Sentenza n. 244 del 2012

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SENTENZA N. 244

ANNO 2012

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Alfonso                    QUARANTA                                                  Presidente

- Franco                     GALLO                                                             Giudice

- Luigi                        MAZZELLA                                                          

- Gaetano                   SILVESTRI                                                           

- Sabino                     CASSESE                                                             

- Giuseppe                 TESAURO                                                            

- Paolo Maria             NAPOLITANO                                                    

- Giuseppe                 FRIGO                                                                  

- Alessandro               CRISCUOLO                                                       

- Paolo                       GROSSI                                                                

- Giorgio                    LATTANZI                                                           

- Aldo                        CAROSI                                                               

- Marta                      CARTABIA                                                          

- Sergio                      MATTARELLA                                                    

- Mario Rosario          MORELLI                                                             

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 6, 7, comma 1, 16, 17, 22, 23, comma 1, 29 e 30 del decreto legislativo 8 ottobre 2011, n. 176 (Attuazione della direttiva 2009/54/CE, sull’utilizzazione e commercializzazione delle acque minerali naturali), promosso dalla Regione Toscana con ricorso notificato il 2 – 4 gennaio 2012, depositato in cancelleria il 10 gennaio 2012 ed iscritto al n. 2 del registro ricorsi 2012.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 9 ottobre 2012 il Giudice relatore Aldo Carosi;

uditi l’avvocato Marcello Cecchetti per la Regione Toscana e l’avvocato dello Stato Paolo Marchini per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.— Con ricorso notificato il 2 – 4 gennaio 2012 e depositato il 10 gennaio 2012, iscritto al n. 2 del registro ricorsi 2012, previa delibera della Giunta regionale del 27 dicembre 2012, n. 1245, la Regione Toscana ha impugnato in via principale gli articoli 6, 7, comma 1, 16, 17, 22, 23, comma 1, 29 e 30 del decreto legislativo 8 ottobre 2011, n. 176 (Attuazione della direttiva 2009/54/CE, sull’utilizzazione e la commercializzazione delle acque minerali naturali), per violazione degli articoli 117, primo e terzo comma, e 118 della Costituzione.

2. — La ricorrente sostiene che gli artt. 6 e 7, comma 1, nonché gli artt. 22 e 23, comma 1, disciplinando l’utilizzazione di una sorgente d’acqua minerale naturale ovvero di un’acqua di sorgente e stabilendo che detta utilizzazione sia subordinata all’autorizzazione regionale, rilasciata previo accertamento dei requisiti previsti dallo stesso decreto, violino gli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost.

2.1. — In particolare, è stabilito che detta utilizzazione e/o immissione in commercio sia subordinata ad autorizzazione regionale rilasciata previo accertamento che gli impianti destinati all’utilizzazione siano realizzati in modo da escludere ogni pericolo di inquinamento e da conservare all’acqua le proprietà, corrispondenti alla sua qualificazione, esistenti alla sorgente nonché – per le acque minerali – fatte salve le modifiche apportate con i trattamenti di cui all’art. 7, comma 1, lettere b), c) e d) dello stesso decreto; mentre – per le acque di sorgente – allorché sussistano le condizioni di cui all’art. 23, tenendo conto delle operazioni consentite dall’art. 24.

La Regione rileva che dette norme ripropongono integralmente quanto già previsto dal previgente decreto legislativo 25 gennaio 1992, n. 105 (Attuazione della direttiva 80/777/CEE relativa alla utilizzazione e alla commercializzazione delle acque minerali naturali).

A seguito del citato d.lgs. n. 105 del 1992, del regolamento (CE) 29 aprile 2004, n. 852/2004 (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sull’igiene dei prodotti alimentari) e del regolamento (CE) 29 aprile 2004, n. 853/2004 (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce norme specifiche in materia di igiene per gli alimenti di origine animale), la Regione Toscana aveva già provveduto con l’art. 41 della legge regionale 27 luglio 2004, n. 38 (Norme per la disciplina della ricerca, della coltivazione e dell’utilizzazione delle acque minerali, di sorgente e termali) e con decreto del Presidente della Giunta regionale 24 marzo 2009, n. 11/R (Norme per la disciplina della ricerca, della coltivazione e dell’utilizzazione delle acque minerali, di sorgente e termali), a disciplinare l’iter autorizzativo relativo all’avvio dell’attività di utilizzazione dell’acqua minerale e/o di sorgente attraverso lo strumento della denuncia di inizio di attività (DIA).

A giudizio della ricorrente, la disciplina oggetto del d.lgs. n. 176 del 2011 sarebbe riconducibile alle materie della tutela della salute e dell’alimentazione, entrambe di competenza legislativa concorrente delle Regioni ex art. 117, terzo comma, Cost.

2.2. — Inoltre, evidenzia la ricorrente, fin dal decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all’art. 1 della l. 22 luglio 1975, n. 382) sono state trasferite alle Regioni le funzioni amministrative relative alla materia «acque minerali e termali», le quali concernono, secondo il disposto degli artt. 50 e 61 del citato decreto, la ricerca e l’utilizzazione delle acque minerali e termali e la vigilanza sulle attività relative, ivi compresa la pronuncia di decadenza del concessionario, così come successivamente confermato dall’art. 22 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa).

Secondo la Regione, alla luce di quanto esposto, le norme impugnate, nella parte in cui disciplinano puntualmente gli iter autorizzativi per l’avvio dell’utilizzazione delle acque minerali e/o di sorgente, rappresenterebbero un inammissibile passo indietro rispetto alle attribuzioni regionali, così come delineate anche dal sistema normativo antecedente alla riforma del Titolo V della Costituzione (in tal senso, seppur in maniera inconferente, la Regione richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 200 del 2009), e lederebbero le prerogative regionali attualmente garantite dagli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost. in materia di tutela della salute e di alimentazione, con riferimento alle quali lo Stato dovrebbe limitarsi ad indicare i principi fondamentali.

2.3. — Sul punto ricorda infine la ricorrente come già in sede di Conferenza Stato-Regioni queste ultime avessero rilevato i suddetti profili di incostituzionalità, cui lo Stato aveva opposto quanto previsto all’Allegato II della direttiva 2009/54/CE, secondo cui «1. L’utilizzazione di una sorgente d’acqua minerale naturale è subordinata all’autorizzazione dell’autorità responsabile del paese in cui l’acqua è stata estratta, previo accertamento della sua conformità ai criteri di cui all’allegato I parte I». Secondo la ricorrente, tuttavia, la previsione indicata nell’Allegato II della direttiva 2009/54/CE in ordine alla necessità che siano previamente accertati i «criteri di cui all’allegato I, parte I» sarebbe riferita al procedimento di riconoscimento di acqua minerale naturale, senza che ciò contempli da parte dell’Autorità sanitaria locale specifici accertamenti di natura tecnico-professionale. Tale adempimento sarebbe quindi compatibile con lo strumento autorizzatorio regionale, che contempla la DIA e/o la segnalazione certificata di inizio attività (SCIA).

La previsione dell’autorizzazione formale contrasterebbe, peraltro, a giudizio della ricorrente, con il regime delle liberalizzazioni avviato con il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), in specie all’art. 3, e portato a compimento dal decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), di cui richiama l’art. 34.

In conclusione, secondo la ricorrente, le disposizioni in esame rappresenterebbero un’illegittima lesione delle prerogative regionali costituzionalmente garantite dagli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., in quanto disciplinerebbero in maniera puntuale il procedimento autorizzativo con riferimento a materie, quali la tutela della salute e l’alimentazione, di competenza regionale concorrente, in relazione alle quali lo Stato deve limitarsi, invece, a dettare esclusivamente i principi fondamentali.

3. — La Regione Toscana assume la violazione degli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., ad opera degli artt. 7, comma 1, lettera a), e 23, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 176 del 2011, in quanto prevedono tra i criteri per il rilascio dell’autorizzazione rispettivamente all’utilizzazione di una sorgente d’acqua minerale naturale ovvero all’immissione in commercio di un’acqua di sorgente l’accertamento che la sorgente o il punto di emergenza siano protetti contro ogni pericolo di inquinamento e che siano applicate, ai fini della tutela dei corpi idrici, le disposizioni di cui alla parte terza del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale).

3.1. — Ancorché in via meramente cautelativa la ricorrente censura gli articoli impugnati, rilevando che violerebbero la competenza regionale ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di tutela della salute e dell’alimentazione, ove il richiamo alla parte terza del d.lgs. n. 152 del 2006 dovesse essere interpretato nel senso di ritenere preclusa alle Regioni la previsione di misure di protezione più rigorose.

Infatti, la Regione evidenzia che la suddetta parte terza ed, in particolare, la norma dell’art. 94 del detto decreto legislativo, è relativa alle aree di salvaguardia delle acque superficiali e sotterranee destinate al consumo umano, acque disciplinate dal decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 31 (Attuazione della direttiva 98/83/CE relativa alla qualità delle acque destinate al consumo umano), per le quali è previsto un trattamento di potabilizzazione. Al contrario, per le acque minerali naturali e/o di sorgente non è ammesso alcun trattamento di potabilizzazione; pertanto, le misure del d.lgs. n. 152 del 2006 potrebbero, a giudizio della ricorrente, non essere sufficienti a garantire la protezione del giacimento di acque minerali. Non potrebbe pertanto legittimamente escludersi la possibilità per le Regioni di valutare, sulla base di criteri più restrittivi rispetto a quelli imposti dal d.lgs. n. 152 del 2006, l’identificazione delle necessarie aree di salvaguardia. A sostegno dell’assunto la ricorrente richiama quanto affermato da questa Corte nelle sentenze n. 307 del 2003 e n. 382 del 1999.

