperti già di ruolo), e tra soggetti non appartenenti alla pubblica amministrazione in possesso di elevate competenze ed esperienza professionale nelle discipline economico-finanziarie, statistiche, contabili o aziendalistiche (esperti non di ruolo, esterni alla pubblica amministrazione, quale appunto il ricorrente dott. Z.M.).
Per soddisfare esigenze di studio del dipartimento, il Ministro suddetto poteva distaccare presso lo stesso – come accaduto per il dott. Z.M. – esperti del SECIT sino alla concorrenza di metà dell’organico; esperti posti in tal caso alle dipendenze funzionali del capo dipartimento (art. 22, comma 1, del d.P.R. n. 107 del 2001).
Gli esperti erano tutti nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri su proposta del Ministro delle finanze (art. 10, terzo comma, della legge n. 146 del 1980).
La durata massima dell’incarico – antecedentemente stabilita (dall’art. 10, quarto comma, della legge n. 146 del 1980) mediante richiamo alla disciplina sulla temporaneità degli incarichi dei dirigenti della P.A. – era triennale, rinnovabile per non più di una volta (art. 3, comma 1, lettera d, terza proposizione, del decreto legislativo 3 luglio 2003, recante «Riorganizzazione del Ministero dell’economia e delle finanze e delle agenzie fiscali, a norma dell’articolo 1 della legge 6 luglio 2002, n. 137»).
Gli esperti appartenenti a ruoli diversi dall’Amministrazione delle finanze erano collocati fuori ruolo, od in posizione equivalente, per la durata dell’incarico (art. 10, quarto comma, della legge n. 146 del 1980).
Gli esperti (art. 11, settimo comma, della legge n. 146 del 1980) dovevano osservare il segreto d’ufficio, ed astenersi relativamente ad affari nei quali essi stessi o parenti o affini avessero interesse; non potevano esercitare attività professionali o di consulenza né ricoprire altri uffici pubblici di qualsiasi natura, pena la decadenza dall’incarico, salvo che per gli esperti a tempo parziale.
Gli esperti a tempo parziale (art. 4, comma 3-bis, del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, recante «Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate», convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2002, n. 178) potevano essere assunti o con rapporto dipendente a tempo parziale, o mediante rapporto di collaborazione coordinata e continuativa.
Per quanto riguarda lo stato giuridico, agli esperti del SECIT non appartenenti alla P.A. si applicavano, indipendentemente dalla loro provenienza, le disposizioni in materia riguardanti gli impiegati civili dello Stato (art. 18, comma 3, del d.P.R. 27 marzo 1992 n. 287, recante «Regolamento degli uffici e del personale del Ministero delle finanze»).
Quanto al trattamento economico, agli esperti ne spettava uno onnicomprensivo, pari al trattamento fondamentale previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro dei dirigenti di prima fascia, oltre ad una speciale indennità (art. 22, comma 3, del d.P.R. n. 107 del 2001).
Successivamente era sopravvenuto l’art. 45, comma 1, del d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, che – prosegue il giudice a quo – aveva segnato per il dott. Z.M., esperto non di ruolo, l’impugnata immediata estinzione dell’incarico.
Secondo il rimettente il quadro normativo sopra descritto rifletterebbe, in modo palese, con riguardo all’esperto del SECIT estraneo alla P.A., l’esistenza di un rapporto di lavoro, di natura dipendente ed a termine, stante l’inequivoco richiamo, da parte delle disposizioni sopra esaminate, alla disciplina inerente lo stato giuridico dei pubblici dipendenti e, quanto al trattamento economico, a quella dei dirigenti (che sono, pacificamente, lavoratori subordinati), richiamo valevole indistintamente sia per i componenti del Servizio già nei ruoli della P.A. (e, dunque, in forza a tempo indeterminato) sia per i componenti non di ruolo, legati all’Amministrazione medesima da vincolo a tempo determinato.
