ORDINANZA N. 145
ANNO 2009REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZAnei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 146, primo comma, numeri 1) e 2), del codice penale, promossi dal Tribunale di sorveglianza di Venezia con ordinanze del 10 giugno e dell’11 agosto (3 ordinanze) 2008, rispettivamente iscritte ai nn. 325 e da 403 a 405 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 44 e 52, prima serie speciale, dell’anno 2008.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 1° aprile 2009 il Giudice relatore Paolo Maddalena.
Ritenuto che il Tribunale di sorveglianza di Venezia, con ordinanza emessa il 10 giugno 2008 (reg. ord. n. 325 del 2008), ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 27, terzo comma, e 30 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 146, primo comma, numero 2), del codice penale (Rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena), nella parte in cui non prevede che il giudice possa negare il differimento della pena quando lo ritenga non adeguato alle finalità previste dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione e la detenzione domiciliare non sia idonea a prevenire il pericolo di recidiva, sempre che l’espiazione della pena possa avvenire senza pregiudizio per le esigenze di tutela del rapporto del minore infante con la madre;
che il Tribunale rimettente afferma di essere investito dell’istanza di differimento dell’esecuzione in ordine alla pena inflitta con sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Padova in data 22 novembre 2007 per tentato furto aggravato in abitazione, il cui residuo è di un anno, sette mesi e quindici giorni, e che per tale titolo la condannata, che in data 11 aprile 2008 ha partorito un bambino, è già in stato di libertà a seguito del decreto interinale del magistrato di sorveglianza, emesso quando la donna si trovava ancora in stato di gravidanza;
che il Tribunale di sorveglianza premette che la condannata è una nomade di spiccata pericolosità sociale, più volte condannata per reati contro il patrimonio e, anche di recente, arrestata per tentato furto e sottoposta alla misura della custodia cautelare in carcere dopo che era stata scarcerata per effetto del provvedimento interinale emesso dal magistrato di sorveglianza;
che, ad avviso del rimettente, detta pericolosità esigerebbe, ai fini di un adeguato contenimento, l’applicazione di una misura detentiva, perché il richiesto differimento, ove concesso, sarebbe abusivamente utilizzato per commettere altri reati, senza alcun riguardo per le esigenze alla cui tutela il beneficio è preordinato, posto che già in passato la nascita dei primi due figli, avvenuta nell’anno 2005 e nell’anno 2006, non ha dissuaso la donna dal commettere delitti;
che, tuttavia, il giudice a quo afferma di non poter negare il differimento della pena, potendo al più disporre, quale misura sostituiva del richiesto differimento, anche in assenza di una richiesta in tal senso dell’interessata, la detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), per la quale difetterebbe però il requisito minimo necessario, ovvero un luogo idoneo all’esecuzione della misura (la condannata essendo senza fissa dimora);
che, in punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente afferma di condividere il principio secondo il quale, tendenzialmente, in un paese democratico la detenzione delle donne in gravidanza e delle madri che accudiscono figli in tenera età dovrebbe essere prevista solo “in ultima istanza”, e di essere consapevole del fatto che l’alternativa tra l’immediata esecuzione della pena o la sua temporanea inesigibilità a causa di situazioni soggettive, che il legislatore ritiene di qualificare come incompatibili con la carcerazione, non comporta soluzioni univoche sul piano costituzionale, dovendosi necessariamente ammettere spazi di valutazione normativa che ben possono contemperare l’obbligatorietà della pena con le specifiche situazioni di chi vi deve essere sottoposto;
che, secondo il giudice a quo, la previsione del rinvio obbligatorio per la condannata madre di infante di età inferiore ad un anno, là dove il differimento provvisorio disposto dal magistrato di sorveglianza si sia già rivelato non adeguato, sotto il profilo sia rieducativo che della prevenzione speciale, per l’abuso del beneficio concesso e la ricaduta nel crimine, violerebbe il principio della proporzionalità e di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, come pure il principio della progressività trattamentale;
che la strumentalizzazione dell’istituto del differimento (che da extrema ratio in alcuni casi diventa la regola) ha di fatto creato – osserva il rimettente – una sorta di immunità per le donne nomadi in età fertile, le quali possono dedicarsi indisturbate alle loro attività illecite, potendo confidare sul trattamento previsto dall’art. 146 cod. pen. per le donne in stato di gravidanza o madri di figli in tenera età; e si tratterebbe di un fenomeno imponente, considerato che generalmente si tratta di donne che iniziano a procreare precocemente, appena adolescenti, e che per le abitudini di vita non conoscono il fenomeno delle nascite ridotte;
