SENTENZA N. 438
ANNO 1995
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Prof. Vincenzo CAIANIELLO, Presidente
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 146, primo comma, numero 3, del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 13 ottobre 1994 dal Tribunale di sorveglianza di Palermo sulle istanze proposte da Corrao Antonino, iscritta al n. 15 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1995.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 28 settembre 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
1. - Il Tribunale di sorveglianza di Palermo solleva, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, primo e terzo comma, e 32 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 146, primo comma, numero 3, del codice penale, aggiunto dall'art. 2 del decreto-legge 14 maggio 1993, n. 139, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 1993, n. 222.
Il giudice a quo trae spunto dalle considerazioni poste a fondamento delle sentenze nn. 70 e 308 del 1994, ove venne affrontata la disciplina stabilita in favore dei condannati affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, per dedurre anzitutto un profilo di irragionevolezza della norma censurata, in quanto se la relativa funzione è quella di tutelare il bene della salute collettiva nelle carceri, tale scopo doveva essere perseguito nei confronti di tutti i condannati sieropositivi, in quanto è questa la condizione da cui dipende il rischio di contagio e non certo lo stadio raggiunto dalla malattia. Nell'ipotesi prevista dalla disposizione impugnata, poi, risulterebbero obliterate tutte le finalità che la Costituzione assegna alla pena. Totalmente svilita sarebbe, infatti, la funzione general-preventiva, giacchè la rigida e prevedibile sospensione del momento esecutivo esclude che la pena irrogata possa svolgere alcuna funzione di intimidazione e dissuasione. Del tutto vanificato sarebbe anche il profilo retributivo-afflittivo della pena, posto che la rinuncia sine die alla relativa esecuzione lascia sostanzialmente impunito il reato commesso, in una prospettiva di deresponsabilizzazione che si pone in contrasto con il principio sancito dall'art. 27, primo comma, della Costituzione. Allo stesso modo risulterebbe del tutto obliterata la finalità di prevenzione speciale e di rieducazione della pena, dal momento che la norma produce effetti meramente liberatori prescindendo del tutto dalle esigenze che appaiono riferibili al caso concreto. A ciò va aggiunto - osserva il giudice a quo - che "la violazione del personalismo e finalismo rieducativo della pena" appare tanto più grave in considerazione del fatto che il bene tutelato, vale a dire la salute collettiva carceraria, si presenta estraneo rispetto alle finalità costituzionali della pena, ponendo così la norma in contrasto con l'art. 27, primo e terzo comma, della Costituzione.
La disposizione impugnata genererebbe poi una ingiustificata disparità di trattamento tra i malati di AIDS socialmente pericolosi, in quanto, se gli stessi devono ancora espiare in tutto o in parte la pena, non possono essere sottoposti alla misura di sicurezza detentiva, mentre nell'ipotesi in cui abbiano già integralmente scontato la pena possono invece soggiacervi, giacchè non è prevista la sospensione della misura di sicurezza per motivi di salute.
Sarebbe poi violato l'art. 32 della Costituzione dal momento che il legislatore, "trasferendo il malato di AIDS dal carcere all'ambiente libero e salvaguardando il bene della salute collettiva carceraria, ha esposto a grave e maggior pericolo", perchè il condannato resterebbe totalmente incontrollato, il bene della salute della intera collettività e, dunque, un bene "quantitativamente maggiore" perchè riferibile ad un numero assai più elevato di soggetti.
2. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato chiedendo dichiararsi inammissibile o infondata la questione essendo la stessa identica ad altra già decisa con ordinanza n. 292 del 1993.
3. - Con ordinanza istruttoria del 2 giugno 1995, la Corte ha disposto richiedersi al Ministro di grazia e giustizia di fornire, entro novanta giorni dalla comunicazione, i seguenti dati:
- il numero dei condannati che hanno beneficiato del rinvio obbligatorio della esecuzione della pena a norma dell'art. 146, primo comma, numero 3, del codice penale o, trattandosi di sieropositivi, a norma dell'art. 147, primo comma, numero 2, del medesimo codice;
- il numero dei condannati che, dopo aver beneficiato di un rinvio obbligatorio o facoltativo dell'esecuzione della pena, in quanto affetti da infezione da HIV o trovandosi comunque nelle condizioni ivi previste, sono o sono stati sottoposti a procedimento penale per reati commessi dopo la sentenza di condanna;
- il numero delle persone affette da infezione da HIV che risultano in atto ristrette negli istituti penitenziari;
- il numero e la capienza di strutture adeguatamente attrezzate in ambito penitenziario in grado di accogliere e di prestare la necessaria assistenza alle persone affette da infezione da HIV;
- il numero e la capienza di altre strutture idonee ad accogliere ed assistere persone affette da infezione da HIV in stato di detenzione domiciliare.