Anche concretamente, prosegue il giudice del lavoro, risulterebbe pacificamente provato che al dott. Z.M. era stato applicato il trattamento specificamente previsto per i lavoratori dipendenti (in via esemplificativa, con riguardo al recupero delle ore di ritardo, alle ferie, ai permessi, alla tredicesima) e che egli era iscritto alla Cassa dipendenti statali dell’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP); ed alla cessazione del rapporto gli era stato corrisposto il trattamento di fine rapporto.
Osserva in proposito il giudice rimettente che in casi del genere, se non ricorrono le ipotesi di recesso per giusta causa di cui all’art. 2119 cod. civ., il rapporto può essere risolto anticipatamente non già per un giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), ma soltanto ricorrendo le ipotesi di risoluzione del contratto previste dagli artt. 1453 e seguenti cod.civ. Ne conseguirebbe che, qualora il datore di lavoro proceda ad una riorganizzazione del proprio assetto produttivo, egli non potrebbe avvalersi di tale evenienza per risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato (è citata la sentenza della Cassazione civile n. 3276 del 2009).
In proposito, il medesimo giudice osserva che la soppressione del SECIT, per decisione sovrana del legislatore, costituisce senza dubbio un atto di primaria rilevanza incidente sull’organizzazione datoriale, ma non tale tuttavia da integrare, nell’ambito di una locatio operarum a tempo determinato, un’ipotesi d’impossibilità sopravvenuta totale della prestazione, che sarebbe riscontrabile solo a fronte dell’accertata preclusione di ogni proficuo riutilizzo del lavoratore; circostanza che tuttavia non era stata né compiutamente allegata dall’Amministrazione, né comunque dimostrata, risultando anzi il contrario, tenuto conto che l’art. 45 del d.l. n. 112 del 2008 avrebbe attribuito al Dipartimento le funzioni già intestate al SECIT, ed il MEF mostrava all’epoca numerose scoperture nei ruoli, tanto ad averlo indotto a bandire un concorso pubblico per coprire tali vacanze.
Pertanto, il Tribunale di Roma ritiene fondato l’assunto del lavoratore di essere destinato, successivamente alla soppressione del SECIT e sino alla scadenza del proprio incarico, a mansioni equivalenti presso il Dipartimento delle finanze, mantenendo quindi il diritto di percepire l’intera retribuzione come originariamente pattuito. Ma, si prosegue, è sopraggiunto l’art. 2, comma 1-ter, del d.l. n. 125 del 2010, nel testo introdotto dalla legge di conversione n. 163 del 2010, che ha “interpretato” l’articolo 45, comma 1, del d.l n. 112 del 2008 nel senso che l’incarico onorario di esperto del servizio consultivo ed ispettivo tributario si doveva intendere in ogni caso cessato ad ogni effetto, sia giuridico sia economico, a decorrere dalla data di entrata in vigore di tale disposizione.
Sostiene il giudice a quo che con tale disposizione il legislatore avrebbe inteso sia qualificare imperativamente, ora per allora, come “onorario” l’incarico dell’esperto SECIT sia, in coerenza con tale qualificazione, disporne la cessazione contestuale alla soppressione di tale servizio, con esclusione di qualsiasi eventuale pretesa del lavoratore, di ordine giuridico ed economico.
Evidenzia il Tribunale ordinario di Roma che in questo significato la disposizione ha trovato già applicazione in varie decisioni del giudice del lavoro romano, restando quindi precluso ogni tentativo di offrirne una diversa interpretazione che non sia incompatibile con le richieste del ricorrente.
Per tali ragioni, il rimettente ritiene evidente l’incidenza dell’art. 2, comma 1-ter, del d.l. n. 125 del 2010 nel giudizio a quo, che sarebbe stato indirizzato da tale disposizione ad un esito opposto a quello che il preesistente assetto normativo avrebbe determinato.
Il medesimo giudice ritiene fondato anche il dubbio di legittimità costituzionale di siffatta disposizione legislativa, con riferimento all’art. 3, primo comma, Cost.