3.2. — In conclusione si assume la lesione delle competenze regionali costituzionalmente garantite dagli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost. in materia di tutela della salute ed alimentazione da parte degli artt. 7, comma 1, lettera a), e 23, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 176 del 2011, ove i richiamati limiti di cui alla parte terza del d.lgs. n. 152 del 2006 dovessero considerarsi inderogabili e preclusa quindi alle Regioni l’adozione di misure più rigorose.

4. — La Regione lamenta da ultimo l’illegittimità costituzionale degli artt. 16 e 17, nonché degli artt. 29 e 30 del d.lgs. n. 176 del 2011, nella parte in cui disciplinano puntualmente l’attività di vigilanza sulle’utilizzazione e sul commercio, rispettivamente delle acque minerali e delle acque di sorgente, per violazione degli artt. 117, primo e terzo comma, e 118 Cost.

4.1. — La ricorrente rileva che le disposizioni richiamate riproducono nella sostanza la disciplina contenuta nei previgenti d.lgs. n. 105 del 1992 (artt. 14 e 15) e decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 339 (Disciplina delle acque di sorgente e modificazioni al D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 105, concernente le acque minerali naturali, in attuazione della direttiva 96/70/CE) agli artt. 11 e 12. La riproposizione delle disposizioni di vigilanza così come previste dai detti decreti – disciplina peraltro non contenuta nella direttiva 2009/54/CE, a cui il d.lgs. n. 176 del 2011 dà attuazione – finirebbero per configurare, secondo la Regione, un doppio sistema di controllo: l’uno specifico sulle acque minerali naturali e/o di sorgente, disciplinato dal decreto legislativo in esame; l’altro sulla sicurezza alimentare, derivante dal regolamento (CE) 29 aprile 2004 n. 882/2004 (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo ai controlli ufficiali intesi a verificare la conformità alla normativa in materia di mangimi e di alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali), nel cui ambito di operatività andrebbero ricondotti anche i controlli in ordine alle acque di cui si tratta. Tale duplicazione, a giudizio della ricorrente, non troverebbe giustificazioni normative, amministrative, tecniche e sanitarie e determinerebbe un aggravio di costi per i sistemi sanitari regionali, senza alcun beneficio in punto di tutela della salute pubblica.

4.2. — Le norme censurate sarebbero, innanzitutto, lesive delle attribuzioni regionali, recando una disciplina puntuale delle funzioni di vigilanza attribuite da sempre alle Regioni, secondo quanto già rilevato, ed afferenti alla materia della tutela della salute e dell’alimentazione, in cui lo Stato potrebbe intervenire solo con disposizioni di principio. Di conseguenza le disposizioni impugnate si porrebbero in contrasto con gli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost.

4.3. — Inoltre secondo la Regione Toscana la disciplina in esame delinea un sistema di vigilanza e di controllo mutuato dalla previgente normativa statale, la quale non terrebbe conto della disciplina frattanto adottata a livello comunitario con il citato regolamento (CE) n. 882/2004, che reca la disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande, nonché con il regolamento (CE) 28 gennaio 2002, n. 178/2002 (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio, che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare), che prevede un procedimento di allerta per alimenti e mangimi, non conforme a quello previsto dal d.lgs. n. 176 del 2011.

A titolo esemplificativo la Regione Toscana evidenzia che negli impugnati artt. 17 e 30 si richiamano, in quanto compatibili, le norme vigenti in materia di disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande di cui al regolamento (CE) n. 882/2004 solo con riferimento alle modalità da osservare per le denunce all’autorità sanitaria e giudiziaria, per i sequestri da effettuare a tutela della salute pubblica e per le revisioni di analisi, che tuttavia rappresentano soltanto alcune delle attività riguardanti il controllo ufficiale; inoltre, gli artt. 16, comma 6 e 29, comma 6, del d.lgs. n. 176 del 2011 dispongono che nel caso in cui venga accertato che un’acqua minerale naturale e/o di sorgente, proveniente da uno Stato membro dell’Unione europea, non risulti conforme alle disposizioni del decreto o presenti un pericolo per la salute pubblica, è fatto obbligo alle autorità competenti di darne immediata comunicazione al Ministero della salute precisando i motivi dei provvedimenti adottati. Detta procedura contrasterebbe, secondo la ricorrente, con il sistema rapido di allerta per alimenti e mangimi vigente in ambito di sicurezza alimentare in virtù del citato regolamento.

Sotto questo profilo viene pertanto dedotta la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in quanto la normativa statale di cui si tratta contrasterebbe con quanto disposto a livello comunitario.

Anche in tal caso, come per il regime autorizzativo, la disciplina statale in esame differirebbe da quanto disposto dalla Regione Toscana, coerentemente con la citata normativa comunitaria, all’art. 46 della legge reg. Toscana n. 38 del 2004, poi specificato negli artt. 25 e seguenti del d.P.G.R. n. 11/R del 2009, che dispone: «1. Il controllo ufficiale sull’attività di utilizzazione delle acque minerali naturali e di sorgente è effettuato dalle aziende USL in conformità alle disposizioni del regolamento (CE) n. 882/2004 del Parlamento e del Consiglio, del 29 aprile 2004 relativo ai controlli ufficiali intesi a verificare la conformità alla normativa in materia di mangimi e di alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali. 1-bis. Con regolamento d’attuazione sono individuate le modalità di svolgimento del controllo ufficiale sulle acque minerali naturali e di sorgente, e in particolare: a) le procedure e le modalità del prelievo dei campioni delle acque minerali naturali e di sorgente e dell’esecuzione delle relative analisi compresi i criteri e le modalità per l’aggiornamento anticipato delle analisi in etichetta; b) le modalità di trasporto dei campioni e la definizione del personale competente all’esecuzione dei prelievi e delle ispezioni; c) le frequenze minime di controllo nelle varie parti della filiera; d) le modalità di effettuazione dei controlli, ivi compresi quelli analitici, e di ripartizione dei costi; e) i metodi analitici per la determinazione dei parametri chimici, chimico-fisici e microbiologici; f) le procedure per l’emissione del giudizio di accettabilità sui campioni prelevati e per l’invio dei referti analitici; g) le procedure di verifica della corretta applicazione del piano di autocontrollo».

4.4. — Pertanto gli artt. 16, 17, 29 e 30 del d.lgs. n. 176 del 2011 violerebbero gli artt. 117, primo e terzo comma, e 118 Cost.

5. — Con memoria di costituzione depositata in cancelleria il 13 febbraio 2012, previa delibera del Consiglio del ministri del 3 febbraio 2012, si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

5.1. — Il resistente nega in primo luogo la fondatezza delle censure di incostituzionalità formulate dalla Regione Toscana avverso gli artt. 6 e 7, comma 1, nonché gli artt. 22 e 23, comma 1, del d.lgs. n. 176 del 2011, per violazione degli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost. Rileva preliminarmente al riguardo che il d.lgs. n. 176 del 2011 è stato emanato in attuazione della delega conferita al Governo dalla legge comunitaria 4 giugno 2010, n. 96 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – legge comunitaria 2009), al fine di recepire nell’ordinamento interno la direttiva 2009/54/CE sull’utilizzazione e la commercializzazione delle acque minerali naturali, la cui ratio è quella di armonizzare le legislazioni degli Stati membri al fine di migliorare la libera circolazione nell’ambito del mercato interno, mediante la previsione di un uniforme e più stringente sistema di controllo delle acque, nell’ottica di una più efficace tutela della concorrenza, della salute pubblica e dell’ambiente. Le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 176 del 2011 rientrerebbero, pertanto, nell’ambito della potestà legislativa dello Stato senza impingere nella competenza delle Regioni in materia di acque minerali.

5.2. — A tale proposito ricorda come la stessa Corte costituzionale abbia chiarito nella sentenza n. 1 del 2010 che il bene della vita «acque minerali e termali» va considerato sotto due punti di vista: quello dell’uso o della fruizione, di competenza regionale, e quello della tutela ambientale delle acque stesse, che è invece di competenza esclusiva statale, ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

La tutela dell’ambiente costituirebbe infatti una «materia trasversale», nel senso che sullo stesso oggetto insistono interessi diversi: da un lato, quello teso alla conservazione dell’ambiente; dall’altro, quelli di natura diversa relativi alle sue utilizzazioni. In questa prospettiva, secondo il resistente, la disciplina diretta alla tutela del bene complessivo ambiente non potrebbe che essere unitaria e pertanto rimessa in via esclusiva al legislatore statale, con l’ulteriore conseguenza di prevalere su quella specifica e di settore dettata dalle Regioni o dalle Province autonome nelle materie di propria competenza. Secondo il resistente, in questo senso potrebbe legittimamente affermarsi che la competenza statale, quando sia espressione della tutela dell’ambiente, costituisca certamente un limite all’esercizio delle competenze regionali (a sostegno di tale conclusione sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 12 e n. 225 del 2009).

5.3. — Secondo il Presidente del Consiglio, analoghe osservazioni potrebbero svolgersi in punto di tutela del diritto alla salute, da considerarsi, più che una materia, un valore costituzionalmente protetto ed, in quanto tale, una sorta di materia trasversale in funzione della tutela di interessi unitari o, comunque, di esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale. A giudizio del resistente, infatti, l’unica strada per garantire una pari incisività del diritto della salute a livello nazionale sarebbe quella di demandare allo Stato il compito di individuare i requisiti unitari per il rilascio delle autorizzazioni all’utilizzazione delle acque minerali naturali e di sorgente, affidando alle Regioni quello di stabilire le modalità per l’accertamento della loro sussistenza. Il limite alla potestà legislativa primaria delle Regioni sarebbe quindi imposto in virtù degli obblighi di salvaguardia di standard uniformi di tutela dei beni primari.