4. - Il Ministero di grazia e giustizia ha fornito parte dei dati richiesti, con note del 2 e del 21 settembre 1995.
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di sorveglianza di Palermo, chiamato a pronunciarsi su di una richiesta di rinvio della esecuzione della pena formulata da un condannato affetto da AIDS conclamata, nuovamente sottopone all'esame della Corte questione di legittimità costituzionale dell'art. 146, primo comma, numero 3, del codice penale, ove è stabilito il rinvio obbligatorio della esecuzione della pena se questa deve aver luogo nei confronti di persona affetta da infezione HIV nei casi di incompatibilità con lo stato di detenzione ai sensi dell'art. 286bis, comma 1, del codice di procedura penale. Attento a rimarcare le considerazioni ed i rilievi svolti da questa Corte in particolare nelle sentenze n. 70 e n. 308 del 1994, il giudice a quo svolge una approfondita disamina dei numerosi e spesso drammatici problemi che ruotano attorno alla discussa norma oggetto di impugnativa, per giungere, all'esito di un articolato percorso argomentativo, alla individuazione di più profili di illegittimità costituzionale. A parere del Tribunale rimettente, infatti, risulterebbe innanzi tutto violato l'art. 2 della Costituzione in quanto, la "automatica, obbligatoria e indiscriminata concedibilità" del beneficio genera, come effetto sostanziale, quello di esporre ad elevato pericolo fondamentali valori della collettività e dei singoli, quali la vita, l'incolumità, il patrimonio e la stessa salute individuale e collettiva. Compromesso sarebbe anche l'art. 3 della Costituzione sotto un duplice profilo: per un verso, infatti, la norma impugnata contrasterebbe con il canone di ragionevolezza in quanto, se il suo scopo è quello di preservare la salute collettiva nelle carceri, l'identica disciplina dovrebbe trovare applicazione nei confronti di tutti i portatori del virus HIV, essendo questa, e non lo stadio raggiunto dalla malattia, a rappresentare la condizione soggettiva da cui dipende il rischio di contagio. Sotto altro profilo, osserva il giudice a quo, dalla disposizione oggetto di censura scaturirebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra malati di AIDS socialmente pericolosi, in quanto, mentre nei confronti dei condannati che debbono ancora espiare l'intera pena il rinvio della esecuzione impedisce l'applicazione della misura di sicurezza detentiva, ove invece la pena sia stata integralmente scontata la misura stessa può trovare applicazione non essendo prevista la relativa sospensione per motivi di salute. Risulterebbe poi vanificata "ogni dimensione retributiva-afflittiva della pena" giacchè, osserva il rimettente, "la rinunzia sine die all'esecuzione di essa lascia sostanzialmente impunito il reato commesso, in un'ottica di deresponsabilizzazione che contraddice il principio sancito dal primo comma dell'art. 27 della Costituzione", così come totalmente obliterata sarebbe anche la finalità di prevenzione sociale e di rieducazione della pena, giustificabile soltanto da parte di chi coltivi una "concezione pseudo-umanitaria, costituzionalmente inaccettabile, che vede nella condizione detentiva sempre e soltanto un momento repressivo e antieducativo e nella condizione libera sempre e comunque un momento rieducativo e risocializzativo". La disposizione impugnata si porrebbe infine in contrasto, secondo il giudice rimettente, anche con l'art. 32 della Costituzione, giacchè se da un lato la norma tende a salvaguardare il bene della salute nel consorzio carcerario, il trasferimento del condannato in una condizione di libertà in nessun modo coercibile finisce per esporre ad elevato rischio la salute della intera collettività, così da offendere l'identico bene ma in una dimensione "quantitativamente maggiore, essendo riferibile ad un numero enormemente più elevato di soggetti".
