ORDINANZA N. 43
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Ugo DE SIERVO Presidente
- Alfio FINOCCHIARO Giudice
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), periodo aggiunto dall’art. 3-bis, comma 7, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005 n. 248, promosso dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia nel giudizio vertente tra Fortunato Michele e l’Agenzia delle entrate - ufficio di Luino, con ordinanza depositata il 3 luglio 2008, iscritta al n. 227 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2010 il Giudice relatore Franco Gallo.
Ritenuto che la Commissione tributaria regionale della Lombardia, con ordinanza depositata il 3 luglio 2008, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità del secondo periodo del comma 2 dell’art. 53 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), periodo introdotto dall’art. 30 [recte: 3-bis], comma 7, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, ed entrato in vigore il 3 dicembre 2005, il quale stabilisce che, «Ove il ricorso non sia notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, l’appellante deve, a pena di inammissibilità, depositare copia dell’appello presso l’ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata»;
che il giudice rimettente premette che, nella specie: a) un medico aveva impugnato davanti alla Commissione tributaria regionale la sentenza con la quale la Commissione tributaria provinciale di Varese aveva rigettato il ricorso da lui proposto avverso il provvedimento, emesso della competente Agenzia delle entrate, di diniego di rimborso dell’IRAP versata per gli anni dal 1998 al 2001; b) la copia dell’atto di appello era stata depositata presso la segreteria del giudice di primo grado in data 19 novembre 2007 «e cioè oltre i trenta giorni dalla data di notifica dell’appello all’Ufficio avvenuta il 17.10.2007»; c) l’appellata Agenzia delle entrate aveva eccepito l’inammissibilità dell’appello, ai sensi del secondo periodo del comma 2 dell’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, in ragione della tardività del suddetto deposito;
che su tali premesse il giudice a quo afferma che la disposizione censurata si pone in contrasto sia con l’art. 3 Cost. − sotto il profilo della violazione dei princípi di eguaglianza e di ragionevolezza − sia con l’art. 24 Cost., per violazione del diritto di difesa;
che, al riguardo, il rimettente muove dal presupposto interpretativo, comune a tutte le prospettate censure, che detta disposizione è priva di ratio, non identificabile neppure nell’esigenza di rendere nota alla segreteria del giudice di primo grado l’intervenuta proposizione dell’appello notificato senza il tramite dell’ufficiale giudiziario e di impedire, cosí, l’erronea declaratoria di esecutività di sentenze non ancora passate in giudicato;
che infatti, per il giudice a quo, anche tale ratio legis deve essere esclusa, in quanto: a) la eventuale, indebita declaratoria di esecutività sarebbe comunque revocabile; b) alla notificazione dell’appello potrebbe non seguire la rituale costituzione in giudizio dell’appellante, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata; c) quando «il legislatore ha voluto evitare infondate declaratorie di esecutività ha dettato la regola generale che la impugnazione venga proposta davanti al giudice a quo (art. 582, c. 1, c.p.p.)»; d) l’esigenza di rendere nota alla segreteria del giudice di primo grado l’intervenuta proposizione dell’appello è già soddisfatta dall’obbligo, posto a carico della segreteria del giudice di appello dal comma 3 dell’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, di richiedere alla segreteria del giudice di primo grado, subito dopo il deposito del ricorso in appello, la trasmissione del fascicolo processuale con la copia autentica della sentenza impugnata;
che, sulla base di tale presupposto interpretativo, il rimettente osserva, quanto alla dedotta violazione del principio di eguaglianza, che la censurata disposizione: 1) riguarda il solo processo tributario e non anche il processo civile, con conseguente ingiustificata «diversità di trattamento fra situazioni giuridiche eguali, ancorché verificatesi in differenti ordinamenti processuali»; 2) nell’àmbito del processo tributario, impone il deposito della copia dell’appello presso la segreteria dl giudice di primo grado soltanto nel caso della notificazione cosiddetta “diretta” del gravame (cioè effettuata a mezzo di plico raccomandato con avviso di ricevimento o mediante consegna all’ufficio del Ministero delle finanze o dell’ente locale) e non anche nel caso di notificazione effettuata tramite ufficiale giudiziario – caso in cui (sempre secondo il rimettente) né l’ufficiale giudiziario né l’appellante «sono onerati di comunicare l’avvenuta notifica alla segreteria della commissione provinciale» –, con conseguente ingiustificata disparità di trattamento di fattispecie omogenee;