5.4. — Secondo il resistente la Regione ritiene non necessaria un’autorizzazione regionale formale, come richiesta invece nelle censurate norme statali per l’utilizzazione di queste acque, in base ad un’errata lettura dell’Allegato II della direttiva 2009/54/CE.

La Regione richiama nel ricorso la disciplina dettata all’art. 41 della legge reg. Toscana n. 38 del 2004, ove si prevede che l’avvio di un’attività di utilizzazione dell’acqua minerale naturale di sorgente sia assoggettato ad una DIA, presentata al Comune, attestante il possesso dei requisiti previsti all’art. 42 e dal regolamento (CE) n. 853/2004, e che l’attività possa essere avviata dalla data di ricevimento della dichiarazione. Secondo la difesa erariale questa normativa regionale sarebbe incompatibile con quella statale contenuta nel d.lgs. n. 176 del 2011, che realizza l’attuazione della direttiva n. 2009/54/CE, riprendendo interamente la disciplina previgente di cui al d.lgs. n. 105 del 1992 e del d.lgs. n. 339 del 1999, a loro volta attuativi delle direttive n. 80/777/CEE e n. 96/70/CE, uniche fonti di riferimento per la disciplina delle acque di sorgente e minerali a livello nazionale e comunitario. La previsione del rigoroso regime dell’autorizzazione formale all’utilizzazione delle acque minerali naturali, nonché all’immissione in commercio delle acque di sorgente ai sensi degli artt. 6 e 7, comma 1, 22 e 23, comma 1, del d.lgs. n. 176 del 2011, oggetto di censura, costituirebbe pertanto adempimento di un preciso vincolo comunitario che escluderebbe margini di discrezionalità, ponendosi a tutela di valori assoluti e primari quali l’ambiente e la salute, che imporrebbero di dettare una disciplina uniforme valevole su tutto il territorio nazionale.

Sarebbe pertanto infondato il rilievo regionale per cui la direttiva comunitaria non prevedrebbe il necessario preventivo accertamento della sussistenza dei requisiti propri delle acque minerali naturali ai fini del rilascio dell’autorizzazione all’utilizzazione. E tale tesi sarebbe vieppiù smentita dall’Allegato II della direttiva 2009/54/CE. Secondo il resistente la Regione oblitererebbe la lettura del punto 4 dell’Allegato II della direttiva, ai sensi del quale: «l’autorità responsabile del paese di origine procede periodicamente a controlli: a) della conformità dell’acqua minerale naturale, di cui sia autorizzata l’utilizzazione della sorgente, alle disposizioni dell’Allegato I, parte I». Dalla corretta analisi di quest’ultima disposizione emergerebbe all’evidenza che il richiamo operato dal legislatore comunitario al punto I dell’Allegato II al «previo accertamento della sua conformità ai criteri di cui all’All. I parte I» sarebbe da interpretarsi nel senso che l’autorizzazione all’utilizzazione non possa essere rilasciata automaticamente, ogni qual volta l’acqua sia stata riconosciuta quale acqua minerale naturale o di sorgente, ma che al contrario, nonostante l’avvenuto riconoscimento, ciò possa avvenire esclusivamente previo accertamento dell’attuale sussistenza della conformità dell’acqua ai criteri previsti dalla legge per il rilascio della qualificazione. Tale interpretazione sarebbe confermata anche dalla lettura del quinto Considerando, per cui «le norme in materia di acque minerali naturali perseguono l’obiettivo prioritario di proteggere la salute del consumatore», obiettivo che si realizzerebbe pienamente solo attraverso un sistema autorizzativo preventivo, laddove la DIA o la SCIA, in una materia come quella delle acque minerali naturali o di sorgente destinate all’alimentazione umana, non potrebbero garantire la piena ed effettiva tutela della salute del consumatore, comportando il rischio di immettere in libera circolazione acque non conformi a legge, nel caso in cui dopo il riconoscimento statale, per una qualunque ragione, la fonte stessa sia pervasa da un agente inquinante. D’altra parte la proposta di inserimento in sede di Conferenza Stato-Regioni di un sistema di SCIA ai sensi dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), come quello adottato dalla Regione ricorrente (art. 41 della legge reg. Toscana n. 38 del 2004), in luogo del regime di autorizzazione, non è stata recepita in quanto comportante l’eliminazione della fase di controllo della conformità ai criteri richiesti dalla direttiva europea che si sarebbe tradotto in carente recepimento.

Alla luce delle osservazioni svolte emergerebbe, secondo il resistente, l’infondatezza dell’avversa censura di incostituzionalità degli artt. 6, 7 comma 1, 22 e 23 del d.lgs. n. 176 del 2011.

5.5. — Rileva il Presidente del Consiglio che secondo l’interpretazione accolta dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 79 del 2011 e n. 303 del 2003, il principio di sussidiarietà stabilito dall’art. 118 Cost. allo scopo di sovrintendere alla distribuzione delle funzioni amministrative fra Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni si espande a livello legislativo, nel senso che, tendendo tale principio ad una migliore distribuzione delle competenze tra Stato e Regioni, la sua effettiva attuazione postula l’assorbimento della competenza legislativa regionale in capo allo Stato ogni qual volta sussistano esigenze di unitarietà dell’ordinamento nazionale. Ne deriverebbe che la disciplina statale uniforme prevista dal d.lgs. n. 176 del 2011 vada considerata strettamente necessaria, sia perché di attuazione comunitaria, sia perché una diversa normativa regionale in materia di requisiti necessari al rilascio delle autorizzazioni per l’utilizzazione delle acque comporterebbe una disparità di trattamento tra gli utilizzatori, in violazione del principio costituzionale di uguaglianza, in ragione di un diverso livello di tutela del diritto alla salute e di tutela dell’ambiente.

La direttiva 2009/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sull’utilizzazione e la commercializzazione delle acque minerali naturali, di cui il d.lgs. n. 176 del 2011 costituisce attuazione, individuerebbe infatti quale suo obiettivo primario quello della libera circolazione delle acque minerali naturali e di sorgente all’interno del mercato unico, da raggiungersi attraverso il riavvicinamento della normativa dei diversi Stati membri in materia.

Pertanto l’individuazione di una disciplina uniforme dei requisiti per il rilascio dell’autorizzazione all’utilizzazione delle acque non costituirebbe una scelta irragionevole del legislatore nazionale, dovendosi al contrario ritenere l’unico strumento utilizzabile, in ossequio al disposto comunitario, per il raggiungimento degli scopi perseguiti, ossia la tutela dell’ambiente, della salute, dell’uguaglianza, intesa come diritto all’utilizzazione delle acque a pari condizioni per tutti gli utilizzatori, della libera circolazione delle merci sul suolo nazionale ed europeo.

6. — Quanto all’illegittimità costituzionale degli artt. 7, comma 1, lettera a), e 23, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 176 del 2011 per violazione dell’art. 117, terzo comma, e 118 Cost., secondo il resistente la questione dovrebbe ritenersi inammissibile.

6.1. — Difatti, dopo avere rilevato che per giurisprudenza consolidata della Corte costituzionale deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma solo qualora non sia possibile darne interpretazioni costituzionalmente orientate assume che la medesima giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che in materia di tutela dell’ambiente lo Stato detta una disciplina inderogabile in pejus, nel senso che stabilisce una tutela «adeguata e non riducibile» dell’ambiente, che vincola le Regioni nell’esercizio delle loro competenze, salva la facoltà per queste ultime di stabilire, per il raggiungimento dei fini propri delle loro competenze che vengono a contatto con quella dell’ambiente, livelli di tutela più elevati (sentenze n. 30 e n.12 del 2009; n. 105, n. 104 e n. 62 del 2008). Sulla base di tale presupposto la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibili interventi regionali volti a dettare prescrizioni e condizioni più rigorose nell’esercizio di attività industriali pericolose, in forza dell’obiettivo di tutela della salute (sentenza n. 407 del 2002).

6.2. — Rileva il resistente che la Regione richiama una giurisprudenza emessa in materia di inquinamento elettromagnetico allo scopo di affermare l’esistenza di un principio generale secondo il quale le Regioni, al fine di garantire la tutela della salute, possono derogare la normativa nazionale prevedendone una più stringente. Tale principio però, secondo l’Avvocatura, non potrebbe essere applicato in modo automatico al caso concreto. La disciplina dettata dal d.lgs. n. 176 del 2011 sarebbe certamente tesa alla tutela della salute, ma non solo. Infatti, in ossequio a quanto previsto dalla direttiva 2009/54/CE, tale disciplina perseguirebbe l’ulteriore fine di unificare la normativa nazionale in materia di acque minerali naturali e di sorgente in vista del riavvicinamento delle normative europee, considerato quale essenziale presupposto per il realizzarsi della libera circolazione delle merci. Sarebbe quindi evidente che consentire alle Regioni di derogare alla disciplina nazionale potrebbe avere quale risultato quello di mortificare lo scopo perseguito dal legislatore europeo con la direttiva 2009/54/CE, di cui il decreto legislativo in esame costituisce attuazione ed, indirettamente, potrebbe falsare la concorrenza tra gli utilizzatori delle sorgenti nelle diverse Regioni. Pertanto la resistente esclude l’illegittimità costituzionale degli artt. 7 e 23 del d.lgs. n. 176 del 2011 anche sotto tale profilo.