Conclusivamente, il giudice a quo ritiene tuttavia di dover dedurre, quale "profilo secondario di incostituzionalità della norma denunziata, ampiamente assorbito" dalle censure precedentemente svolte, un ulteriore aspetto che contribuirebbe a minare la legittimità della norma stessa: vale a dire la mancata previsione di qualsiasi possibilità di operare una "verifica giurisdizionale dell'inesistenza, nel caso concreto, delle condizioni che dovrebbero giustificare il sacrificio degli interessi postergati e la precedenza accordata all'interesse tutelato dalla norma, come nell'ipotesi di pena detentiva che devesi concretamente espiare in carcere adeguatamente attrezzato, con strutture sanitarie e logistiche interne e con collegamenti con strutture esterne, tali da rendere pienamente tutelati i beni della salute del singolo condannato e della collettività carceraria". A ben vedere è proprio l'ultimo dei profili che il giudice a quo affronta in chiave "secondaria" a rappresentare l'effettivo nucleo attorno al quale si snoda l'intera rassegna delle doglianze e a costituire, al tempo stesso, il petitum che il rimettente mostra di perseguire, giacchè è agevole avvedersi di come tutti i dubbi di legittimità che vengono sottoposti all'esame della Corte finiscano ineluttabilmente per radicarsi e trarre alimento proprio da quel "rigido automatismo giudiziale" che l'ordinanza di rimessione contesta e che caratterizza l'operatività della disposizione oggetto di impugnativa. Su tale aspetto, quindi, dovrà incentrarsi la disamina della questione, per verificare se e in che misura possano ritenersi tuttora validi i rilievi che indussero questa Corte a disattendere la fondatezza di analoghi quesiti.
2. - Come il giudice a quo puntualmente sottolinea, questa Corte è stata infatti chiamata più volte a pronunciarsi sul delicato tema del rinvio obbligatorio della pena nei confronti dei malati di AIDS, pervenendo a conclusioni condizionate dai rigorosi confini all'interno dei quali deve svolgersi lo scrutinio di costituzionalità. Nella sentenza n. 70 del 1994, infatti, non si mancò di rilevare che l'alternativa tra immediata esecuzione della pena detentiva o la sua temporanea (r)inesigibilità> a causa di condizioni di salute che il legislatore stesso ritiene di qualificare come incompatibili con la detenzione, non comporta soluzioni univoche sul piano costituzionale, "dovendosi necessariamente ammettere spazi di valutazione normativa che ben possono contemperare l'obbligatorietà della pena con le specifiche situazioni di chi vi deve essere sottoposto". Nella stessa sentenza si auspicò un tempestivo intervento del legislatore che adeguatamente salvaguardasse le fondamentali esigenze di tutela della collettività. Al fondo della normativa censurata si individuò, dunque, sulla base di quanto espressamente affermato nella relazione accompagnatoria del disegno di legge di conversione del decreto- legge n. 139 del 1993 (sesto, dopo una serie di precedenti decreti-legge tutti decaduti), il valore della salute nel particolare consorzio carcerario come bene da porre a raffronto con gli altri coinvolti, un bene, per di più, la cui tutela assumeva peculiare risalto in considerazione della "eccezionalità" che il fenomeno dell'AIDS presentava in sede penitenziaria. Concetti, questi, che sono stati poi ribaditi nella sentenza n. 308 del 1994, ove si osservò come il binomio (r)carcere-malati di AIDS> fosse stato normativamente dissolto sulla base di "un presupposto di fatto non valutabile in astratto: vale a dire l'eccezionale situazione di pericolo per la salute pubblica nel contesto delle carceri dovuta a due fenomeni di (r)concentrazione> fra loro interagenti, quali sono, da un lato, l'alto numero di detenuti all'interno degli istituti e, dall'altro, la massima presenza, fra questi, di soggetti a rischio", giustificandosi, così, una disciplina "che assume i connotati sostanziali di ius singulare". Dunque, un regime profondamente derogatorio, il quale trova la propria ragion d'essere soltanto se riferito ad un quadro di eccezionalità che, per esser tale, deve necessariamente correlarsi ad una situazione di emergenza che qualunque società civile è portata ad apprezzare come fenomeno per sua natura contingente e, quindi, temporaneo.