che il rimettente, in forza del medesimo presupposto interpretativo, osserva altresí, quanto alla dedotta irragionevolezza, che la denunciata disposizione: a) commina la grave sanzione dell’inammissibilità dell’appello per l’omissione di un’attività processuale priva di qualsivoglia apprezzabile finalità, cosí violando il principio di proporzionalità della sanzione rispetto al bene o all’interesse alla cui tutela la norma è posta; b) proprio perché priva di una qualsiasi «ragion d’essere», omette di fissare un termine perentorio per il deposito della copia dell’appello presso la segreteria del giudice di primo grado; c) sancisce l’inammissibilità dell’appello in ragione non già del sopraggiunto disinteresse della parte al giudizio stesso – secondo quanto previsto dalle regole generali del processo –, ma della mera omissione di un adempimento privo «di utilità concreta o ipotetica», dal quale non è possibile desumere, data l’avvenuta attivazione del giudizio di gravame, alcuna volontà della parte di desistere dal processo;
che per il giudice a quo, infine – sempre sul presupposto che il menzionato deposito costituisca un incombente privo di qualsiasi ragion d’essere –, la disposizione censurata víola anche l’art. 24 Cost., perché la sanzione dell’inammissibilità dell’appello, prevista per il caso del mancato deposito della copia dell’atto di impugnazione, rappresenta un «impedimento all’esercizio del diritto di agire per la tutela dei propri diritti […], difendendosi in ogni stato […] e grado del procedimento»; diritto, questo, che non è circoscritto «a un generico diritto di accesso alla giurisdizione, ma si espande fino a ricomprendere il diritto alla sentenza»;
che, quanto alla rilevanza delle sollevate questioni, la Commissione tributaria regionale afferma che, per effetto della denunciata disposizione, l’appello di cui al giudizio principale dovrebbe essere dichiarato inammissibile;
che nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto, per infondatezza, di tutte le questioni;
che in particolare, secondo la difesa erariale, le questioni poste con riferimento alla violazione del principio di eguaglianza non sono fondate, perché: a) rientra nella discrezionalità del legislatore introdurre discipline differenziate nell’ambito dei diversi riti, sicché risulta legittima la differenza di disciplina tra l’appello «in sede di processo tributario rispetto a quello proposto in sede di processo civile»; b) anche nel processo tributario, nel caso di appello notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, quest’ultimo è tenuto a dare immediato avviso scritto al cancelliere del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 123, comma 1, delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, applicabile al processo tributario;
che, per l’Avvocatura generale dello Stato, anche le questioni poste con riferimento alla denunciata violazione del principio di ragionevolezza sono prive di fondamento, perché: a) la ratio della norma censurata è quella di consentire al giudice di primo grado «di acquisire tempestiva conoscenza dell’impugnazione prodotta ai fini della relativa annotazione, con conseguente impossibilità del rilascio di certificazioni di avvenuto passaggio in giudicato», e ciò anche prima della richiesta del fascicolo da parte del giudice del gravame; b) alla luce di tale finalità, non appare sproporzionata ed irragionevole la previsione della sanzione della inammissibilità dell’appello per il mancato deposito di copia del ricorso presso la cancelleria della Commissione tributaria provinciale;
che inoltre, ad avviso della difesa pubblica, è manifestamente infondata la questione posta in riferimento all’art. 24 Cost, perché «non si comprende come la previsione di un adempimento di semplice esecuzione (quale il deposito di un atto presso la segreteria del giudice di primo grado) possa costituire un ostacolo all’esercizio del diritto di azione e difesa».