Tale disposizione – si argomenta – non rispetterebbe difatti i limiti più volte enunciati dalla Corte costituzionale in materia di norme di interpretazione autentica, per le quali la loro applicazione a rapporti precedenti deve trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza, a patto quindi che la scelta così imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore, e sempre che lo ius superveniens neppure contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti, tra cui il divieto d’introdurre ingiustificate disparità di trattamento, la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti dell’ordinamento quale principio connaturato allo Stato di diritto, la coerenza e la certezza dell’ordinamento stesso.
A fronte di tale quadro, osserva innanzi tutto il giudice a quo che l’interpretazione-qualificazione data dal legislatore con l’art. 2 , comma 1-ter, del d.l. n. 125 del 2010 non potrebbe in alcun modo essere ricondotta ad uno dei possibili originari significati della disposizione interpretata.
Difatti, anche se non si condividesse la ricostruzione del rapporto dell’esperto esterno del SECIT nei termini della subordinazione, l’unica alternativa sarebbe quella di ammettere la ricorrenza degli elementi della collaborazione coordinata e continuativa (o “para-subordinazione”), tesi in effetti recepita da altre pronunce del medesimo Tribunale, che peraltro giungono comunque all’accoglimento dei ricorsi.
Ma comunque sia, prosegue il giudice rimettente, non sarebbe possibile escludere l’esistenza, nella fattispecie, di un rapporto professionale di servizio tra l’esperto e l’Amministrazione, sicché, ricondurre il primo alla figura del funzionario onorario, verrebbe ad urtare manifestamente con tutti gli indici di riconoscimento elaborati dalla giurisprudenza (viene citata la sentenza della Cassazione, sezioni unite civili, n. 11272 del 1998): infatti, si evidenzia che l’esperto SECIT non era scelto con valutazioni di tipo politico-discrezionale (ma di carattere tecnico-professionale); era inserito in modo strutturale e professionale nell’organizzazione dell’Amministrazione; svolgeva, come visto, un rapporto provvisto di specifica e minuziosa disciplina; percepiva un compenso non meramente di natura indennitaria, ma inerente al rapporto sinallagmatico esistente tra le parti (e parametrato, infatti, al trattamento economico della dirigenza pubblica).
Con riguardo poi al legittimo affidamento, osserva il Tribunale ordinario di Roma che non è contestabile che gli esperti del SECIT, in particolare quelli esterni ai ruoli della pubblica amministrazione, avessero riposto un legittimo affidamento sulla natura professionale dell’attività da essi esercitata, pacificamente riconosciuta dalla pressoché unanime giurisprudenza, e sulle conseguenze che ne sarebbero derivate in ordine alla permanenza del rapporto per il tempo stabilito.
In sostanza, secondo il giudice a quo la norma di cui si tratta non avrebbe imposto una scelta rientrante tra le possibili varianti di senso del testo originario, né sarebbe intervenuta per risolvere contrasti giurisprudenziali, ma avrebbe posto in essere, con efficacia retroattiva, una sostanziale modifica della normativa precedente, incidendo in modo irragionevole, in violazione dell’art. 3 Cost., sul legittimo affidamento nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale dello Stato di diritto.
2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
Secondo la difesa erariale la norma in realtà andrebbe intesa nel senso che essa chiarisce che l’incarico di esperto del SECIT non resiste alla soppressione del servizio, così come avviene per ogni altro incarico onorario; e poiché secondo la Presidenza del consiglio non potrebbe dirsi consolidata alcuna giurisprudenza od opinione in tema di natura del rapporto fra il SECIT e gli esperti che lo componevano, sarebbe ben possibile un’interpretazione diversa da quella che fa il Tribunale ordinario di Roma, qualificandola in termini di servizio onorario.
Contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo, secondo il patrocinio erariale, nel rapporto unitario fra il SECIT e gli esperti sarebbero – in realtà – ravvisabili caratteri che, comunemente, vengono riferiti al servizio onorario. Infatti, secondo la Presidenza del Consiglio, tale rapporto sarebbe frutto di nomina ampiamente discrezionale (con connotazioni fiduciarie) e certo non deriva dell’esperimento di procedure di concorso; il legislatore utilizzerebbe termini del tutto compatibili con la sua natura onoraria (il rapporto viene definito come «incarico» e sono previste cause di decadenza e di revoca); l’attività dell’esperto sarebbe ben lungi dall’essere minuziosamente disciplinata (si evidenzia che l’art. 11, comma 7, della legge n. 146 del 1980 prevede unicamente che «gli esperti devono osservare il segreto di ufficio ed astenersi relativamente agli affari nei quali essi stessi e loro parenti o affini hanno interesse, non possono esercitare attività professionali o di consulenza né ricoprire uffici pubblici di qualsiasi natura»); 1’inserimento nell’apparato organizzativo della P.A. non parrebbe quindi potersi definire professionale e strutturale, bensì solo funzionale; infine, dall’art. 22 del d.P.R. n. 107 del 2001 non potrebbe trarsi alcun elemento per definire come “retribuzione”, quanto corrisposto all’esperto del SECIT.
Ciò posto, la difesa erariale conclude osservando che parrebbe del tutto fuori di luogo sostenere, come fa il giudice a quo, la violazione dell’affidamento nella natura professionale del rapporto ed ancor più la lesione di un affidamento di chi si è visto conferire un incarico temporaneo di consulenza – specificamente riferito a determinate funzioni svolte da un servizio dotato di ben precise connotazioni – di permanere nell’incarico, una volta che venga soppresso il servizio stesso.
3. – Si è costituito il ricorrente del giudizio di primo grado, dott. Z. M.
Questi evidenzia che, confidando sulla durata prevista della nomina ad esperto del SECIT, aveva rinunciato ad un precedente incarico di livello dirigenziale sempre alle dipendenze del MEF in corso di svolgimento, ed aveva confidato quindi sul prestigio del nuovo incarico, sull’avanzamento di carriera, nonché sulla sua durata quantomeno triennale (fino al 4 settembre 2010, rinnovabile per eguale periodo) e sui conseguenti redditi e benefici pensionistici che da tale impiego gli sarebbero derivati.
Secondo il dott. Z.M., il recesso anticipato con il quale l’Amministrazione ha posto fine all’incarico, dopo nemmeno un anno dal suo inizio, dovrebbe essere qualificato come un vero e proprio licenziamento illegittimo – perché privo di giusta causa – considerando inoltre che il MEF avrebbe potuto riutilizzare proficuamente l’interessato in posti per i quali esso aveva carenza di organico. Secondo l’interveniente, proprio per rimediare alle prime pronunce favorevoli agli ex esperti esterni del SECIT, il legislatore avrebbe introdotto l’impugnata norma di “interpretazione autentica” dell’art. 45 del d.l. n 112 del 2008, al fine di qualificare ex post il rapporto intercorso tra il dott. Z.M. ed il MEF quale “incarico onorario” e non come rapporto di natura subordinata di livello dirigenziale.
In proposito, evidenzia l’interveniente che contrasta con il principio del legittimo affidamento che un rapporto che per oltre 30 anni si è svolto in un determinato modo, senza contestazione alcuna, sia in seguito – addirittura quando non più esistenti la struttura e le relative attività – qualificato da una norma in maniera diversa, tanto più quando la diversa qualificazione del rapporto stesso sia operata con una norma retroattiva, con l’effetto di far venire meno i diritti quesiti del lavoratore sui cui lo stesso riponeva legittimo affidamento, quale il diritto ad un certo trattamento sia economico che normativo.
A conferma della considerazione del rapporto instaurato presso il SECIT come rapporto di lavoro subordinato, starebbero, secondo il dott. Z.M., oltre a varie sentenze del giudice del lavoro di Roma, anche la regolamentazione complessiva del rapporto di lavoro alle dipendenze del SECIT – dalla quale si evincerebbe che gli esperti erano nominati sulla base della loro professionalità – nonché dalle modalità del concreto svolgimento del lavoro stesso.