Ebbene, lungi dal recepire gli auspici di questa Corte e delle non poche voci levatesi nel medesimo senso, il legislatore ha omesso di riequilibrare il sistema lasciandolo sbilanciato sul piano della doverosa salvaguardia delle esigenze di sicurezza collettiva, così finendo per accreditare l'opinione di quanti hanno individuato nei beneficiari di una disciplina, già in sè fortemente discussa sul piano della validità delle stesse premesse scientifiche da cui muove, una singolare categoria di "penalmente immuni", senza che a ciò neppure corrisponda una verifica in concreto circa l'effettiva rispondenza di un siffatto regime alle reali esigenze della salute, individuale e collettiva, che pur dovrebbero costituirne il nucleo portante. L'assenza di iniziative intese a pervenire ad una più adeguata ponderazione dei numerosi principii costituzionali che il giudice a quo ha puntualmente passato in rassegna, denota, dunque, come l'inerzia del legislatore abbia finito col trasformare in "regime ordinario" quella che negli intenti originari doveva essere una disciplina derogatoria fondata sulla eccezionalità della situazione. Una inerzia, quella di cui si è detto, alla quale si sono poi venute a sovrapporre, amplificandone gli effetti negativi, ulteriori inadempienze che hanno finito per compromettere ulteriormente la perdurante coerenza delle scelte normative che vengono qui in discorso. Così, privo di attuazione è rimasto l'art. 4 del decreto-legge n. 139 del 1993 (convertito, anche per questa parte, dalla legge 14 luglio 1993, n. 222), ove si rinviava alla emanazione di un apposito decreto "la sperimentazione di un programma di screening per HIV, in forma anonima, negli istituti penitenziari", come del pari inadeguata è stata la concreta realizzazione, sul piano strutturale, della nutrita gamma di presidii e provvidenze che sono stati stabiliti per i malati di AIDS dalla legge 5 giugno 1990, n. 135, e dallo stesso decreto-legge n. 139 del 1993. D'altra parte, è proprio il rigido automatismo che caratterizza la disposizione oggetto di impugnativa ad aver generato preoccupanti conseguenze per la sicurezza collettiva, giacchè dalla documentazione trasmessa dal Ministro di grazia e giustizia in risposta all'ordinanza istruttoria pronunciata da questa Corte, è emerso che, fra quanti hanno beneficiato del rinvio della esecuzione della pena, una non trascurabile percentuale ha nuovamente commesso reati. La scarsità di adeguati presidii terapeutici e di supporto, la totale assenza di strumenti preventivi e la peculiare condizione soggettiva di chi è portatore di una malattia indubbiamente gravissima, per di più circondata da non pochi pregiudizi che fortemente ostacolano il reinserimento sociale, hanno così finito per rappresentare un coacervo di problematiche che la norma censurata ha integralmente trasferito sulla intera collettività.
Se, quindi, la salute collettiva nel particolare contesto carcerario - che costituisce, come si è detto, il dichiarato obiettivo perseguito dalla norma - rappresenta un bene sicuramente da preservare, giacchè il diritto alla salute di ciascun individuo implica il relativo bilanciamento "con il dovere di tutelare il diritto dei terzi che vengono in necessario contatto con la persona per attività che comportino un serio rischio, non volontariamente assunto, di contagio" (v. sentenza n. 218 del 1994), devesi al tempo stesso affermare che in tanto può ritenersi ragionevole "l'allontanamento" dal carcere dei malati di AIDS, in quanto la relativa permanenza negli istituti cagioni in concreto un pregiudizio per la salute degli altri detenuti, posto che, altrimenti, risulterebbero senza giustificazione compromessi altri beni riconosciuti come primari dalla Carta fondamentale.
3. - La tutela della salute di quanti si trovino ristretti negli istituti penitenziari non rappresenta, però, l'unico valore che il legislatore ha inteso salvaguardare con la norma oggetto di impugnativa, dal momento che, come ha osservato lo stesso giudice rimettente, ove così fosse, l'identico regime avrebbe dovuto prendere in considerazione l'intera e ben più estesa gamma dei portatori di infezione da HIV, essendo questo, e non la malattia in sè considerata, il presupposto di insorgenza del rischio di contagio e, dunque, di pericolo per la salute della popolazione carceraria. L'aver quindi la norma preso in considerazione, attraverso il rinvio all'art. 286-bis, comma 1, del codice di procedura penale, i malati di AIDS conclamata e i soggetti che presentino una grave deficienza immunitaria secondo i parametri stabiliti con decreto ministeriale del 25 maggio 1993, equivale alla individuazione, fra quanti siano portatori di infezioni da HIV, di una particolare categoria di persone rispetto alle quali l'incompatibilità con lo stato di detenzione è presunta ex lege. Accanto, dunque, alla salute collettiva, la norma di cui qui si discute ha evidentemente inteso tutelare anche la salute del singolo condannato, adottando tuttavia, pure sotto questo profilo, un modulo strutturato in termini di rigoroso automatismo che nessuno spazio lascia alla possibilità di verificare in concreto la compatibilità delle condizioni di salute del condannato con la esecuzione della pena.