Considerato che la Commissione tributaria regionale della Lombardia dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, della legittimità del secondo periodo del comma 2 dell’art. 53 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) − periodo introdotto dal comma 7 dell’art. 3-bis del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dal comma 1 dell’art. 1 della legge 2 dicembre 2005, n. 248 −, il quale, nel disciplinare la proposizione dell’appello innanzi agli organi della giurisdizione tributaria, stabilisce che, «Ove il ricorso non sia notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, l’appellante deve, a pena di inammissibilità, depositare copia dell’appello presso l’ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata»;
che, al riguardo, il rimettente muove dal presupposto interpretativo che la disposizione censurata è priva di ratio, non identificabile neppure nell’esigenza di rendere nota alla segreteria del giudice di primo grado l’intervenuta proposizione dell’appello e di impedire, in tal modo, l’erroneo rilascio, con riferimento a sentenze di primo grado non ancora passate in giudicato, di certificati di passaggio in giudicato o di copie spedite in forma esecutiva;
che infatti, per il giudice rimettente, tale ratio legis deve essere esclusa, perché: a) l’indebita dichiarazione di esecutività sarebbe comunque revocabile; b) alla proposizione dell’appello potrebbe non seguire la rituale costituzione in giudizio dell’appellante, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata; c) quando «il legislatore ha voluto evitare infondate declaratorie di esecutività ha dettato la regola generale che la impugnazione venga proposta davanti al giudice a quo (art. 582, c. 1, c.p.p.)»; d) l’indicata esigenza di rendere nota alla segreteria del giudice di primo grado l’intervenuta proposizione dell’appello è già soddisfatta dall’obbligo, posto a carico della segreteria del giudice di appello dal comma 3 dell’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, di richiedere alla segreteria del giudice di primo grado, subito dopo il deposito del ricorso in appello, la trasmissione del fascicolo processuale con la copia autentica della sentenza impugnata;
che l’indicato presupposto interpretativo è alla base di tutte le dedotte violazioni dei parametri costituzionali evocati, in quanto l’affermata inesistenza di una ratio renderebbe la disciplina denunciata non solo ingiustificatamente difforme da altre norme processuali concernenti l’impugnazione di provvedimenti giudiziari, ma anche irragionevole e lesiva, proprio per la sua inutilità, del diritto di difesa;
che, in primo luogo, il rimettente denuncia la violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., perché la disposizione denunciata, essendo priva di ratio, creerebbe una non giustificata disparità di trattamento: a) rispetto all’omologa disciplina del processo civile, nella quale l’onere del deposito di copia dell’atto di impugnazione presso la cancelleria del giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato non è previsto né per l’appello né per il ricorso per cassazione; b) nell’àmbito del processo tributario, tra coloro che notificano l’appello tramite ufficiale giudiziario – i quali non hanno l’onere di effettuare il menzionato deposito – e coloro che notificano l’appello «direttamente», ai sensi del comma 3 dell’art. 16 del d.lgs. n. 546 del 1992 (cioè a mezzo del servizio postale mediante spedizione dell’atto in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento, ovvero con consegna all’ufficio del Ministero delle finanze o dell’ente locale), i quali, invece, incorrono nella sanzione dell’inammissibilità dell’appello, nel caso in cui non abbiano adempiuto l’onere del deposito;
che, in secondo luogo, il rimettente denuncia la violazione dell’art. 3 Cost. per contrasto con il principio di ragionevolezza, in quanto la disposizione censurata: a) prevede l’inammissibilità dell’appello quale conseguenza del mancato compimento di un’attività processuale priva di ogni utilità e finalità e, pertanto, stabilisce una sanzione processuale la cui gravità non è proporzionata «al bene o all’interesse alla cui tutela la norma è posta»; b) proprio perché priva di una qualsiasi «ragion d’essere», omette di fissare un termine perentorio per il deposito della copia dell’appello presso la segreteria del giudice di primo grado; c) fa derivare l’inammissibilità dell’appello da un comportamento omissivo dal quale non è possibile desumere, data l’avvenuta attivazione del giudizio di gravame, alcuna volontà della parte di desistere dal processo;
