Ordinanza n. 254 del 2011

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ORDINANZA N. 254

ANNO 2011

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Alfonso               QUARANTA            Presidente

-      Alfio                  FINOCCHIARO         Giudice

-      Franco              GALLO                            "

-      Luigi                    MAZZELLA                 "

-      Gaetano            SILVESTRI                     "

-      Sabino              CASSESE                        "

-      Giuseppe          TESAURO                       "

-      Paolo Maria      NAPOLITANO               "

-      Giuseppe          FRIGO                             "

-      Alessandro       CRISCUOLO                  "

-      Paolo                GROSSI                           "

-      Giorgio             LATTANZI                      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 601 e 636 del codice di procedura penale, promosso dalla Corte d’appello di Trento nel procedimento penale a carico di S. A., con ordinanza del 20 ottobre 2010, iscritta al n. 406 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 luglio 2011 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto che la Corte d’appello di Trento, con ordinanza del 20 ottobre 2010, ha sollevato questione di legittimità costituzionale – per violazione degli artt. 3 e 111 della Costituzione – del combinato disposto degli artt. 601 e 636 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la persona offesa tra i soggetti cui deve essere notificato il decreto di citazione per il giudizio di revisione avverso un decreto penale di condanna;

che la Corte rimettente premette che, nel caso di specie, il giudizio di revisione è stato proposto avverso un decreto penale di condanna il cui procedimento, per sua natura, mai ha visto coinvolta la persona offesa dal reato;

che, se ciò può essere comprensibile e giustificato nell’ambito di un rito speciale connotato dalla omissione della fase dibattimentale come il procedimento per decreto (tutto giocato sull’integrale accoglimento delle richieste del querelante o denunciante), meno giustificato è che analoga obliterazione sia di fatto imposta dalle norme che regolano la vocatio in jus per il susseguente giudizio di revisione;

che, infatti, l’art. 636, primo comma, cod. proc. pen. prevede che il Presidente della Corte d’appello emetta decreto di citazione a norma dell’art. 601 cod. proc. pen. il quale non contempla la persona offesa dal reato tra i destinatari dell’atto;

che, secondo la Corte d’appello di Trento, sarebbe violato il principio del contraddittorio di cui all’art. 111 Cost. perché in questi casi è impedito alla persona offesa di conoscere e seguire la vicenda processuale innescata, con evidente pregiudizio anche degli interessi civili in caso di accoglimento dell’istanza di revisione;

che, inoltre, risulterebbe violato anche il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto la mancata previsione della citazione della persona offesa, in caso di revisione avverso decreto penale di condanna, determinerebbe «una disparità di trattamento, posto che si è in presenza di un giudizio di merito rispetto al quale non è stato assicurato il contraddittorio alla persona offesa, così esposta a decisione potenzialmente pregiudizievole di cui sia rimasta del tutto ignara»;

che, sempre secondo la Corte rimettente, la presente questione è diversa rispetto ai casi di revisione di sentenze che provengano da giudizi di merito per i quali l’avviso sia previsto ai fini di una corretta instaurazione del contraddittorio in primo grado, nei quali è giustificato che, se non sia sopravvenuta una costituzione di parte civile, non sia più dovuto un ulteriore avviso, tanto per il giudizio di appello, quanto per quello di revisione;

che è intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;

che l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità della questione per difetto di descrizione della fattispecie che non consente di verificare la sua effettiva rilevanza nel giudizio a quo;

che, infatti, nell’ordinanza di rimessione si affermerebbe in via del tutto generica e di mera ipotesi la possibilità di «un eventuale pregiudizio degli interessi civili in caso di accoglimento dell’istanza», senza tuttavia specificare, con un sufficiente grado di precisione, se effettivamente vi sia la sussistenza di concreti elementi idonei a fondare l’accoglimento della istanza stessa e, sotto altro profilo, senza indicare elementi tali da poter dare concretezza al paventato danno sofferto dalla persona offesa;