D'altra parte, che la tutela della salute dei malati di AIDS in sede carceraria fosse sicuramente uno fra i principali obiettivi perseguiti dal legislatore, si ricava con certezza non soltanto dai lavori parlamentari svoltisi per la conversione in legge del decreto-legge n. 139 del 1993, ma anche da talune autorevoli valutazioni espresse in sede scientifica che, recepite dalla stessa amministrazione penitenziaria, non hanno certo mancato di ispirare le reiterate iniziative legislative del Governo e le scelte finali del Parlamento. Sin dal marzo del 1989, infatti, la Commissione nazionale per la lotta all'AIDS, istituita presso il Ministero della sanità, aveva formulato un giudizio - ribadito, poi, nella seduta del 7 giugno 1990 - di assoluta incompatibilità dei soggetti affetti da AIDS conclamata con il regime carcerario, osservando come detto regime comporti "per il malato di AIDS, il rischio di una riduzione del tempo di sopravvivenza, e per gli operatori che vivono e lavorano con lui e per i condetenuti, rischi di contagio delle patologie ad alta trasmissibilità".
Ad ulteriore e definitiva conferma di quanto si è dianzi osservato, sta, infine, la scelta di iscrivere la nuova previsione nel corpo dell'art. 146 del codice penale, vale a dire di una norma la cui stessa "storia" chiaramente ne denota le eminenti finalità di tutela della salute dell'individuo. L'istituto del rinvio della esecuzione della pena, infatti, ha trovato collocazioni diverse ma disciplina sostanzialmente analoga nelle codificazioni postunitarie: era, infatti, l'art. 586 del codice di procedura penale del 1865 a stabilire che "l'esecuzione delle sentenze di condanna a pena restrittiva della libertà personale, passate in giudicato, è sospesa se il condannato si trovi in stato di demenza o di malattia grave", e l'identica impronta processuale era stata mantenuta anche nel codice di rito del 1913, il cui art. 583 prevedeva la possibilità di sospendere l'esecuzione di una sentenza di condanna, fra l'altro, "se una pena restrittiva della libertà personale debba essere espiata da persona che, secondo il giudizio di uno o più periti nominati d'ufficio, si trovi in tali condizioni d'infermità di mente o di corpo da rendere necessaria la sospensione", ovvero se la pena "debba essere espiata da donna che sia incinta o abbia partorito da meno di tre mesi". Soltanto con l'entrata in vigore del codice penale del 1930, dunque, l'istituto fu trasferito dalla tradizionale sede processuale in quella del codice di diritto sostanziale, il tutto secondo l'opzione dogmatica tipica di quel legislatore, opzione che peraltro non mancò di registrare vivaci resistenze in dottrina, ove si ritenne da parte di alcuni immutata l'originaria fisionomia dell'istituto stesso. Ma al di là delle scelte di sistema, che qui direttamente non rilevano, sta il dato costante rappresentato dal fatto che nelle pur mutevoli formulazioni il rinvio o la sospensione della esecuzione della pena detentiva si è sempre saldamente attestato attorno a un presupposto unificante: vale a dire le particolari condizioni di salute del condannato e la ritenuta inconciliabilità delle stesse con l'altrettanto peculiare regime carcerario. Illuminanti, a questo proposito sono alcuni passaggi della Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, ove, appunto, si giustifica il rinvio obbligatorio della esecuzione della pena nel caso della donna incinta o che ha partorito da meno di sei mesi, proprio con le difficoltà di assistenza negli stabilimenti carcerari che quelle condizioni personali necessariamente richiedono.