che nel caso di specie tutte le finalità che la Costituzione assegna alla pena risulterebbero obliterate, con conseguente violazione del principio sancito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 306 del 1993: totalmente svilita sarebbe la finalità di prevenzione generale e di difesa sociale – finalità la cui realizzazione dipende non soltanto dalla minaccia legale della sanzione penale, ma anche e soprattutto dalla sua concreta esecuzione –, giacché la rigida e prevedibile sospensione del momento esecutivo esclude che la pena irrogata possa svolgere una funzione di intimidazione e dissuasione rispetto a possibili futuri comportamenti criminosi; sarebbe vanificato anche il profilo retributivo-afflittivo, posto che la rinuncia all’esecuzione (di fatto a tempo indeterminato) lascerebbe sostanzialmente impunito il reato commesso; infine, risulterebbero compromesse le finalità di prevenzione speciale e di rieducazione;
che, secondo il rimettente, la generalizzata ed automatica applicazione del trattamento di favore previsto dalla disposizione censurata, nell’assegnare un identico beneficio a condannate che presentino fra loro differenti stadi del percorso di risocializzazione e diversi gradi di pericolosità sociale, vulnererebbe, ad un tempo, non soltanto il principio di eguaglianza, finendo per omologare fra loro, senza alcuna plausibile ratio, situazioni diverse, ma anche la stessa funzione rieducativa della pena, posto che il riconoscimento di un beneficio che non risulti correlato alla positiva evoluzione nel trattamento comprometterebbe inevitabilmente l’essenza stessa della progressività, che costituisce il tratto saliente dell’iter riabilitativo;
che la norma denunciata configgerebbe con l’art. 3 Cost. anche per lesione del canone della ragionevolezza, giacché le ipotesi del differimento obbligatorio per la donna incinta o madre di figlio di età inferiore ad un anno sono le sole, tra quelle previste dall’art. 146 cod. pen., a non ammettere alcuna verifica in concreto sulla sussistenza di una effettiva situazione di pregiudizio agli interessi che la norma tende a tutelare o di contrarietà dell’esecuzione penale al senso di umanità, e ad avere una difforme regolamentazione in sede cautelare e in sede esecutiva;
che, difatti, nelle medesime condizioni (stato di gestazione e presenza di un figlio di età inferiore ad un anno) è consentito solo nella fase cautelare disporre la carcerazione, sia pure ove sussistano esigenze di eccezionale rilevanza (art. 275, comma 4, cod. proc. pen.): in presenza delle medesime esigenze di sicurezza sociale e delle medesime situazioni personali, l’ordinamento consente solo al giudice della cautela la salvaguardia delle prime, ove siano di eccezionale rilevanza, mentre dopo il passaggio in giudicato le stesse esigenze sarebbero postergate e nessuna verifica sarebbe consentita al giudice di sorveglianza in merito all’eccezionalità delle stesse e all’esistenza effettiva di pregiudizio per la madre e il minore;
che, del resto, anche in altri settori l’ordinamento, nel prevedere particolari forme di tutela della maternità e del minore nella fase immediatamente successiva al parto, non oblitera la salvaguardia delle esigenze di sicurezza sociale (si cita il divieto di espulsione della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi al parto, previsto dall’art. 19 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, che trova un limite nelle esigenze di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dello Stato);
che, ad avviso del rimettente, la particolare normativa di favore per le donne in stato di gravidanza e puerperio può indurre, come nella pratica avviene, «ad una strumentalizzazione a fini illeciti della maternità e del rapporto di filiazione con conseguente scelta della procreazione al solo fine di ottenere l’impunità di fatto dai delitti commessi»: di qui lo snaturamento della funzione dell’istituto, con lesione dell’art. 30 della Costituzione;
che nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la manifesta infondatezza della questione;
che la difesa erariale osserva che, ai sensi del secondo comma dell’art. 146 cod. pen., il differimento non opera o, se concesso, è revocato se la gravidanza si interrompe, se la madre è dichiarata decaduta dalla potestà sul figlio ai sensi dell’art. 330 del codice civile, se il figlio muore, viene abbandonato ovvero affidato ad altri, sempreché l’interruzione di gravidanza o il parto siano avvenuti da oltre due mesi;
che nel caso di specie, ad avviso dell’Avvocatura, sembrerebbero sussistere nei confronti della madre condannata tutti i gravi elementi richiesti per l’adozione, anche in via d’urgenza, da parte dell’autorità giudiziaria competente, del provvedimento di decadenza ex art. 330 cod. civ., con i conseguenti riflessi in ordine al diniego del differimento provvisorio dell’esecuzione della pena;
che la disposizione censurata, pertanto, non configgerebbe con i parametri costituzionali evocati, perché essa, in virtù dell’articolato sistema delineato al secondo comma, armonizzerebbe e bilancerebbe adeguatamente le esigenze di tutela del minore e del rapporto madre-figlio e quelle di sicurezza sociale connesse all’esecuzione penale;
che questioni identiche o analoghe, aventi ad oggetto anche l’art. 146, primo comma, numero 1), cod. pen., che dispone il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena se deve aver luogo contro donna incinta, sono state sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Venezia con altre tre ordinanze di analogo tenore emesse in data 11 agosto 2008 (reg. ord. n. 403, n. 404 e n. 405 del 2008);
che anche in questi tre giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per la manifesta infondatezza delle questioni.
