Sentenza n. 70 del 1994

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SENTENZA N. 70

 

ANNO 1994

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

Avv. Massimo VARI

 

Dott. Cesare RUPERTO

 

ha pronunciato la seguente

 

 

 

SENTENZA

 

 

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 146, primo comma, n. 3, del codice penale, come aggiunto dall'art. 4 del decreto- legge 12 novembre 1992, n. 431 (Disposizioni urgenti concernenti l'incremento dell'organico del Corpo di polizia penitenziaria, il trattamento di persone detenute affette da infezione HIV, le modifiche al testo unico delle leggi in materia di stupefacenti e le norme per l'attivazione di nuovi uffici giudiziari) e dell'art. 146, primo comma, n.3, del codice penale, come aggiunto dall'art.2 del decreto-legge 14 maggio 1993, n. 139 (Disposizioni urgenti relative al trattamento di persone detenute affette da infezione da HIV e di tossicodipendenti), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 1993, n.222, promossi con ordinanze emesse il 22 dicembre (n. 3 ordinanze) e 15 dicembre 1992 (n. 4 ordinanze) ed il 24 agosto 1993 (n. 3 ordinanze) dal Tribunale di sorveglianza di Torino, rispettivamente iscritte ai nn. 633, 634, 635, 636, 637, 638, 639, 689, 690 e 691 del registro ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn.43 e 47 dell'anno 1993.

 

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 12 gennaio 1994 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

 

 

 

Ritenuto in fatto

 

 

 

1. Con sette ordinanze pronunciate il 15 ed il 22 dicembre 1992 (R.O. da 633 a 639 del 1993) il Tribunale di sorveglianza di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 146, primo comma, n. 3, del codice penale, come aggiunto dal decreto- legge 12 novembre 1992, n. 431, nella parte in cui prevede il rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena per i soggetti affetti da infezione da HIV nei casi previsti dall'art. 286-bis, primo comma, del codice di procedura penale.

 

Rileva il giudice a quo che l'impugnata novella, attraverso l'inserimento di una autonoma ipotesi di differimento obbligatorio della esecuzione della pena, ha posto sullo stesso piano situazioni fra loro profondamente diverse, caratterizzate, l'una, da una "rinuncia definitiva all'applicazione della sanzione penale", e le altre da una momentanea sospensione della pretesa punitiva in rapporto a fatti che, come la gravidanza o la recente nascita di un bambino, non integrano certo una "grave infermità fisica".

 

Ciò ha determinato, secondo il giudice a quo, l'introduzione di una "clausola di immunità penale" che priva una determinata categoria di persone "della soggettività attiva penale", con conseguente sospetto di incostituzionalità. Vulnerato sarebbe, anzitutto, l'art. 2 della Costituzione, giacchè nei confronti di coloro i cui interessi sono aggrediti da quelle categorie di persone viene esclusa una efficace tutela penale per l'assenza dello strumento che ne assicura la necessaria forza intimidatrice. La norma impugnata si porrebbe poi in contrasto anche con l'art. 3 della Costituzione, sia perchè irragionevolmente discrimina i malati "comuni" rispetto agli affetti da HIV, sia perchè si crea ingiustificatamente una categoria sottratta all'assioma che le pene vanno eseguite nei confronti di tutti i condannati e si fa prevalere l'interesse della persona affetta da HIV rispetto a quello del soggetto leso dal reato, indipendentemente da una approfondita analisi del caso di specie.

 

2. Con successive ordinanze del 24 agosto 1993 (R.O. 689, 690 e 691 del 1993), il medesimo Tribunale di sorveglianza, nel ribadire le precedenti censure, ha ritenuto che l'art. 146, primo comma, n. 3, del codice penale, stavolta come aggiunto dall'art. 2 del decreto-legge 14 maggio 1993, n. 139, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 1993, n. 222, violi anche l'art.111, primo comma, della Costituzione, in quanto la nuova previsione di rinvio obbligatorio "vanifica la funzione giurisdizionale della magistratura di sorveglianza nell'esercizio del suo compito istituzionale di dirimere il conflitto tra il diritto dello Stato ad eseguire le sentenze di condanna a pene detentive" e il diritto del condannato alla sospensione dell'esecuzione.

 

Sarebbero anche violati gli artt. 27, terzo comma, e 32, primo comma, della Costituzione, in quanto, secondo i dati offerti dalla esperienza medico-scientifica, l'infezione da HIV ha caratteristiche dinamiche e variabili le quali impongono un accertamento caso per caso al fine di verificare se l'esecuzione della pena leda il diritto alla salute o si risolva in un trattamento contrario al senso di umanità.