che la difesa dello Stato, a ulteriore conferma della assoluta genericità della prospettata questione di costituzionalità, osserva come il remittente neanche indichi quale sia la fattispecie penale violata per la quale è stato emesso il relativo decreto di condanna;

che, in ogni caso, la questione sollevata sarebbe infondata atteso che il remittente omette di considerare che il principio del contraddittorio non necessariamente deve trovare la medesima disciplina nei diversi giudizi penali previsti dal codice di procedura penale e che la specialità del rito in concreto di volta in volta azionato giustifica il ricorso a regole proprie tali da comportare una diversa modulazione del principio stesso, più o meno ampio in ragione delle esigenze sottese al rito scelto;

che, in questa prospettiva, l’analisi della disciplina codicistica del procedimento per decreto evidenzia la sussistenza di principi completamente autonomi, che caratterizzano in via del tutto peculiare il modello tipico, quale, ad esempio, quello contenuto nell’art. 460, quinto comma, del codice di rito, ove è previsto espressamente che il decreto penale di condanna, anche se divenuto esecutivo, non abbia efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo;

che tale assoluta peculiarità del procedimento per decreto si rinviene anche in relazione alla diversa attuazione del principio del contraddittorio, ivi sicuramente compresso rispetto ai moduli processuali tipici, atteso che il legislatore ha ritenuto non necessaria la presenza della persona offesa dal reato sul presupposto che gli interessi civili di cui la stessa è portatrice possano trovare adeguata tutela nella sede del giudizio civile;

che la medesima ratio sottesa alla scelta legislativa del procedimento per decreto è rinvenibile anche nella successiva ed eventuale fase della revisione del decreto di condanna, ritenendosi che la parte offesa abbia, qualora interessata, già esercitato l’azione in sede civile nel cui contesto è assicurato il contraddittorio tra il danneggiante ed il danneggiato;

che anche la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire che «in tema di provvedimenti soggetti a revisione […] non sussiste violazione dell’art. 24 Cost., considerato che alla persona offesa non può riconoscersi un diritto d’azione da cui derivi il dovere del giudice di decidere sulle sue domande» (Corte di cassazione, sez. VI penale, 4 febbraio 1997, n. 3556);

che, secondo la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, per tali motivi non sarebbe irragionevole la disciplina che esclude la citazione della persona offesa nel giudizio di revisione del decreto penale di condanna, atteso che tale soggetto può, o almeno avrebbe potuto, coltivare i suoi interessi civili in altro ambito processuale, ove il decreto penale non ha per legge efficacia di giudicato;

che, pertanto, la disciplina contenuta negli artt. 601 e 636 cod. proc. pen. sarebbe del tutto coerente con il complessivo sistema processuale, tanto che la partecipazione della persona offesa nel giudizio di revisione è esclusa sia nel caso in cui essa non si sia potuta costituire parte civile – ipotesi del procedimento per decreto – sia nell’ipotesi in cui essa non abbia ritenuto di costituirsi parte civile, nel caso di una sentenza emessa a seguito di giudizio di merito, in quanto in entrambe tali ipotesi l’esito del giudizio di revisione non inciderebbe sugli interessi civili della persona offesa, proprio perché essi sono stati eventualmente coltivati in altro ambito processuale e dunque sarebbe evidente l’infondatezza dell’ipotizzata violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.

Considerato che la Corte d’appello di Trento dubita, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 601 e 636 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la persona offesa tra i soggetti cui deve essere notificato il decreto di citazione per il giudizio di revisione avverso un decreto penale di condanna;

che il rimettente richiede a questa Corte una pronuncia additiva che includa la persona offesa dal reato fra i soggetti destinatari del decreto di citazione per il giudizio di revisione di decreti penali di condanna, nel caso in cui la richiesta del condannato non venga dichiarata inammissibile;

che, secondo la Corte d’appello di Trento, quando il giudizio di revisione è proposto avverso un decreto penale di condanna, il cui procedimento, per sua natura, non vede coinvolta la persona offesa dal reato, negare a quest’ultima la possibilità di partecipare al giudizio di revisione violerebbe il principio del contraddittorio e determinerebbe una disparità di trattamento con gli altri giudizi di merito;