Considerato che le questioni di legittimità costituzionale investono l’art. 146, primo comma, numeri 1) e 2), del codice penale, che dispone il rinvio obbligatorio della pena detentiva se deve aver luogo nei confronti di donna incinta o di madre di infante di età inferiore ad un anno;
che, ad avviso del giudice rimettente, la disposizione denunciata violerebbe gli articoli 3, 27, terzo comma, e 30 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che il giudice possa negare il differimento della pena quando lo ritenga non adeguato alle finalità di prevenzione generale e di difesa sociale e la detenzione domiciliare non sia idonea a prevenire il pericolo di recidiva, sempre che l’espiazione della pena possa avvenire senza pregiudizio per le esigenze di tutela dello stato di gravidanza o del rapporto del minore infante con la madre;
che il contrasto con l’art. 3 della Costituzione viene prospettato sotto un triplice ordine di profili: (a) perché il rinvio dell’esecuzione della pena detentiva in base ad un rigido automatismo non sarebbe temperato da alcuna valutazione di merito volta ad assicurare il perseguimento delle finalità costituzionali della pena e l'individualizzazione e proporzionalità del trattamento, così finendosi con l’assegnare il medesimo beneficio a condannate che presentano tra loro differenti stadi del percorso di risocializzazione e diversi gradi di pericolosità sociale; (b) perché, nella medesima situazione (gravidanza o presenza di un figlio di età inferiore ad un anno), solo nella fase cautelare sarebbe possibile disporre la carcerazione, sia pure ove sussistano esigenze di eccezionale rilevanza (art. 275, comma 4, cod. proc. pen.); e (c) perché sarebbero obliterate le esigenze di sicurezza sociale, in altri momenti invece tenute presenti dal legislatore (come avviene per il divieto di espulsione della donna straniera in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi al parto, divieto che trova un limite nelle esigenze di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dello Stato, secondo quanto è previsto dall’art. 19 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286);
che la disposizione denunciata violerebbe l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, perché sarebbe svilita la finalità di prevenzione generale e di difesa sociale (finalità la cui realizzazione dipende non soltanto dalla minaccia legale della sanzione penale, ma anche e soprattutto dalla sua concreta esecuzione), e sarebbe del tutto vanificato il profilo retributivo-afflittivo della pena, posto che la rinuncia alla relativa esecuzione lascerebbe sostanzialmente impunito il reato commesso;
che, infine, vi sarebbe un contrasto con l’art. 30 della Costituzione, perché «la particolare normativa di favore per le donne in stato di gravidanza e puerperio può indurre, come nella pratica avviene, ad una strumentalizzazione a fini illeciti della maternità e del rapporto di filiazione con conseguente scelta della procreazione al solo fine di ottenere l’impunità di fatto dai delitti commessi»;
che le questioni sono state sollevate con quattro ordinanze di tenore identico o analogo, riferite, con argomentazioni sovrapponibili, alcune, all’art. 146, primo comma, numero 2), cod. pen., altre, all’art. 146, primo comma, numero 1), cod. pen.: i relativi giudizi possono essere pertanto riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia;
che le questioni sono manifestamente infondate;
che la norma impugnata, nello stabilire una presunzione assoluta di incompatibilità con il carcere per la donna incinta o che abbia partorito da meno di un anno, è mossa dall’esigenza di offrire la massima tutela al nascituro e al bambino di età inferiore ad un anno (sentenza n. 438 del 1995), e mira ad evitare che l’inserimento in un contesto punitivo e normalmente povero di stimoli possa nuocere al fondamentale diritto tanto della donna di portare a compimento serenamente la gravidanza, quanto del minore di vivere la peculiare relazione con la figura materna in un ambiente favorevole per il suo adeguato sviluppo psichico e fisico;
che non irragionevolmente il legislatore, il quale gode di ampia discrezionalità al riguardo (sentenza n. 29 del 1984 e ordinanza n. 167 del 1983), ha ritenuto, con riferimento al periodo della gravidanza e al primo anno del bambino, che la protezione del rapporto madre-figlio in un ambiente idoneo debba prevalere sull’interesse statuale all’esecuzione immediata della pena;
che si è così inteso privilegiare esigenze di natura umanitaria ed assistenziale che hanno un sicuro fondamento costituzionale: nell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, il quale, prevedendo che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, impone di prestare particolare attenzione alla condizione della donna condannata che sia incinta o madre di un bambino in tenera età; e nell’art. 31 della Costituzione, che assegna alla Repubblica il compito di proteggere la maternità e l’infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo;