che il giudice a quo denuncia, in terzo luogo, la violazione dell’art. 24 Cost., sotto il profilo che la norma censurata, prevedendo l’inammissibilità dell’appello per il mancato assolvimento di un incombente privo di qualsiasi utilità, costituirebbe impedimento all’esercizio del diritto della parte di agire per la tutela dei propri diritti e di ottenere una sentenza;
che le sollevate questioni sono manifestamente infondate;
che, innanzitutto, va rilevata l’erroneità del presupposto interpretativo da cui muove il rimettente, secondo cui la disposizione censurata sarebbe priva di ratio;
che, al riguardo, questa Corte ha già precisato che detta disposizione ha l’apprezzabile scopo di informare tempestivamente la segreteria del giudice di primo grado dell’appello notificato senza il tramite dell’ufficiale giudiziario e, quindi, di impedire l’erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza della Commissione tributaria provinciale (sentenza n. 321 del 2009);
che, contrariamente a quanto opinato dalla Commissione rimettente, tale finalità non è soddisfatta dall’obbligo, posto a carico della segreteria del giudice di appello dall’art. 53, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, di richiedere alla segreteria presso il giudice di primo grado la trasmissione del fascicolo processuale con la copia autentica della sentenza impugnata, «subito dopo il deposito del ricorso in appello»;
che, infatti, la suddetta richiesta viene avanzata dalla segreteria del giudice di appello solo «dopo» la costituzione in giudizio dell’appellante e, pertanto, non consente alla segreteria del giudice di primo grado di avere tempestiva notizia della proposizione dell’appello, considerando anche il tempo necessario a che essa pervenga alla segreteria della Commissione tributaria provinciale;
che, di conseguenza, tale richiesta «non è […] idonea ad evitare il rischio di una erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, limitandosi essa a consentire al giudice di secondo grado di ottenere la disponibilità del fascicolo in tempo utile per la trattazione della causa in appello» (citata sentenza n. 321 del 2009);
che l’applicabilità della disposizione censurata ai soli casi in cui la notificazione dell’appello non avvenga per il tramite dell’ufficiale giudiziario trova, poi, adeguata giustificazione nel fatto che, nei casi in cui la notificazione sia invece effettuata mediante ufficiale giudiziario, la tempestiva notizia della proposizione dell’appello è fornita alla segreteria del giudice di primo grado dallo stesso ufficiale giudiziario;
che, in proposito, l’art. 123 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile − applicabile al processo tributario in virtú del generale richiamo alle norme del codice di procedura civile, effettuato dal comma 2 dell’art. 1 del d.lgs. n. 546 del 1992 – stabilisce che «L’ufficiale giudiziario che ha notificato un atto d’impugnazione deve darne immediatamente avviso scritto al cancelliere del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata»;
che la facoltà di notificare l’appello «direttamente», ai sensi del comma 3 dell’art. 16 del d.lgs. n. 546 del 1992, rappresenta una caratteristica propria del processo tributario, introdotta dal legislatore in tale settore per ragioni di speditezza e semplificazione processuale, la quale non ha corrispondenza nel processo civile ordinario e, pertanto, giustifica una specifica disciplina, anche all’indicato fine di soddisfare l’esigenza di rendere la segreteria del giudice di primo grado tempestivamente informata della proposizione dell’impugnazione notificata con tali modalità;
che, inoltre, è agevole rilevare che: a) la denunciata disposizione, come già osservato, è diretta a ridurre il rischio del rilascio di erronee attestazioni di passaggio in giudicato delle sentenze delle Commissioni tributarie provinciali; b) tale rischio non è affatto escluso o ridotto dalla possibilità di revocare successivamente l’erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza; c) l’inammissibilità dell’appello per mancata o tardiva costituzione in giudizio dell’appellante (ai sensi degli artt. 53, comma 2, primo periodo, e 22, commi 1, 2 e 3, del d.lgs. n. 546 del 1992) può sempre essere dimostrata dall’interessato quando richieda l’attestazione del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado per la quale sia stato effettuato il deposito di cui alla disposizione censurata;