che la questione è manifestamente infondata;

che la Corte ha già più volte rilevato che «l’eventuale impossibilità per il danneggiato di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, ancor prima, sul suo diritto di agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento del danno nella sede civile, traendone la conclusione che ogni “separazione dell’azione civile dall’ambito del processo penale non può essere considerata come una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale”, essendo affidata al legislatore la scelta della configurazione della tutela medesima, in vista delle esigenze proprie del processo penale» (da ultimo, ordinanza n. 339 del 2008; inoltre, sentenze n. 443 del 1990, n. 171 del 1982, n. 166 del 1975 e ordinanza n. 124 del 1999);

che, anche in questa sede, deve essere ribadito il rilievo, già altre volte sottolineato da questa Corte, secondo il quale «l’assetto generale del nuovo processo è ispirato all’idea della separazione dei giudizi, penale e civile, essendo prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo» (si vedano le sentenze n. 353 del 1994 e n. 192 del 1991);

che nessun pregiudizio agli interessi civili della persona offesa può derivare dall’eventuale accoglimento dell’istanza di revisione, in quanto, così come il decreto penale di condanna non ha effetto di giudicato nel giudizio civile o amministrativo (art. 460 cod. proc. pen.), allo stesso modo, ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen., l’eventuale sentenza di proscioglimento a seguito di accoglimento della richiesta di revisione non produce effetti nei giudizi civili o amministrativi eventualmente instaurati dalla persona offesa dal reato, non essendo stata quest’ultima posta nelle condizioni di costituirsi parte civile;

che, con riferimento al ruolo della persona offesa nel procedimento penale, indipendentemente dalla costituzione di parte civile, la Corte ha già affermato che la persona offesa, anche nel nuovo codice, conserva la veste di soggetto eventuale del procedimento o del processo, e non di parte (ordinanza n. 339 del 2008);

che, in particolare, si è detto che dall’intera impostazione del codice di procedura penale discende che alla persona offesa sono attribuiti poteri limitati e circoscritti rispetto a quelli riconosciuti al pubblico ministero o all’indagato e che è nella discrezionalità del legislatore disciplinare le modalità di partecipazione della persona offesa al procedimento penale;

che le pronunce della Corte che hanno riconosciuto una violazione del diritto di difesa della persona offesa per la sua mancata partecipazione al procedimento penale sono intervenute su norme che riguardavano fasi antecedenti l’apertura del processo e sono incentrate sul riconoscimento di poteri e facoltà funzionali alla tutela anticipata dei diritti riconosciuti alla parte civile sul presupposto della “potenzialità” che la persona offesa possa poi effettivamente costituirsi parte civile nel procedimento penale (sentenze n. 353 del 1991 e n. 559 del 1990 );

che è manifestamente infondata anche la questione relativa alla violazione del principio di eguaglianza per la disparità di trattamento tra diversi giudizi di merito;

che, infatti, il procedimento di revisione ha carattere eccezionale trattandosi di un mezzo straordinario di impugnazione «strutturato in funzione del solo proscioglimento della persona già condannata: obiettivo che si trova immediatamente espresso come oggetto del giudizio prognostico circa l’idoneità dimostrativa degli elementi posti a base della domanda di revisione, che l’art. 631 cod. proc. pen. eleva a condizione di ammissibilità della domanda stessa» (sentenza n. 113 del 2011);

che, dunque, è di tutta evidenza l’eterogeneità delle situazioni poste a raffronto, essendo la revisione un giudizio che, a differenza di tutti gli altri giudizi di merito, può concludersi solo con la conferma della sentenza o con il proscioglimento dell’imputato e nel quale non è possibile per la persona offesa dal reato costituirsi ex novo parte civile come necessariamente dovrebbe avvenire nel caso del giudizio di revisione di un decreto penale di condanna.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 601 e 636 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Trento con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 luglio 2011.