7. — Parimenti sarebbero infondate, secondo il resistente, le censure di illegittimità sollevate in ordine agli artt. 16 e 17, 29 e 30 del d.lgs. n. 176 del 2011.

7.1. — Premesso che le norme denunciate prevedrebbero un’intensa partecipazione degli organi regionali nelle varie fasi in cui si articolano le funzioni di vigilanza di cui alle norme censurate, il resistente assume che dovrebbero valere le considerazioni già svolte con riferimento al primo motivo di censura proposto dalla ricorrente: la trasversalità dei concetti di tutela della salute, dell’ambiente e di tutela della concorrenza, che rileverebbero anche rispetto alle attività di vigilanza sull’utilizzazione delle acque, giustificherebbe un intervento del legislatore nazionale limitativo della disciplina regionale, in nome di superiori esigenze di uniformità, fermo restando il rispetto dei principi di sussidiarietà, di differenziazione e di adeguatezza sanciti dall’art. 118, primo comma, Cost.

7.2. — Inoltre, la disciplina dell’attività di vigilanza e controllo sull’utilizzazione e sul commercio delle acque minerali e di sorgente troverebbe il proprio fondamento, a giudizio del resistente e diversamente da quanto ritenuto dalla Regione, direttamente nella direttiva 2009/54/CE ed in particolare nel già menzionato punto 4 dell’Allegato II, da cui emergerebbe l’interesse principale del legislatore comunitario a garantire che le particolari qualità delle acque di sorgente e minerali naturali siano sempre monitorate. Tale obiettivo sarebbe stato quindi recepito dal legislatore nazionale il quale, per le stesse esigenze di unitarietà di disciplina esposte con riferimento alle altre censure, avrebbe disposto un sistema di controllo unico per tutto il territorio nazionale.

Infine, secondo il Presidente del Consiglio i controlli in considerazione non potrebbero essere effettuati, così come ritenuto dalla Regione, secondo quanto disposto dai regolamenti (CE) n. 882/2004 e n. 178/2002. Tali fonti normative, infatti, non disciplinerebbero l’utilizzazione ed i controlli relativi alle acque destinate al consumo umano, che invece sono regolati dalla direttiva 3 novembre 1998, n. 98/83/CE (Direttiva del Consiglio concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano), non applicabile, per espressa previsione dell’art. 3 della stessa, alle acque naturali minerali e di sorgente. Ciò a riprova che queste ultime per la loro particolare composizione necessitano di una disciplina ad hoc, da rinvenirsi nella direttiva n. 2009/54/CE, correttamente trasposta dal d.lgs. n. 176 del 2011 che prevede particolari ed accurati controlli periodici. L’obbligo di eseguire tali controlli sarebbe stato già previsto anche al momento dell’entrata in vigore della legge reg. Toscana n. 38 del 2004 sia dal d.lgs. n. 105 del 1992 che dal d.lgs. n. 339 del 1999, i quali riprendevano fedelmente quanto disposto dalla direttiva n. 80/777/CE. Ancora una volta, quindi, secondo il resistente, dovrebbe negarsi l’illegittimità costituzionale delle disposizioni in esame ed, al contrario, ritenersi abrogata la legge reg. Toscana n. 38 del 2004 per contrasto con la normativa sovraordinata.

8. — Con memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, la Regione Toscana, nel richiamare integralmente le argomentazioni esposte nel ricorso introduttivo del giudizio, insiste per l’accoglimento del medesimo e rileva l’infondatezza delle argomentazioni esposte nell’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri.

9. — In particolare, quanto all’asserita legittimità costituzionale degli artt. 6, 7, comma 1, 22 e 23, comma 1, del d.lgs. n. 176 del 2011, che richiedono, ai fini dell’utilizzo delle acque minerali naturali e dell’immissione in commercio di quelle di sorgente, il rilascio di un’autorizzazione da parte delle Regioni, previo accertamento dei prescritti requisiti, la ricorrente ribadisce la sussistenza della competenza regionale in quanto – in applicazione del criterio della prevalenza – la finalità prioritaria perseguita dalla normativa impugnata sarebbe la tutela della salute umana, di competenza legislativa concorrente ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.

9.1. — A sostegno di tale assunto, si argomenta che la direttiva 2009/54/CE sull’utilizzazione e la commercializzazione delle acque minerali naturali, recepita dal d.lgs. n. 176 del 2011, richiama l’art. 95 TCE (recte : art. 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea , rubricato «Protezione della salute», il quale prevede che «ogni persona ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere le cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato della protezione della salute umana»). Nello stesso senso viene citato il quinto Considerando della direttiva 2009/54/CE, nel quale espressamente si afferma che «le norme in materia di acque minerali naturali perseguono l’obiettivo prioritario di proteggere la salute del consumatore».

9.2. — Secondo la ricorrente, inoltre, non potrebbe essere utilmente invocata la competenza legislativa statale in materia di ambiente, in quanto nel d.lgs. n. 176 del 2011, ed in particolare nella previsione che impone alle Regioni l’autorizzazione formale, non verrebbe in rilievo l’utilizzo dell’ambiente ai fini dell’emungimento delle acque, bensì l’impiego delle stesse ai fini della loro commercializzazione. Ne conseguirebbe che la decisione in ordine ai titoli abilitativi all’utilizzo delle acque minerali e di sorgente, che fanno parte del patrimonio indisponibile delle Regioni, spetterebbe alle stesse, ai sensi dell’art. 11, comma 5, della legge 16 maggio 1970, n. 281 (Provvedimenti finanziari per l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario).

9.3. — Sul punto osserva ancora la ricorrente come tale competenza sia stata da sempre allocata in capo alle amministrazioni regionali, richiamando in tal senso il decreto del Presidente della Repubblica 14 gennaio 1972, n. 2 (Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di acque minerali e termali, di cave e torbiere e di artigianato e del relativo personale), che all’art. 1 trasferisce alle Regioni le funzioni concernenti l’autorizzazione all’apertura ed alla messa in esercizio di stabilimenti di produzione ed alla utilizzazione di acque minerali naturali o superficiali (comma 1, lettera b); il d.P.R. n. 616 del 1977, in base al quale sono attribuite alle Regioni tutte le funzioni amministrative relative alla materia assistenza sanitaria ed ospedaliera, ivi comprese tutte quelle relative alle autorizzazioni ed ai controlli igienico-sanitari sulle acque minerali e termali, nonché sugli stabilimenti termali, ivi comprese le attribuzioni relative al rilascio delle autorizzazioni all’esercizio di stabilimenti di produzione e vendita di acque minerali naturali o artificiali, nonché alla autorizzazione alla vendita (art. 27, lettera f); la legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), che riserva alla competenza dello Stato le sole funzioni amministrative concernenti il riconoscimento delle proprietà terapeutiche delle acque minerali e termali e la pubblicità relativa alla loro utilizzazione a scopo sanitario (art. 6), previsione sostanzialmente confermata dall’art. 119 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59).

A giudizio della ricorrente, la nuova disciplina, imponendo alle Regioni il rilascio di un’autorizzazione formale, costituirebbe un’evidente lesione delle attribuzioni spettanti alle stesse, già prima della riforma del titolo V della Costituzione, in ordine ai procedimenti amministrativi per l’avvio dell’attività di utilizzo e commercializzazione delle acque minerali, così risolvendosi in un inammissibile passo indietro rispetto al nuovo ruolo delle Regioni nella Costituzione. Si cita a tal proposito la sentenza n. 200 del 2004, peraltro in modo inconferente.

9.4. — Questa tesi, secondo la Regione, sarebbe, del resto, confermata proprio dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2010, richiamata dalla controparte, ove, con riferimento al bene della vita «acque minerali e termali», si afferma che il riparto competenziale dipende dalla distinzione tra uso delle acque minerali e termali, di competenza regionale residuale, e tutela ambientale delle stesse, di competenza esclusiva statale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

Sotto tale profilo, rileva la ricorrente, le norme impugnate nel presente giudizio riguarderebbero proprio i profili relativi all’utilizzo delle acque minerali, disciplinando il procedimento amministrativo volto ad accertare i requisiti e le condizioni per l’avvio dell’attività di fruizione e commercializzazione di tale bene. Inoltre si ricorda che con riferimento alla materia del turismo, anch’essa di spettanza regionale, la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare che le norme riguardanti il procedimento amministrativo che consente l’avvio dell’esercizio di un agriturismo, nonché le comunicazioni delle eventuali variazioni dell’attività autorizzata, attengono unicamente ad aspetti relativi alla attività agrituristica che, in quanto tali, sono sottratti alla competenza legislativa dello Stato. Si citano in tal senso le sentenze n. 339 del 2007, n. 80 del 2012 ed, in modo inconferente, la sentenza n. 96 del 2006.

9.5. — Inoltre la Regione afferma che non potrebbe neppure ritenersi che sia la stessa direttiva 2009/54/CE, recepita dal d.lgs. n. 176 del 2011, a richiedere l’autorizzazione formale preventiva. Sul punto, la difesa statale avrebbe erroneamente invocato l’Allegato II, punti 1 e 4, della citata direttiva, poiché l’autorizzazione alla quale si fa riferimento in queste previsioni sarebbe quella relativa all’iter per il riconoscimento delle acque quali acque minerali e/o di sorgente. Questo assunto troverebbe conferma, secondo la ricorrente, nella semplice lettura dei criteri di cui all’Allegato I, parte I, richiamati al punto 1 dell’Allegato II. Infatti, oggetto principale della direttiva sarebbe il procedimento per il riconoscimento delle acque minerali e di sorgente, come risulterebbe proprio dalle disposizioni dell’art. 1 della stessa.