Ma se le concorrenti esigenze di tutela del nascituro e del neonato possono razionalmente giustificare una presunzione assoluta di incompatibilità col carcere per la donna incinta o che abbia partorito da meno di sei mesi, nei confronti dei malati di AIDS o di quanti presentino uno stato di grave deficienza immunitaria (per di più limitata all'ipotesi in cui questa derivi da infezione da HIV), occorrerebbe presupporre, con altrettanta linearità logica, che gli stessi versino in tutti i casi in condizioni di salute tali da non poter essere adeguatamente affrontate nè con gli appositi presidii di diagnosi e cura esistenti all'interno degli istituti penitenziari, nè attraverso provvedimenti di ricovero in luoghi esterni a norma dell'art. 11 dell'ordinamento penitenziario. Ebbene, è proprio la rigida presunzione stabilita dal legislatore, ad apparire priva di adeguato fondamento e tale, dunque, da rendere del tutto evanescente la razionalità di una norma dalla cui concreta applicazione possono pertanto generarsi inaccettabili disparità di trattamento e, di riflesso, la compromissione di quegli altri valori che il giudice a quo ha evocato a parametro delle dedotte questioni. Se, infatti, l'istituto del rinvio obbligatorio della esecuzione della pena deve tendere nel caso di specie a preservare le condizioni di salute del condannato, è evidente, allora, che sono soltanto queste ultime a dover essere prese in considerazione dal legislatore e non certo la malattia in quanto tale, giacchè, a fronte di un identico stato morboso, qualunque esso sia, le variabili cliniche possono essere tante quanto l'intera casistica è in grado di offrire. D'altra parte, non è senza significato a tal proposito che anche fra gli studiosi della materia si sia giunti ad affermare che la stessa fase dell'AIDS conclamata presenti quadri clinici molto vari, alcuni dei quali, specie se ben trattati, possono regredire anche per lungo tempo, così come è altrettanto sintomatico che la stessa Commissione nazionale per la lotta all'AIDS abbia finito per riconoscere che "il quadro clinico delle infezioni da HIV è caratterizzato da una estrema dinamicità e variabilità di situazioni", al punto che "pazienti affetti dalla infezione HIV in uno stato epidemiologicamente non classificabile come AIDS ... versano in condizioni clinicamente gravi", tali da necessitare di quegli stessi provvedimenti che la Commissione medesima indicava per i soggetti in fase di AIDS.
Pur dovendosi quindi annettere al particolare e grave morbo di cui qui si tratta tutto il risalto che lo stesso merita e che l'ampia normativa di settore e la stessa coscienza collettiva gli ha ormai riconosciuto, la disposizione impugnata deve ritenersi non conforme al canone della ragionevolezza nella parte in cui non consente di accertare in concreto se, ai fini della esecuzione della pena, le effettive condizioni di salute del condannato siano o meno compatibili con lo stato detentivo. Allo stesso modo, spetterà al giudice verificare caso per caso in relazione alle strutture disponibili se l'esecuzione della pena possa avvenire senza pregiudizio per la salute della restante popolazione carceraria che, come si è detto, costituisce l'altro dei valori che la norma ha inteso tutelare. Accertamenti e verifiche del giudice, quelli sopra esposti, che porranno le pubbliche amministrazioni, ciascuna nel quadro delle proprie competenze ed opportunamente coordinate tra loro, di fronte all'esigenza di tenere conto del bisogno di cura del singolo e dell'attitudine della condizione restrittiva rispetto alla salvaguardia della salute della popolazione carceraria, predisponendo o incrementando le strutture idonee allo scopo, sia in ambito penitenziario sia nei presidii sanitari esterni cui ricorrere a norma dell'articolo 11 dell'ordinamento penitenziario.
In tal modo viene pertanto ad essere integralmente soddisfatto il petitum perseguito dal giudice a quo e restano conseguentemente assorbiti gli ulteriori profili di illegittimità costituzionale dal medesimo dedotti.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 146, primo comma, numero 3, del codice penale, aggiunto dall'art. 2 del decreto-legge 14 maggio 1993, n. 139, convertito dalla legge 14 luglio 1993, n. 222, nella parte in cui prevede che il differimento ha luogo anche quando l'espiazione della pena possa avvenire senza pregiudizio della salute del soggetto e di quella degli altri detenuti.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18/10/95.
Vincenzo CAIANIELLO, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 18/10/95.