 

3. In alcuni giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

 

In relazione a taluni provvedimenti di rimessione, la difesa dello Stato si è limitata a richiamare l'ordinanza di questa Corte n. 292 del 1993, con la quale l'identica questione è stata dichiarata manifestamente inammissibile per mancata conversione del d.l. n. 431 del 1992. Quanto, invece, alla questione sollevata con l'ordinanza iscritta al n. 690 del registro ordinanze 1993, l'Avvocatura, dopo aver dedotto la relativa inammissibilità per essere stato il condannato "comunque scarcerato" nel corso del procedimento a quo, ed osservato come nella specie l'accoglimento della questione in riferimento all'art. 3 della Costituzione si risolverebbe in una pronuncia "additiva" che "nulla cambierebbe nella decisione" che il rimettente è chiamato ad adottare, ritiene comunque non fondate le censure, in quanto la norma impugnata presenta una sua intrinseca ragionevolezza per essere la stessa dettata dalla necessità di contemperare le esigenze di salute di soggetti portatori di una grave malattia, "con le esigenze di tutela della restante popolazione carceraria di fronte al notevole pericolo di contagio".

 

 

 

Considerato in diritto

 

 

 

1. Poichè le ordinanze sottopongono all'esame della Corte la medesima questione, ancorchè riferita a fonti normative diverse, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza. Va peraltro subito rilevato che le ordinanze pronunciate dal Tribunale di sorveglianza di Torino il 15 ed il 22 dicembre 1992, hanno sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 146, primo comma, n. 3, del codice penale, aggiunto dall'art. 4 del decreto-legge 12 novembre 1992, n. 431.

 

Considerato, quindi, che il d.l. n. 431 del 1992 non è stato convertito in legge entro il termine prescritto, come risulta dal comunicato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 8 del 12 gennaio 1993, la questione sollevata con tali ordinanze deve essere dichiarata manifestamente inammissibile, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte (v., in particolare, ordinanza n. 292 del 1993).

 

2. Non sussiste, invece, l'indicato pregiudizio in punto di ammissibilità per ciò che concerne la questione sollevata dal medesimo Tribunale di sorveglianza con le ordinanze del 24 agosto 1993, essendo le stesse volte a censurare l'art. 146, primo comma, n. 3, del codice penale, come da ultimo aggiunto ad opera dell'art. 2 del decreto- legge 14 maggio 1993, n. 139, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 1993, n. 222. Tuttavia, nello spiegare atto di intervento in relazione ad una di tali ordinanze, l'Avvocatura Generale dello Stato ha eccepito l'inammissibilità della questione, in quanto, risultando dal provvedimento di rimessione che il condannato è "stato comunque scarcerato", sarebbe nella specie carente la "necessaria pregiudizialità della soluzione della questione di legittimità rispetto alla decisione di merito", mancando, per di più, una adeguata motivazione circa la sua rilevanza.

 

L'eccezione è priva di fondamento e va pertanto disattesa. Dal testo dell'ordinanza alla quale l'Avvocatura ha fatto riferimento (R.O.690 del 1993) emerge, infatti (v. pag.8), che il condannato è stato effettivamente scarcerato in applicazione della norma impugnata, ma ad opera del magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 684 del codice di procedura penale: considerato, quindi, che l'intervento del magistrato di sorveglianza ha carattere del tutto interinale, essendo il relativo provvedimento destinato a produrre effetti fino alla decisione del Tribunale di sorveglianza, al quale solo spetta di decidere definitivamente in ordine al differimento dell'esecuzione della pena, è di tutta evidenza, allora, che la disposizione impugnata è destinata a produrre effetti anche e soprattutto per l'organo istituzionalmente chiamato ad adottare il provvedimento non provvisorio, con la conseguenza che nessuna motivazione deve essere svolta in proposito, per essere la rilevanza della questione insita nelle cadenze procedimentali scandite dallo stesso codice di rito.

 

3. Nel merito, il Tribunale di sorveglianza di Torino solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 146, primo comma, n. 3, del codice penale, deducendo la violazione degli artt. 2, 3, primo comma, 27, terzo comma, 32, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione.

 

Osserva, infatti, il giudice a quo che la norma sottoposta a censura, nel prevedere il rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena se questa deve aver luogo nei confronti di persona affetta da infezione da HIV nei casi di incompatibilità con lo stato di detenzione ai sensi dell'art.286-bis, primo comma, del codice di procedura penale, viene a porsi anzitutto in contrasto con l'art. 2 della Costituzione, giacchè resta compromessa la tutela dei diritti inviolabili di coloro i cui interessi risultino aggrediti da quanti si trovino nelle con dizioni descritte dalla norma, essendo privati di "efficace tutela penale in assenza dello strumento che ne assicura la necessaria forza intimidatrice".