Anche i controlli periodici prescritti all’Allegato II, punto 4, della direttiva 2009/54/CE sarebbero quelli svolti in Italia dall’Amministrazione statale e si riferirebbero alla permanenza delle condizioni per il riconoscimento delle acque quali acque minerali e di sorgente. Detti controlli sarebbero disciplinati dall’art. 17, comma 3, del decreto ministeriale 17 novembre 1992, n. 542 (recte 12 novembre 1992) (Regolamento recante i criteri di valutazione delle caratteristiche delle acque minerali naturali), ove è contenuta una normativa specifica finalizzata alla verifica del permanere delle caratteristiche proprie dell’acqua minerale naturale.

L’autorizzazione formale preventiva che le Regioni, ai sensi della normativa impugnata, dovrebbero rilasciare sarebbe un provvedimento distinto, in quanto si porrebbe a valle del procedimento, del quale è titolare lo Stato, finalizzato al riconoscimento di queste acque e ne presupporrebbe la definizione positiva. Di conseguenza, la direttiva 2009/54/CE, contrariamente a quanto sostenuto dallo Stato, non prevedrebbe alcun obbligo di autorizzazione preventiva ai fini dell’uso e della commercializzazione delle acque minerali e/o di sorgente.

9.6. — Peraltro, secondo la ricorrente, l’obiettivo prioritario di proteggere la salute del consumatore di cui al d.lgs. n. 176 del 2011 potrebbe essere conseguito anche attraverso la DIA-SCIA. A tale proposito la Regione osserva che, proprio in attuazione dei regolamenti europei in materia di sicurezza alimentare, gli operatori di detto settore che intendano avviare la loro impresa utilizzano lo strumento della DIA-SCIA, fatti salvi gli stabilimenti per i quali siano vigenti le procedure di riconoscimento ai sensi del regolamento (CE) n. 853/2004.

In tal senso si porrebbe anche l’Accordo tra il Governo, le Regioni e le Province autonome relativo alle «Linee guida applicative del regolamento n. 852/2004/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sull’igiene dei prodotti alimentari», il quale al punto 2 del relativo allegato prevede che «tutte le attività di produzione, trasformazione, trasporto, magazzinaggio, somministrazione e vendita sono soggette a procedura di registrazione/DIA, qualora non sia previsto il riconoscimento ai sensi dei regolamenti nn. 852 e 853/2004».

Ne conseguirebbe, a detta della ricorrente, che la legge reg. Toscana n. 38 del 2004, nella parte in cui prevede la DIA per l’utilizzo di acque minerali e/o di sorgente, che hanno già ottenuto il riconoscimento ministeriale, e per la relativa commercializzazione, sarebbe del tutto coerente con l’impostazione data sia a livello comunitario che a livello nazionale alla regolamentazione del settore alimentare.

Per altro verso, rileva la Regione, come le principali evidenze di bibliografia internazionale ascrivano il contributo prioritario agli episodi di tossinfezioni alimentari a matrici diverse dalle acque minerali naturali e dalle acque di sorgente, nonostante la maggior parte delle attività che preparano, trasformano, somministrano tali matrici siano avviate con DIA, senza visita preventiva dell’azienda unità sanitaria locale (AUSL).

L’ordinamento europeo avrebbe allora fondato tutta la disciplina del settore alimentare sulla responsabilità primaria dell’operatore del settore alimentare, in applicazione delle procedure di autocontrollo secondo il sistema Hazard Analysis Critical Control Point (HACCP). Di conseguenza, secondo la ricorrente, affermare la necessità dell’autorizzazione regionale preventiva per le acque in questione non solo non attuerebbe un obbligo comunitario, ma contraddirebbe i principi e la ratio della normativa dell’Unione europea. In senso contrario, non potrebbe sostenersi che il d.lgs. n. 105 del 1992 e il d.lgs. n. 339 del 1999 già prevedevano per l’utilizzazione delle acque in questione l’autorizzazione formale, dal momento che entrambe queste fonti normative sono precedenti all’entrata in vigore dei regolamenti europei in materia di sicurezza alimentare, introduttivi del principio della DIA, nonché antecedenti alla riforma del titolo V della Costituzione.

9.7. — Da ultimo, le disposizioni impugnate non troverebbero giustificazione neppure alla luce del principio di sussidiarietà, pure invocato dalla difesa statale.

Secondo la ricorrente, infatti, le norme impugnate sarebbero incostituzionali in quanto finirebbero per realizzare una avocazione da parte dello Stato delle sole funzioni legislative, del tutto sganciate da quelle amministrative, che permangono nella titolarità delle Regioni. In tal modo le norme censurate attuerebbero un’ipotesi di chiamata in sussidiarietà non rispettosa delle condizioni individuate dalla giurisprudenza costituzionale per un legittimo esercizio di siffatta attrazione al livello centrale di governo. Difatti, sulla base di presunte esigenze di carattere unitario, le disposizioni impugnate attuerebbero la così detta chiamata in sussidiarietà delle sole funzioni legislative ed a prescindere da specifiche funzioni amministrative rispetto alle quali si ritenga inadeguato il livello regionale (nella memoria si richiama la sentenza n. 232 del 2011). In realtà, a giudizio della Regione, la suddetta tesi statale evocherebbe quel limite generale e di merito della legislazione regionale già rappresentato dalla tutela del così detto «interesse nazionale», criticato nel precedente assetto costituzionale e definitivamente superato con la riforma del titolo V della Costituzione.

9.8. — In conclusione, la ricorrente ribadisce che gli artt. 6, 7 comma 1, 22, e 23, comma 1, del d.lgs. n. 176 del 2011, costituiscono una lesione delle prerogative regionali costituzionalmente garantite dagli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., disciplinando in maniera puntuale il procedimento autorizzativo con riferimento a materie, quali la tutela della salute e l’alimentazione, di competenza concorrente, in relazione alle quali lo Stato deve limitarsi a dettare esclusivamente i principi fondamentali.

10. — Quanto agli artt. 7, comma 1, lettera a), e 23, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 176 del 2011, la Regione ne ribadisce l’illegittimità costituzionale per violazione delle competenze regionali in materia di tutela della salute ed alimentazione, ove il riferimento alla parte terza del d.lgs. n. 152 del 2006 non possa essere inteso solo come livello minimo di protezione da parte delle Regioni.

10.1. — In particolare, verrebbe in rilievo l’art. 94, comma 3, del citato decreto legislativo, che sarebbe chiaramente riferito alle acque destinate al consumo umano, disciplinate dal d.lgs. n. 31 del 2001, ovvero alle così dette acque potabili, di cui all’art. 74 d.lgs. n. 152 del 2006. Rileva la Regione, che proprio il d.lgs. n. 31 del 2001, chiarisce all’art. 3, comma 1, lettera a), che la disciplina ivi contenuta non si applica alle acque minerali naturali e medicinali riconosciute. Ne conseguirebbe che con specifico riferimento all’individuazione della perimetrazione della zona di tutela assoluta, i criteri da seguire per le acque minerali e di sorgente sarebbero necessariamente diversi rispetto a quelli definiti per le acque destinate al consumo umano. Queste ultime, infatti, sono prelevate da corpi idrici superficiali o sotterranei, classificati ai sensi dell’art. 80 del d.lgs. n. 152 del 2006, in base alla necessità qualitativa e quantitativa dei trattamenti chimici e fisici per la potabilizzazione dell’acqua; inoltre, per le stesse è prevista anche la permanenza nell’acqua erogata dagli acquedotti di una quantità residua di sostanze disinfettanti (cloro libero). Le acque minerali naturali, invece, secondo la definizione di cui all’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 176 del 2011, si distinguono dalle ordinarie acque potabili per la purezza originaria e la sua conservazione e, sia in base alle disposizioni europee (art. 4, comma 3, direttiva 2009/54/CE), sia in base alle disposizioni nazionali (anche quelle previgenti contenute nel d.lgs. n. 105 del 1992 e nel d.lgs. n. 339 del 1999), è vietata l’esecuzione di qualsiasi trattamento di potabilizzazione, l’aggiunta di sostanze battericide o batteriostatiche e qualsiasi altro trattamento suscettibile di modificare il microcosmo delle acque (art. 8, comma 4, e art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 176 del 2011).

Inoltre, la Regione rileva ancora che l’art. 144 del d.lgs. n. 152 del 2006 in materia di tutela ed uso delle risorse idriche espressamente afferma la necessità che le acque termali, minerali e per uso geotermico siano disciplinate da norme specifiche, nel rispetto del riparto di competenze costituzionalmente determinato e che la direttiva 2009/54/CE, nell’indicare le misure di protezione dei bacini imbriferi delle acque minerali naturali, non ha fatto in alcun modo riferimento, diversamente dal legislatore nazionale, alla disciplina prevista per le acque potabili.

10.2. — Da questi rilievi secondo la ricorrente si evincerebbe chiaramente che le misure di protezione che devono essere individuate ai fini della tutela del corpo idrico «acqua minerale naturale» – in particolare, la perimetrazione della zona di tutela assoluta – dovrebbero poter essere più rigorose rispetto alle analoghe misure individuate per i corpi idrici superficiali e sotterranei destinati alla produzione di acqua per il consumo umano. Non potrebbe pertanto legittimamente escludersi che le Regioni valutino, sulla base di criteri più restrittivi rispetto a quelli imposti dal d.lgs. n. 152 del 2006, l’identificazione delle necessarie aree di salvaguardia (sentenze n. 307 del 2003; n. 407 del 2002; n. 382 del 1999).