che il rinvio obbligatorio del momento esecutivo non esclude che la pena irrogata possa svolgere alcuna funzione di intimidazione e dissuasione e non ne vanifica pertanto il profilo retributivo-afflittivo: non ci si trova difatti di fronte ad una rinuncia sine die alla relativa esecuzione, ma solo ad un differimento per un periodo limitato; inoltre, negli stessi casi in cui potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio della esecuzione della pena ai sensi dell’art. 146 cod. pen., il tribunale di sorveglianza può – a norma dell’art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), introdotto dall’art. 4 della legge 27 maggio 1998, n. 165 – disporre, anche ex officio, l’applicazione della detenzione domiciliare, e così assicurare, anche nell’immediato, le istanze di difesa sociale, sempre che sia compiuta una idonea valutazione della compatibilità di quella misura alternativa con la condizione legittimante il rinvio;
che, comunque, anche nei casi nei quali la misura della detenzione domiciliare non sia in concreto praticabile, deve escludersi che il differimento della pena integri un fattore di compromissione delle contrapposte esigenze di tutela collettiva;
che, difatti, non è la pena differita in quanto tale a determinare una situazione di pericolo, ma, semmai, la carenza di adeguati strumenti preventivi volti ad impedire che la condannata, posta in libertà, commetta nuovi reati; tuttavia, se a colmare una simile carenza può provvedere soltanto il legislatore, deve escludersi che la eventuale lacunosità dei presidi di sicurezza possa costituire, in sé e per sé, ragione sufficiente per incrinare, sull’opposto versante, la tutela dei valori primari che la norma impugnata ha inteso salvaguardare (sentenza n. 70 del 1994);
che non costituisce idoneo tertium comparationis la disciplina dettata dall’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., il quale, mentre stabilisce come regola l’impossibilità della custodia cautelare in carcere quando imputate siano una donna incinta o una madre di prole di età inferiore a tre anni, consente tuttavia in via di eccezione l’applicazione di detta misura allorché «sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza»;
che vengono in rilievo, al riguardo, le diverse funzioni della pena e della custodia cautelare in carcere: soltanto le funzioni della pena possono subire una compressione, ed anche essere rimodulate, a seguito di una esecuzione procrastinata, tanto più che già la minaccia della pena irrogata con la sentenza divenuta irrevocabile svolge una funzione di controspinta e di inibizione al reato (sentenza n. 25 del 1979);
che non è pertinente il richiamo all’art. 19 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norma sulla condizione dello straniero), atteso che l’espulsione della straniera – consentita, per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, anche quando riguardi una donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvede – non costituisce una misura restrittiva della libertà personale;
che, quanto al dedotto contrasto con l’art. 30 della Costituzione, il pericolo che il rimettente paventa – l’utilizzazione della maternità come scudo al fine di ottenere il rinvio (a volte, in caso di gravidanze che si susseguono ravvicinate, anche molto lontano nel tempo) dell’esecuzione della pena – è adeguatamente bilanciato dalla circostanza che il secondo comma dello stesso art. 146 cod. pen. prevede espressamente, tra le condizioni ostative alla concessione del differimento dell’esecuzione della pena e tra quelle di revoca del beneficio, la dichiarazione di decadenza della madre dalla potestà sul figlio (che, ai sensi dell’art. 330 cod. civ., può essere pronunciata quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti con grave pregiudizio del figlio) nonché l’abbandono o l’affidamento del figlio ad altri;
che è evidente, pertanto, che ove il persistere della condotta criminosa da parte della donna condannata sia tale da farle trascurare i suoi doveri di madre, possono verificarsi le condizioni per la non operatività o per la revoca del differimento, la cui concessione o il cui ulteriore godimento si giustificano esclusivamente in chiave funzionalistica, se e finché ella sia sollecita nell’adempimento dei suoi doveri di assistenza morale e materiale verso il figlio.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 146, primo comma, numeri 1) e 2), del codice penale (Rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 30, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Venezia con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 maggio 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Paolo MADDALENA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 maggio 2009.