Prosegue l’interveniente osservando che anche quando non si riscontrasse la violazione del principio del legittimo affidamento, in ogni caso, la norma di interpretazione autentica, stravolgendo la realtà dei fatti, avrebbe determinato ingiuste disparità di trattamento, venendo così ad integrare la violazione dei principi generali di eguaglianza e ragionevolezza.
Allo stesso tempo, essa avrebbe creato una grave disparità tra gli esperti esterni che hanno potuto godere e far valere i propri diritti nei confronti del SECIT quando tale norma non esisteva e gli esperti esterni, come il dott. Z.M., che si sono viceversa ritrovati a far valere i propri diritti nella vigenza della stessa.
Nel caso in questione, obietta l’interveniente che non solo la norma de qua non dà alcuna spiegazione di tale equiparazione – effettuata incidentalmente e in una sede non opportuna – ma la motivazione dell’equiparazione avrebbe il solo effetto di pregiudicare posizioni soggettive di singoli, senza alcun soddisfacimento di quegli «interessi generali» richiamati dalla sentenza n. 78 del 2012 della Corte costituzionale.
Sulla scorta di tali considerazioni il dott. Z.M. conclude insistendo per la dichiarazione di illegittimità dell’art. 2, comma 1-ter, del d.l. n. 125 del 2010, convertito dalla legge n. 163 del 2010, per contrasto con l’art. 3 Cost. e, in subordine, chiede alla Corte di fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata della predetta norma, così evitando il contrasto con i precetti dell’art. 3 Cost.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1-ter, del decreto-legge 5 agosto 2010, n. 125 (Misure urgenti per il settore dei trasporti e disposizioni in materia finanziaria), aggiunto dalla legge di conversione 1° ottobre 2010, n. 163, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, nell’ambito di un giudizio inerente ad un incarico di durata triennale di componente esperto a tempo pieno, esterno ai ruoli della pubblica amministrazione, del Servizio Consultivo ed Ispettivo Tributario (SECIT).
La disposizione impugnata stabilisce che «L’articolo 45, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, si interpreta nel senso che l’incarico onorario di esperto del servizio consultivo ed ispettivo tributario si intende in ogni caso cessato ad ogni effetto, sia giuridico sia economico, a decorrere dalla data di entrata in vigore della predetta disposizione».
Il ricorrente del giudizio a quo era stato nominato nel 2007 ispettore del SECIT, organismo originariamente istituito dalla legge 24 aprile 1980, n. 146 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1980), e regolato, per quanto riguarda attribuzioni, composizione e funzionamento, da altre fonti normative succedutesi nel tempo. In seguito, l’art. 45 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, ha stabilito, con decorrenza dal 26 giugno 2008, la soppressione del SECIT, con attribuzione delle relative funzioni al Dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia e delle finanze (MEF), disponendo che il relativo personale di ruolo fosse restituito alle amministrazioni di appartenenza ovvero, se già personale del ruolo del MEF, assegnato al dipartimento di precedente appartenenza.
Sulla base di tale disposizione, all’ispettore veniva comunicata, solo verbalmente, la cessazione immediata dell’incarico precedentemente ricevuto. Egli ricorreva al giudice del lavoro, lamentando l’illegittimità della risoluzione così intervenuta e l’inadempienza del MEF rispetto alle obbligazioni retributive assunte con il conferimento dell’incarico e domandandone la condanna al pagamento delle spettanze economiche dal momento della anticipata cessazione fino alla scadenza prevista dall’incarico stesso.
La domanda si fonda sulla natura di lavoro dipendente del rapporto con il SECIT e, in subordine, di lavoro autonomo, con conseguente applicazione dell’art. 2227 del codice civile. Ad avviso del ricorrente, non vi sarebbero, al di fuori di tale alternativa, altre qualificazioni possibili e pertanto il recesso unilaterale del datore di lavoro committente dovrebbe dar luogo alla condanna al pagamento del relativo indennizzo, parametrato nel modo sopra indicato.