Specificamente, la perimetrazione della zona di tutela assoluta per le acque minerali e di sorgente, in assenza di trattamenti di potabilizzazione di dette acque, non potrebbe che essere individuata nello specifico dalla Regione sulla base delle caratteristiche idrogeologiche del bacino sotterraneo, ciò coerentemente con le competenze costituzionalmente garantite delle Regioni in materia di tutela della salute ed alimentazione, con le funzioni amministrative alle stesse spettanti già a partire dai trasferimenti operati con il d.P.R. n. 2 del 1972 e il d.P.R. n. 616 del 1977 in materia di acque minerali e di sorgente, afferenti al patrimonio regionale indisponibile.

10.3. — Sul punto la Regione ribadisce allora la lesione delle competenze regionali costituzionalmente garantite in materia di tutela della salute ed alimentazione ad opera delle norme censurate, nel caso in cui i richiamati limiti di cui alla parte terza del d.lgs. n. 152 del 2006 dovessero considerarsi inderogabili dalle Regioni in favore di misure più rigorose, con conseguente violazione degli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost.

11. — Quanto alla legittimità costituzionale degli artt. 16 e 17, nonché 29 e 30, che intervengono in materia di vigilanza sulla utilizzazione e sul commercio, rispettivamente, delle acque minerali e di sorgente, non sarebbe condivisibile, a giudizio della ricorrente, la tesi statale secondo la quale tale sistema di controllo ad hoc per dette acque risponderebbe ad esigenze di unitarietà della disciplina per tutti gli Stati membri, imposte dalla direttiva 2009/54/CE.

11.1. — In senso contrario la Regione rileva che i controlli cui si riferisce la direttiva 2009/54/CE all’Allegato II, punto 4, non riguarderebbero le regole e le procedure relative alle attività di controllo ufficiale o di vigilanza igienico-sanitaria nelle fasi di utilizzazione e di commercializzazione, vale a dire l’attività di vigilanza di competenza regionale.

Secondo la ricorrente, la citata direttiva europea si limiterebbe ad individuare i requisiti di cui all’Allegato I, parte I, che devono essere accertati dall’autorità responsabile di uno Stato membro, che nel caso dell’Italia è il Ministero della salute, ai fini del riconoscimento delle acque medesime, ivi compresi i controlli periodici, anch’essi di competenza ministeriale, finalizzati al mantenimento della condizione di riconoscimento, presupposto indispensabile per la utilizzazione e commercializzazione delle acque minerali e le acque di sorgente.

Anche sul punto, la Regione rileva che i controlli di cui al punto 4 dell’Allegato II della direttiva 2009/54/CE sono quelli svolti dal Ministero della salute ai sensi del già richiamato art. 17, comma 3, d.m. n. 542 del 1992, affinché possa essere considerato valido nel tempo il riconoscimento dell’acqua minerale. Per i profili relativi ai compiti e alla responsabilità dei soggetti coinvolti, alle modalità organizzative professionali e gestionali per assicurare l’affidabilità del controllo verrebbe in rilievo la competenza delle Regioni ai sensi e per gli effetti del trasferimento di funzioni operato con specifico riferimento a tale attività all’art. 1 del d.P.R. n. 2 del 1972 e all’art. 27 del d.P.R. n. 616 del 1977. Anche in questo caso tali attribuzioni sono state confermate dalla legge n. 833 del 1978 e dal d.lgs. n. 112 del 1998.

Sarebbe evidente, a giudizio della Regione, che le predette funzioni siano tutte riconducibili alle materie della tutela della salute e della alimentazione di competenza regionale ed il suddetto riparto sarebbe del tutto coerente con il quadro costituzionale successivo alla riforma del titolo V della Costituzione.

11.2. — La Regione contesta altresì la tesi della difesa erariale, secondo la quale il sistema dei controlli per le acque minerali e di sorgente non potrebbe essere ricondotto nell’ambito del più generale sistema di vigilanza e di allerta valido per il settore alimentare, in quanto trattasi di profili affatto analoghi. Tale assunto sarebbe infondato, in quanto sia in base alla legislazione comunitaria che a quella nazionale le acque minerali e di sorgente sarebbero agevolmente riconducibili nell’ambito del settore alimentare in base alla previsione dell’art. 2 del regolamento (CE) n. 178 del 2002, che definisce alimento qualsiasi sostanza o prodotto trasformato, parzialmente trasformato o non trasformato, destinato ad essere ingerito, o di cui si prevede ragionevolmente che possa essere ingerito, da esseri umani.

Sul punto rileva altresì la Regione che da un iniziale concetto di acqua minerale naturale legato necessariamente alle proprietà terapeutiche e favorevoli alla salute, come risulta dal regio decreto 28 settembre 1919, n. 1924 (Regolamento per l’esecuzione del capo IV della L. 16 luglio 1916, n. 947, contenente disposizioni sulle acque minerali e sugli stabilimenti termali, idroterapici e di cure fisiche e affini) e dal d.lgs. n. 105 del 1992, si è passati all’attuale definizione che prevede l’esistenza di acque minerali prive di qualsiasi proprietà favorevole alla salute, in base ad una concezione di tipo «alimentare» delle stesse, coerentemente con quanto statuito nella sentenza 17 luglio 1997, procedimento C-17/96, della prima Sezione della Corte di Giustizia delle Comunità europee.

Altra conferma dell’appartenenza delle acque minerali al settore alimentare discenderebbe, secondo la ricorrente, dalle ispezioni eseguite dal Food & Veterinary Office (F.V.O.) ovvero l’Ufficio della Commissione Europea che lavora per garantire sistemi di controllo efficaci nel settore alimentare e per valutare la conformità con le norme dell’UE all’interno dell’Unione stessa e nei Paesi terzi per quanto riguarda le loro esportazioni verso l’UE. Il F.V.O. a partire dal 2007 ha condotto un vasto piano di controlli proprio sulle acque minerali e per le altre acque imbottigliate, ai sensi dell’art. 45 del regolamento (CE) n. 882/2004, recante disciplina sui controlli ufficiali intesi a verificare la conformità alla normativa in materia di mangimi e di alimenti alle norme sulla salute e sul benessere degli animali.

A tal proposito la ricorrente segnala che una delle predette ispezioni (DG SANCO/2007-7193 11-15/0672007) è stata condotta anche in Italia, in particolare in Toscana, nel giugno del 2007 ed in quella sede gli ispettori europei hanno verificato il sistema di controllo ufficiale attuato a livello regionale nella materia delle acque minerali naturali, confermando la coerenza di quanto disposto dalla legge reg. Toscana n. 38 del 2004 con la disciplina dei controlli contenuta nei regolamenti (CE) n. 852/2004 e n. 882/2004. Inoltre i rilievi di non conformità delle acque minerali naturali imbottigliate sono inseriti nel sistema di allerta rapido per alimenti e mangimi, istituito ai sensi del regolamento (CE) n. 178/2002. La stessa direttiva 2009/54/CE nell’ottavo Considerando afferma che le acque minerali sono soggette per quanto riguarda l’etichettatura alle norme fissate dalla direttiva 20 marzo 2000, n. 2000/13/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità). L’art. 13 della citata direttiva inoltre prevede che le decisioni che possono avere effetti sulla salute pubblica sono adottate dalla Commissione previa consultazione dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare, mentre l’art. 14 dispone che la Commissione sia assistita dal Comitato permanente per la catena alimentare e la salute degli animali, istituito dall’art. 58 del regolamento (CE) n. 178/2002.

A livello nazionale la Regione Toscana rileva che una specifica scheda sulla vigilanza, sull’utilizzazione e sul commercio delle acque minerali è presente nella macroarea Alimenti del Piano Nazionale Integrato (PNI o MANCP), che descrive il «Sistema Italia» dei controlli ufficiali in materia di alimenti, mangimi, sanità e benessere animale e sanità delle piante ed è elaborato ai sensi dell’art. 44 del regolamento (CE) n. 882/2004.

Da queste osservazioni emergerebbe, secondo la ricorrente, che le acque minerali e di sorgente sarebbero già ricondotte nell’ambito del sistema di controllo e di allerta previsto dall’ordinamento europeo per la sicurezza alimentare, correttamente attuato in Toscana con la legge regionale n. 38 del 2004.

11.3. — La Regione rileva altresì che lo stesso legislatore statale agli artt. 17 e 30 del d.lgs. n. 176 del 2011 assoggetterebbe la vigilanza sulla utilizzazione delle acque minerali e sul commercio delle acque di sorgente alle disposizioni di cui al decreto legislativo 19 novembre 2008, n. 194 (Disciplina delle modalità di rifinanziamento dei controlli sanitari ufficiali in attuazione del regolamento (CE) n. 882/2004). Tale previsione sarebbe perfino pleonastica, in quanto il d.lgs. n. 194 del 2008 comprenderebbe nel proprio campo di applicazione le acque minerali e le acque di sorgente e quindi le considererebbe appartenenti all’ambito della sicurezza alimentare, come si evincerebbe dall’Allegato A, sezione 6, del medesimo decreto.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa statale, a giudizio della ricorrente solo l’applicazione delle disposizioni contenute nei regolamenti europei concernenti la sicurezza alimentare garantirebbe l’effettiva omogeneità a livello nazionale ed europeo delle regole inerenti il controllo ufficiale, assicurando sia la protezione della salute del consumatore sia lealtà ed equità nelle operazioni commerciali, secondo quanto periodicamente verificati dalla DG SANCO della Commissione Europea attraverso gli ispettori dell’FVO.