che una diversa disciplina legislativa sul punto, pur essendo astrattamente possibile, non sarebbe necessariamente piú razionale di quella censurata né, comunque, sarebbe costituzionalmente obbligata;
che da tali rilievi circa la sussistenza di un’apprezzabile ratio della disposizione scrutinata discende la manifesta infondatezza di tutte le censure prospettate dal rimettente;
che, piú in particolare, in ordine al dedotto contrasto con il principio di eguaglianza, il rimettente, nel denunciare un’ingiustificata diversità di trattamento tra processo civile e processo tributario, omette di considerare sia che il legislatore ha ampia discrezionalità nel conformare istituti e discipline processuali, nel limite (nella specie non superato) della non arbitrarietà e ragionevolezza (ex plurimis, sentenze n. 237 del 2007 e n. 341 del 2006; ordinanze n. 405 e n. 376 del 2007, n. 101 del 2006), sia che la peculiare facoltà di notificare l’appello «direttamente», ai sensi del comma 3 dell’art. 16 del d.lgs. n. 546 del 1992, propria del processo tributario rispetto a quello civile, giustifica la peculiarità della disciplina oggetto del presente giudizio;
che, in ordine alla dedotta disparità di trattamento, all’interno del processo tributario, tra le notificazioni dell’appello effettuate con il tramite dell’ufficiale giudiziario e quelle effettuate senza tale tramite, il rimettente omette di considerare che la diversità di disciplina trova adeguata giustificazione nella sopra indicata esigenza di fornire all’ufficio della segreteria del giudice di primo grado, nel caso di notificazione “diretta” dell’appello, le stesse informazioni che l’ufficiale giudiziario è obbligato a fornire a tale ufficio, in applicazione del citato art. 123 disp. att. cod. proc. civ., nel caso di notificazione dell’appello effettuata per suo tramite;
che, in ordine alla dedotta irragionevolezza della disciplina per l’asserita mancata previsione, da parte del legislatore, di un termine perentorio per il deposito nella segreteria della Commissione tributaria provinciale della copia dell’appello notificato «direttamente», deve ribadirsi (sentenza n. 321 del 2009) che, alla luce della sopra ricordata ratio di fornire alla segreteria del giudice di primo grado una tempestiva e documentata notizia della proposizione dell’appello, un termine perentorio per il deposito è sicuramente ricavabile, in via interpretativa, dal complesso delle norme in materia di impugnazione davanti alle Commissioni tributarie e che tale termine non può che identificarsi con quello stabilito per la costituzione in giudizio dell’appellante, ai sensi degli artt. 53, comma 2, e 22, commi 1 e 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 (deposito del ricorso in appello presso la segreteria della Commissione tributaria regionale entro trenta giorni dalla proposizione dell’appello stesso);
che, in ordine alla dedotta irragionevolezza della disciplina per la previsione dell’inammissibilità dell’appello, quale sanzione per un comportamento omissivo asseritamente irrilevante dal punto di vista processuale e non indicativo della volontà della parte di “desistere dal processo”, va obiettato che, in considerazione dell’individuata ratio di garantire uno spedito e corretto svolgimento del processo, tale sanzione, da un lato, risulta adeguata alla necessità di indurre l’appellante ad adempiere al richiesto onere di depositare copia dell’appello notificato «direttamente» e, dall’altro, consegue al mancato oggettivo assolvimento di tale onere, a nulla rilevando la volontà dell’appellante;
che infine, in ordine alla dedotta violazione dell’art. 24 Cost. sotto il profilo del pregiudizio al diritto di azione, l’accertata ragionevole funzione della norma censurata esclude che la sua applicazione ponga oneri o modalità tali da rendere estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento di attività processuale (con riferimento ad analoghe fattispecie, ex plurimis, sentenze n. 63 del 1977, n. 214 del 1974, n. 47 del 1964 e n. 113 del 1963).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – periodo introdotto dal comma 7 dell’art. 3-bis del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dal comma 1 dell’art. 1 della legge 2 dicembre 2005, n. 248 –, sollevate, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 febbraio 2010.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Franco GALLO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 febbraio 2010.