Al contrario, il Ministero resistente nega la configurabilità del rapporto come lavoro subordinato od autonomo, ritenendo la soppressione del SECIT causa sopravvenuta comportante l’impossibilità totale della prestazione. Inoltre, la norma impugnata avrebbe natura di interpretazione autentica chiarificatrice della qualità onoraria dell’incarico di esperto SECIT. Essa avrebbe sancito in modo inequivocabile la cessazione del rapporto ad ogni effetto giuridico ed economico, alla data di soppressione del SECIT.
1.1. – Il giudice rimettente dubita che la disposizione di interpretazione autentica richiami un significato compatibile con il dettato originale della norma riguardante l’abolizione del SECIT, anche alla luce di una serie di elementi sintomatici ricavati dalla disciplina che regolava, anteriormente alla soppressione, il rapporto tra il Servizio e gli ispettori, fossero essi pubblici dipendenti o esterni all’amministrazione.
La disposizione avrebbe incidenza sulla decisione del giudizio a quo, dal momento che solo l’esistenza di un rapporto di natura onoraria e la conseguente negazione sia dell’ipotesi di lavoro subordinato a tempo determinato, sia di quella di prestazione d’opera ai sensi dell’art. 2222 cod. civ. o della collaborazione coordinata e continuativa (o “para-subordinazione”), comporterebbero l’impossibilità di accogliere la domanda del ricorrente.
Nelle altre ipotesi interpretative, ora precluse dalla norma impugnata, non sarebbe sufficiente per l’amministrazione convenuta invocare il factum principis della soppressione legislativa del SECIT, essendo necessaria, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la prova dell’impossibilità di destinare l’incaricato ad altra mansione utile – nel caso di specie – presso il Dipartimento delle Finanze. Possibilità, questa, allegata dal ricorrente, il quale ha evidenziato che le funzioni svolte dagli esperti erano state attribuite a tale Dipartimento presso il quale egli già era assegnato, ed ha citato una serie di reclutamenti successivi – da parte dell’amministrazione – di analoghe figure professionali.
In definitiva, la disposizione impugnata non rientrerebbe nei canoni di legittimità più volte enunciati dalla Corte costituzionale in materia di norme di interpretazione autentica e lederebbe il legittimo affidamento degli esperti del SECIT sulla natura e la durata della loro prestazione.
2. – La questione è fondata.
Va premesso che, come questa Corte ha più volte chiarito, il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore (ex plurimis, sentenze n. 271 del 2011, n. 209 del 2010, n. 24 del 2009, n. 170 del 2008 e n. 234 del 2007).
L’eventuale portata retroattiva della disposizione non è di per sé contraria a Costituzione, purché non collida con l’art. 25, secondo comma, Cost., non contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti e trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza (ex plurimis, sentenze n. 271 e 93 del 2011, n. 234 del 2007 e n. 374 del 2002).
Quanto a tali limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, attinenti alla salvaguardia di principi costituzionali, è utile ricordare il principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto d’introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti interessati all’applicazione della norma; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (ex plurimis, sentenze n. 209 del 2010 e n. 397 del 1994).
Nella fattispecie in esame la disposizione impugnata riqualifica, ora per allora, rapporti da lungo tempo instaurati, attribuendo loro una natura che in effetti non aveva mai trovato alcun riconoscimento giurisprudenziale nei quasi trent’anni di esistenza del SECIT. Dal senso letterale della disposizione interpretata e di quelle ad essa geneticamente collegate non si ricava, infatti, il significato attribuitole dalla disposizione impugnata, né esisteva contrasto giurisprudenziale circa la sua inascrivibilità al servizio onorario. Risulta leso, dunque, l’affidamento degli ispettori esterni, legittimato da una serie di chiari elementi sintomatici di natura normativa.