Inoltre la previsione da parte del d.lgs. n. 176 del 2011 di una disciplina di controlli specifica per le acque minerali e di sorgente si risolverebbe in una duplicazione di procedimenti, che si porrebbe in contrasto con i principi del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, in particolare con quanto disposto all’art. 14.

11.4. — In conclusione la Regione ribadisce che le disposizioni richiamate disciplinerebbero l’attività di vigilanza sulle utilizzazioni delle acque minerali naturali e sul commercio delle acque di sorgente, riproducendo nella sostanza la disciplina contenuta nei previgenti d.lgs. n. 105 del 1992 (artt. 14 e 15) e d.lgs. n. 339 del 1999 (artt. 11 e 12), disciplina peraltro assente nella direttiva 2009/54/CE, recepita con il d.lgs. n. 176 del 2011. In tal modo verrebbe configurato un doppio sistema di controllo, uno specifico sulle acque minerali e/o di sorgente, disciplinato dal d.lgs. n. 176 del 2011, ed uno sulla sicurezza alimentare, derivante dal regolamento (CE) n. 882/2004, nel cui ambito di operatività andrebbero ricondotti, a giudizio della ricorrente, anche i controlli in ordine alle acque di cui si tratta. Questa duplicazione sarebbe priva di giustificazione normativa, amministrativa, tecnica e sanitaria e determinerebbe un aggravio di costi per i sistemi sanitari regionali, senza alcun beneficio in punto di tutela della salute pubblica.

11.5. — Le norme censurate sarebbero lesive delle attribuzioni regionali, in quanto interverrebbero, con una disciplina puntuale, a regolamentare le funzioni di vigilanza attribuite da sempre alle Regioni ed attinenti alla materia tutela della salute e dell’alimentazione, in cui lo Stato può intervenire solo con disposizioni di principio. Vi sarebbe dunque contrasto con gli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost.

11.6. — Peraltro, la disciplina impugnata non terrebbe in alcun conto la disciplina introdotta a livello comunitario con il regolamento (CE) n. 882/2004 e con il regolamento (CE) n. 178/2002, con ulteriore violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

Considerato in diritto

1. — Con ricorso n. 2 del 2012 la Regione Toscana ha promosso questione di legittimità costituzionale degli articoli 6, 7, comma 1, 16, 17, 22, 23 comma 1, 29 e 30 del decreto legislativo 8 ottobre 2011, n. 176 (Attuazione della direttiva 2009/54/CE, sull’utilizzazione e la commercializzazione delle acque minerali naturali) per contrasto con gli artt. 117, primo e terzo comma, e 118 della Costituzione.

Le censure proposte sono tre.

Anzitutto la Regione lamenta che gli artt. 6 e 7, comma 1, 22 e 23, comma 1, del d.lgs. n. 176 del 2011, nella parte in cui disciplinano rispettivamente l’utilizzazione di una sorgente d’acqua minerale naturale e l’immissione in commercio di un’acqua di sorgente e stabiliscono che detta utilizzazione ovvero immissione siano subordinate all’autorizzazione regionale (rilasciata previo accertamento dei requisiti previsti dallo stesso decreto), contrastino con gli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., poiché pongono una disciplina puntuale nelle materie della tutela della salute e dell’alimentazione, in tal modo ledendo la competenza legislativa e amministrativa delle Regioni, loro spettanti in forza dei richiamati articoli della Costituzione.

In secondo luogo la ricorrente ritiene che gli artt. 7, comma 1, lettera a), e 23, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 176 del 2011 – nella parte in cui annoverano, tra i criteri per il rilascio dell’autorizzazione all’utilizzazione di una sorgente d’acqua minerale naturale ovvero all’immissione in commercio di un’acqua di sorgente, l’accertamento che la sorgente o il punto di emergenza siano protetti contro ogni pericolo di inquinamento e prevedono che siano applicate, ai fini della tutela dei corpi idrici, le disposizioni di cui alla parte terza del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) – contrastino con gli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., qualora il riferimento alla parte terza del d.lgs. n. 152 del 2006 sia interpretato non come livello minimo di protezione, bensì come preclusione per le Regioni di applicare misure di protezione più rigorose.

Infine, la Regione assume che gli artt. 16 e 17, nonché gli artt. 29 e 30 del d.lgs. n. 176 del 2011 – nella parte in cui disciplinano puntualmente l’attività di vigilanza sull’utilizzazione di una sorgente d’acqua minerale naturale ovvero sull’immissione in commercio di un’acqua di sorgente – violino gli artt. 117, primo e terzo comma, e 118 Cost., in quanto contrastanti con le prescrizioni comunitarie e disciplinanti con disposizioni di dettaglio le funzioni di vigilanza attribuite alle Regioni nelle materie concorrenti dell’alimentazione e della tutela della salute.

2. — La censura rivolta agli artt. 6 e 7, comma 1, e agli artt. 22 e 23, comma 1, del d.lgs. n. 176 del 2011 in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., non è fondata.

La ricorrente sostiene che gli artt. 6 e 7, comma 1, nonché gli artt. 22 e 23, comma 1, – nella parte in cui disciplinano l’utilizzazione di una sorgente d’acqua minerale naturale ovvero di un’acqua di sorgente, stabilendo che detta utilizzazione sia subordinata all’autorizzazione regionale, la quale è rilasciata previo accertamento dei requisiti previsti dallo stesso decreto – porrebbero in essere una lesione delle prerogative regionali costituzionalmente garantite, dal momento che disciplinerebbero in maniera puntuale il procedimento autorizzatorio con riferimento a materie, quali la tutela della salute e l’alimentazione, di competenza concorrente, in relazione alle quali il legislatore statale può dettare esclusivamente i principi fondamentali in conformità agli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost. Peraltro la Regione Toscana avrebbe già provveduto con legge regionale 27 luglio 2004, n. 38 (Norme per la disciplina della ricerca, della coltivazione e dell’utilizzazione delle acque minerali, di sorgente e termali) e relativo decreto del Presidente della Giunta regionale 24 marzo 2009, n. 11/R (Regolamento di attuazione della legge regionale 27 luglio 2004, n. 38 - Norme per la disciplina della ricerca, della coltivazione e dell’utilizzazione delle acque minerali, di sorgente e termali), a disciplinare il procedimento necessario per l’avvio dell’attività di utilizzazione dell’acqua minerale e/o di sorgente attraverso lo strumento della dichiarazione di inizio di attività (DIA), previsto all’art. 41 di detta legge.

L’Allegato II della direttiva 18 giugno 2009, n. 2009/54/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull’utilizzazione e la commercializzazione delle acque minerali naturali), nella parte in cui viene precisato che «1. L’utilizzazione di una sorgente d’acqua minerale naturale è subordinata all’autorizzazione dell’autorità responsabile del paese in cui l’acqua è stata estratta, previo accertamento della sua conformità ai criteri di cui all’allegato I parte I», dovrebbe essere inteso – ad avviso della Regione – in senso lato, in modo da ricomprendere tutti gli strumenti autorizzatori compresi quelli succedanei come la DIA e/o la segnalazione certificata di inizio attività (SCIA). Inoltre, secondo la ricorrente, la previsione contenuta nella parte I dell’Allegato II della direttiva 2009/54/CE, in ordine alla necessità che siano previamente accertati i «criteri di cui all’allegato I, parte I», sarebbe riferita al procedimento di riconoscimento di acqua minerale naturale, senza comportare per l’Autorità sanitaria locale specifici oneri di accertamento tecnico. La disciplina comunitaria sarebbe quindi compatibile con gli strumenti della DIA e della SCIA consentiti da quella regionale.

L’assunto della Regione non può essere condiviso.

L’art. 41, comma 1, della legge reg. Toscana n. 38 del 2004 prescrive che «l’avvio di un’attività di utilizzazione dell’acqua minerale e naturale di sorgente è assoggettato ad una dichiarazione di inizio di attività, presentata al comune e attestante il possesso dei requisiti previsti dall’articolo 42 e dal regolamento (CE) 852/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 sull’igiene dei prodotti alimentari. L’attività può essere avviata dalla data di ricevimento della dichiarazione».

Non rileva ai fini del presente giudizio la sostituzione dell’istituto della DIA (prescritta dall’art. 41 della legge regionale n. 38 del 2004) con quello della SCIA introdotto dall’art. 49 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), che ha modificato l’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), prevedendo al comma 4-bis, in luogo della dichiarazione di inizio di attività, la segnalazione certificata di inizio di attività. Il comma 4-ter del citato art. 49 prevede che le espressioni «segnalazione certificata di inizio attività» e «SCIA» sostituiscano rispettivamente «dichiarazione di inizio di attività» e «DIA», ovunque ricorrano, anche come parte di un’espressione più ampia e stabilisce che la normativa in materia di SCIA sostituisca direttamente quella della dichiarazione di inizio di attività recata da ogni normativa statale e regionale.

Quel che rileva in questa sede è che la procedura semplificata prevista dalla disciplina regionale non rispetta il principio, indicato dalla direttiva 2009/54/CE, del previo accertamento del rispetto dei criteri prescritti ai fini del rilascio dell’autorizzazione.