2.1. – Quanto al profilo della compatibilità della norma di interpretazione autentica con il dettato originale di quella riguardante l’abolizione del SECIT, occorre preliminarmente sottolineare come essa sia sopravvenuta a due anni di distanza dall’altra, senza tenere in alcun conto le varie e numerose disposizioni precedenti, le quali – durante la vigenza di detto Servizio – avevano disciplinato in modo incompatibile con la disposizione interpretativa dei rapporti con gli esperti esterni, le modalità del loro svolgimento, il trattamento economico e le relative incompatibilità.
Così, a titolo esemplificativo, per quanto riguarda lo stato giuridico, agli esperti del SECIT non appartenenti alla pubblica amministrazione si applicavano, indipendentemente dalla loro provenienza, le disposizioni in materia riguardanti gli impiegati civili dello Stato (art. 18, comma 3, del d.P.R. 27 marzo 1992 n. 287, recante «Regolamento degli uffici e del personale del Ministero delle finanze»). Agli stessi spettava anche un trattamento economico onnicomprensivo pari al trattamento previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro dei dirigenti di prima fascia, oltre ad una speciale indennità (art. 22, comma 3, del d.P.R. 26 marzo 2001 n. 107, recante «Regolamento di organizzazione del Ministero delle finanze»). La loro selezione era sempre avvenuta attraverso valutazioni di carattere tecnico professionale e il loro lavoro all’interno dell’amministrazione era caratterizzato da un inserimento negli uffici regolato da specifica e minuziosa disciplina. Infine, il relativo compenso era parametrato al trattamento economico della dirigenza pubblica.
Questi caratteri, se risultano compatibili sia con un rapporto di pubblico impiego a tempo determinato, sia con un rapporto di locazione d’opera e/o lavoro parasubordinato, non sono invece presenti nei rapporti di servizio di tipo onorario. Detta qualificazione giuridica comporta, tra l’altro, che: a) i funzionari onorari cessano immediatamente dall’ufficio se questo – per qualsiasi ragione – venga in seguito meno, senza che siano applicabili le norme del contratto di lavoro a tempo determinato o con durata minima garantita o di collaborazione in regime di para-subordinazione; b) il loro rapporto non sarebbe connotato da prestazioni corrispettive e conseguentemente non azionabile nei termini del giudizio a quo.
Proprio la sopravvenuta qualificazione del SECIT come servizio onorario – secondo quanto meglio specificato nel successivo punto 3.4. – risulta decisiva nel mutare il quadro del contenzioso in atto, escludendo l’applicabilità della disciplina dettata dagli artt. 1218, 1256 e 1463 cod. civ.
2.2. – Il fatto che il significato oggettivo della norma interpretata non risulta compatibile con quello attribuitole dalla norma interpretativa trova conferma nella giurisprudenza formatasi sul punto.
Occorre a tal fine premettere che i giudizi ingenerati dalle rivendicazioni degli esperti esterni dopo l’intervenuta soppressione del SECIT non hanno superato – al momento della decisione della presente questione – il primo grado, di modo che non si è venuto a manifestare, sul punto specifico, l’orientamento del giudice nomofilattico (le istanze degli ex esperti esterni del SECIT, discendenti dall’anticipata cessazione dei rispettivi incarichi, sono state oggetto di ripetuto vaglio giudiziario da parte del Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro).
Tutte le decisioni intervenute a ricostruire la natura del rapporto degli esperti esterni oscillano tra la configurabilità di un rapporto di pubblico impiego a tempo determinato e la collaborazione di tipo professionale, iure privatorum, rientrante nell’ambito della para-subordinazione, equiparata ex lege, quanto al trattamento economico ed al restante regime giuridico, agli incarichi a tempo determinato del personale dirigenziale dello Stato.
È opportuno, per inquadrare esattamente l’influenza della norma in esame sui giudizi pendenti, che, ai fini dell’applicazione dei principi desumibili dagli artt. 1218, 1256 e 1463 cod. civ., non assume rilievo la distinzione tra rapporto di pubblico impiego e para-subordinazione, poiché entrambe le fattispecie rientrano comunque in tipi contrattuali caratterizzati da prestazioni corrispettive assoggettabili al principio dell’indennizzo quando è provata l’utilizzabilità alternativa del prestatore. Al contrario, tale possibilità è preclusa in caso di servizio onorario.
2.3. – Strettamente legato alla qualificazione giuridica del rapporto degli esperti esterni del SECIT è il rilievo della lesione all’affidamento ingenerato dal pacifico trattamento giuridico ed economico riservato loro per circa trent’anni .
Da quanto argomentato, infatti, si ricava che la censura di violazione dell’art. 3, primo comma, Cost. è fondata sotto l’assorbente profilo della lesione del legittimo affidamento: la norma è sopraggiunta, infatti, solo quando il SECIT già non esisteva più ed i relativi rapporti di lavoro erano oramai esauriti, per riqualificarli retroattivamente, attribuendo loro la veste della funzione onoraria, mai precedentemente considerata. Il legislatore ha in tal modo leso le legittime aspettative degli esperti esterni, consistenti nel convincimento che i rispettivi incarichi restassero assoggettati alla generale normativa prevista dal codice civile in materia di contratti a prestazioni corrispettive.
2.4. – Le precedenti osservazioni chiariscono come la norma di interpretazione autentica in realtà abbia prodotto un effetto assolutamente innovativo su fattispecie chiuse, in pregiudizio a posizioni già maturate ed influenzando situazioni processuali altrimenti indirizzate in modo diverso.
La soppressione del SECIT per factum principis costituisce un evento che incide sul contesto organizzativo presso il quale era svolto il servizio. Pur non essendo imputabile la causa soppressiva all’amministrazione, nondimeno sotto il profilo contrattuale la risoluzione del rapporto non potrebbe conseguire senz’altro a tale evento, se esso non comportasse l’impossibilità di ogni proficuo riutilizzo dell’ispettore. Infatti, l’istituto dell’impossibilità sopravvenuta, di cui all’art. 1463 cod. civ., sarebbe applicabile alla descritta fattispecie di cessazione anticipata del contratto di lavoro a tempo determinato solo nel caso in cui l’evento generatore della cessazione rendesse assolutamente impossibile la prestazione lavorativa. Nel caso dei contratti a prestazioni corrispettive è infatti da escludere che il factum principis costituisca, di per sé, elemento sufficiente a configurare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, dal momento che ad esso si deve accompagnare la dimostrazione, da parte del datore di lavoro o del dante causa, dell’impossibilità di continuare a ricevere la prestazione (ex plurimis Cass. civ. n. 3276 del 2009, n. 14871 del 2004 e n. 4437 del 1995). Ove, al contrario, fosse possibile adibire il lavoratore a mansioni analoghe nella organizzazione aziendale “sopravvissuta” agli effetti del factum principis, la mancata utilizzazione dello stesso renderebbe fondate le ragioni del prestatore.
In sostanza, questo era il thema decidendum del giudizio instaurato dall’ispettore fino al momento in cui la sopravvenuta qualificazione di servizio onorario non ha alterato i presupposti normativi della controversia. Detta qualificazione, infatti, comporta che la cessazione anzitempo preclude l’obbligo risarcitorio a carico dello Stato. Al contrario, senza la nuova norma, sarebbe possibile, ove ne ricorrano i presupposti, l’accoglimento delle pretese economiche, stante l’applicabilità dell’art. 1463 cod. civ.
3. – In conclusione, la norma impugnata non ha attribuito alla disposizione interpretata un significato rientrante tra le possibili varianti di senso del testo originario.
Essa ha invece realizzato, con efficacia retroattiva, una sostanziale modifica della normativa precedente, così ledendo l’affidamento ingenerato dal trattamento riservato per circa trent’anni agli ispettori esterni del SECIT. Pertanto, deve essere dichiarata illegittima per contrasto con l’art. 3 Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1-ter, del decreto-legge 5 agosto 2010, n. 125 (Misure urgenti per il settore dei trasporti e disposizioni in materia finanziaria), aggiunto dalla legge di conversione 1° ottobre 2010, n. 163.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2013.