Peraltro, il vigente regime di liberalizzazione delle attività economiche, introdotto con l’art. 3 («Abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e delle attività economiche») del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e lo sviluppo), convertito dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, e completato dal decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, oltre a riaffermare la competenza statale in tema di disciplina ed utilizzazione di dette procedure semplificate, contiene una disposizione pienamente conforme alle scelte operate dal legislatore nel caso in esame. L’art. 34 del citato d.l. n. 201 del 2011 dispone infatti che «la disciplina delle attività economiche è improntata al principio di libertà di accesso, di organizzazione e di svolgimento, fatte salve le esigenze imperative di interesse generale, costituzionalmente rilevanti e compatibili con l’ordinamento comunitario, che possono giustificare l’introduzione di previ atti amministrativi di assenso o autorizzazione o di controllo, nel rispetto del principio di proporzionalità» (comma 2) e che «l’introduzione di un regime amministrativo volto a sottoporre a previa autorizzazione l’esercizio di un’attività economica deve essere giustificato sulla base dell’esistenza di un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario, nel rispetto del principio di proporzionalità» (comma 4).

A ben vedere si tratta di una fattispecie astratta pienamente comprensiva di quella venuta all’esame in questa sede. Il legislatore comunitario, nell’esercizio della propria discrezionalità normativa, ha ritenuto prevalente, rispetto a quella della semplificazione amministrativa dei procedimenti, la finalità di assicurare la tutela della salute dei consumatori di acque minerali. Nell’ordinamento nazionale analoga finalità costituisce un interesse generale, costituzionalmente rilevante, in quanto species del più ampio genus della salute del singolo individuo e della collettività di cui all’art. 32 Cost. e, nel caso di specie, anche pienamente conforme alla regola introdotta dal legislatore comunitario.

Peraltro, l’accertamento ai fini del riconoscimento dell’acqua minerale naturale - secondo la formulazione contenuta nella direttiva comunitaria – risulta procedimento distinto e propedeutico a quello richiesto ai fini dell’utilizzazione. Non può infatti ritenersi pleonastico l’inciso «previo accertamento della sua conformità ai criteri di cui all’Allegato I, parte I» contenuto nell’Allegato II (Condizioni di utilizzazione e di commercializzazione delle acque minerali naturali) della direttiva 2009/54/CE.

In senso conforme alle richiamate disposizioni comunitarie, il d.lgs. n. 176 del 2011, agli artt. 6 e 7, comma 1, e agli artt. 22 e 23, comma 1, prevede che l’utilizzazione delle acque minerali naturali e l’immissione in commercio delle acque di sorgente siano subordinate ad una previa autorizzazione rilasciata dopo aver accertato la ricorrenza delle condizioni ivi indicate, riproduttive di quelle contenute nella direttiva 2009/54/CE.

Sotto quest’ultimo profilo occorre ricordare che, come noto, ai sensi dell’art. 288 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) la direttiva vincola di regola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma ed ai mezzi. Dunque, è l’atto di diritto europeo secondario che determina gli obiettivi da perseguire da parte degli Stati membri al fine di realizzare un’armonizzazione della disciplina. La normativa nazionale di recepimento, contenuta nel d.lgs. n. 176 del 2011 e censurata dalla Regione Toscana, proprio perché in larga misura pedissequamente riproduttiva delle previsioni comunitarie – sintetiche per definizione quanto ai loro enunciati – contenute nella direttiva 2009/54/CE, detta nella specie una disciplina di principio della materia, comunque non modificabile dalla fonte regionale, pena la mancata o incompleta attuazione dell’atto comunitario.

Poiché tale normativa si pone quale disciplina di principio – senza peraltro modificare il riparto delle funzioni amministrative tra Stato, Regioni ed enti locali in materia, come delineato sia dalle disposizioni della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa) e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), che da quelle contenute nella legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), in particolare all’art. 118 Cost. – essa non appare in contrasto né con l’art. 117, terzo comma, né con l’art. 118 Cost.

3. — Parimenti, non è fondata la censura inerente alla pretesa illegittima applicazione – disposta dagli artt. 7, comma 1, lettera a), e 23, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 176 del 2011 – delle disposizioni contenute nella parte terza del d.lgs. n. 152 del 2006, in tema di protezione da pericoli di inquinamento dei corpi idrici interessati.

La Regione Toscana deduce l’eventuale illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., delle disposizioni impugnate, nella parte in cui prevedono, tra i criteri per il rilascio dell’autorizzazione, l’accertamento che la sorgente o il punto di emergenza siano protetti contro ogni pericolo di inquinamento e siano applicate, ai fini della tutela dei corpi idrici, le disposizioni di cui alla parte terza del Codice dell’ambiente (d.lgs. n. 152 del 2006). Ad avviso della ricorrente l’incostituzionalità sussisterebbe ove dette disposizioni dovessero essere intese non come livello minimo di protezione, bensì come preclusive dell’adozione – da parte delle Regioni – di misure di tutela più rigorose.

Sul punto è costante la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui sul medesimo bene giuridico unitariamente inteso (ambiente) coesistono la tutela (o conservazione), di competenza esclusiva dello Stato, e la fruizione (in particolare il governo del territorio), di competenza concorrente regionale. In tale prospettiva è stato affermato che le Regioni possono prevedere, nell’ambito dell’esercizio delle loro competenze, misure di tutela ulteriori e/o maggiori rispetto agli standards unitari così definiti per disciplinare il diverso oggetto delle loro competenze (sentenze n. 30 e n. 12 del 2009; n. 105 e n. 104 del 2008).

Ne consegue che le disposizioni di cui agli artt. 7, comma 1, lettera a), e 23, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 176 del 2011 devono essere intese, nella parte in cui rinviano alla parte terza del d.lgs. n. 152 del 2006, come prescrittive del limite minimo di protezione rispetto al quale le Regioni possono prevedere l’applicazione di misure più rigorose nell’ambito dell’esercizio delle loro competenze in materia di tutela della salute e dell’alimentazione. Le censure della ricorrente vanno dunque rigettate.

4. — Le questioni proposte nei confronti degli artt. 16 e 17 e degli artt. 29 e 30 del d.lgs. n. 176 del 2011 per violazione degli artt. 117, primo e terzo comma, e 118 Cost. sono in parte inammissibili ed in parte infondate.

4.1. — È inammissibile la censura delle richiamate norme posta in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., per carenza nella definizione del percorso logico seguito per ricondurre le norme impugnate al parametro costituzionale invocato.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’esigenza di un’adeguata motivazione a sostegno dell’impugnativa si pone «in termini perfino più pregnanti nei giudizi diretti che non in quelli incidentali» (sentenza n. 450 del 2005) e la questione di legittimità costituzionale sollevata in rapporto all’art. 117, primo comma, Cost. è ammissibile solo se «ridonda in una limitazione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni» (sentenza n. 225 del 2009).

Nel caso di specie il ricorso introduttivo della Regione Toscana risulta carente di argomentazioni a sostegno di tale ridondanza.

4.2. — Non sono fondate le questioni proposte nei confronti degli artt. 16 e 17 e degli artt. 29 e 30 del d.lgs. n. 176 del 2011 in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost. Secondo la Regione dette disposizioni disciplinerebbero le funzioni di vigilanza nelle materie dell’alimentazione e della tutela della salute, di propria competenza concorrente, in modo dettagliato.

Al contrario, le norme impugnate ribadiscono principi già contenuti nella normativa comunitaria di settore (regolamento CE 29 aprile 2004, n. 882/2004 – Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo ai controlli ufficiali intesi a verificare la conformità alla normativa in materia di mangimi e di alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali), quali la periodicità, l’estemporaneità e la generalità dei controlli. Va in proposito osservato che in più disposizioni della direttiva 2009/54/CE emerge l’esigenza di assicurare che le caratteristiche richieste ai fini del riconoscimento quale acqua minerale naturale persistano nel tempo (considerando n. 7: «è necessario vigilare affinché le acque minerali naturali conservino nella fase di commercializzazione, le caratteristiche in base a cui sono state riconosciute come tali»; art. 1, paragrafo 2: «il periodo di validità dell’accertamento di cui al secondo comma non può superare il periodo di cinque anni. Qualora l’accertamento sia rinnovato prima della fine di tale periodo non è necessario un nuovo riconoscimento ai sensi del primo comma»; Allegato II dove si prevedono controlli periodici da parte dell’autorità competente del Paese di origine della conformità dell’acqua minerale, di cui sia autorizzata l’utilizzazione della sorgente, alle disposizioni di cui all’allegato I, parte I, e dell’osservanza degli obblighi posti a carico dell’imprenditore al fine di preservare le caratteristiche microbiologiche delle acque stesse) e che tale circostanza sia acclarata con appositi controlli. Peraltro l’impugnato art. 29 fa esplicito riferimento, in ordine alla vigilanza sull’utilizzazione e sul commercio, alle competenze degli organi delle Regioni e degli altri enti locali in ossequio ai rispettivi ordinamenti. Non è quindi ipotizzabile alcuno straripamento della normativa statale dal proprio alveo costituzionale, limitandosi la stessa ad enucleare i principi entro i quali dovranno essere esercitate le competenze degli enti territoriali.

5. — Dalle considerazioni fin qui esposte deriva che le questioni di legittimità costituzionale promosse dalla Regione Toscana con il ricorso indicato in epigrafe devono essere dichiarate, nei termini di cui sopra, in parte non fondate e in parte inammissibili con riferimento ai parametri evocati.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli articoli 16, 17, 29 e 30 del decreto legislativo 8 ottobre 2011, n. 176 (Attuazione della direttiva 2009/54/CE, sull’utilizzazione e la commercializzazione delle acque minerali naturali), sollevata dalla Regione Toscana in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione con il ricorso in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 6, 7, comma 1, 16, 17, 22 e 23, comma 1, 29 e 30 del medesimo d.lgs. n. 176 del 2011, sollevate dalla Regione Toscana in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 118 della Costituzione con il ricorso in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 ottobre 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Aldo CAROSI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 31 ottobre 2012.