 

Sarebbe poi vulnerato il principio di uguaglianza, in quanto, afferma il rimettente, la disposizione di che trattasi genera un trattamento irragionevolmente discriminatorio per i malati "comuni" rispetto alle persone affette da HIV, considerato che, alla luce dei dati offerti dalla scienza medica, i medesimi caratteri di gravità, irreversibilità ed ingravescenza sono presenti in molte altre patologie. Posto, inoltre, che la norma sancisce l'obbligo di provvedere al rinvio della esecuzione a prescindere da qualunque apprezzamento del caso concreto circa la effettiva incompatibilità delle condizioni di salute con lo stato detentivo, risulterebbe violato anche l'art. 111 della Costituzione, giacchè nella ipotesi in discorso risulta vanificata la funzione della magistratura di sorveglianza di "dirimere il conflitto tra il diritto dello Stato ad eseguire le sentenze di condanna a pene detentive e il diritto del condannato al differimento della esecuzione della pena". La disposizione censurata contrasterebbe, infine, con gli artt. 27, terzo comma, e 32, primo comma, della Costituzione, in quanto, considerati i caratteri di estrema dinamicità che presenta l'infezione da HIV e la varietà di situazioni che dalla stessa possono scaturire, dovrebbe essere "concretamente provato che l'applicazione della pena leda il fondamentale diritto alla salute o si risolva in un trattamento contrario al senso di umanità".

 

4. La questione attinge il nucleo del delicato problema relativo alla individuazione dei confini all'interno dei quali al legislatore è consentito esercitare le proprie scelte discrezionali, nel quadro del non sempre agevole bilanciamento di valori ai quali la Costituzione assegna uno specifico risalto. Il tutto non disgiunto dai connotati di alta drammaticità che il triste fenomeno dei malati di AIDS presenta, sia sul piano delle contrapposte e gravi esigenze che dallo stesso vengono a scaturire e che ineluttabilmente si riverberano sulla intera collettività, sia per la difficoltà di individuare adeguati strumenti che valgano a consentire una prognosi di agevole remissione del fenomeno stesso. Viene qui in discorso, in particolare, l'insistito e documentato richiamo che il giudice a quo effettua a casi non sporadici di condannati che, ottenuta la liberazione in virtù della norma oggetto di impugnativa, tornano a delinquere con cadenze talora impressionanti, esponendo così a pericolo l'ordine e la sicurezza pubblica e i diritti fondamentali di quanti vengono ad essere aggrediti. Ciò, afferma il Tribunale rimettente, quale conseguenza pressochè naturale di una disciplina che, prendendo a riferimento i portatori di una malattia non temporanea, ma che anzi presenta caratteri di irreversibilità ed ingravescenza, individua una categoria di "intoccabili", attraverso una clausola di immunità che priva quella categoria di soggettività penale.

 

Il rilievo è grave e preoccupa non poco, specie in considerazione del non trascurabile risalto quantitativo che il fenomeno presenta, secondo le stime riferite nella relazione che ha accompagnato il disegno di legge di conversione del d.l. n. 139 del 1993. Ma al di là delle suggestive e approfondite argomentazioni svolte nelle ordinanze di rimessione, resta comunque assorbente, ai fini che qui interessano, verificare se l'opzione normativa ammetta possibili censure soltanto sul piano della mera opportunità, oppure se la stessa abbia in qualche modo sconfinato dall'alveo di un corretto uso della discrezionalità, offendendo i parametri costituzionali che il giudice a quo evoca nel tracciare il tema devoluto a questa Corte. In una simile prospettiva diviene allora agevole avvedersi di come al fondo della scelta normativa sia rinvenibile una esigenza tutt'altro che secondaria agli effetti del bilanciamento dei valori che quella scelta coinvolge, giacchè il legislatore ha inteso porre rimedio a "situazioni di estrema drammaticità", quali sono quelle che scaturiscono dalla particolare rilevanza che il problema della infezione da HIV riveste all'interno della popolazione carceraria, "essendo il carcere un luogo in cui si trova concentrato un alto numero di soggetti a rischio" (XI Legislatura, Atto Senato, n.1240). La tutela di un bene primario, quale è quello della salute, costituisce, quindi, il primo termine di riferimento alla cui stregua apprezzare la conformità a costituzione della scelta legislativa, non sottacendo il rilievo che a tal fine assumono le condizioni del tutto particolari - quali sono quelle che connotano lo status carcerario - in cui quel bene deve trovare adeguate garanzie. Già sotto questo profilo, dunque, appare evidente che l'alternativa tra immediata esecuzione della pena detentiva o la sua temporanea "inesigibilità" a causa di condizioni di salute che il legislatore stesso ritiene di qualificare come incompatibili con la detenzione, non comporta soluzioni a "rime obbligate" sul piano costituzionale, dovendosi necessariamente ammettere spazi di valutazione normativa che ben possono contemperare l'obbligatorietà della pena con le specifiche situazioni di chi vi deve essere sottoposto.

 

Il punto sta dunque tutto nel verificare se la disposizione, che il legislatore ha ritenuto di dettare per far fronte alla drammatica situazione di cui si è detto, integri una ipotesi di eccesso di potere normativo, tale da porsi in palese contrasto con i principii costituzionali che il giudice rimettente ritiene esser stati violati.

 

Orbene, e per stare alle doglianze che il giudice a quo solleva a margine della disciplina in esame, due appaiono essere i temi che insistentemente ricorrono: da un lato, la scarsa attenzione che il legislatore avrebbe riservato alle esigenze di tutela della collettività, e, dall'altro, l'irragionevole "privilegio" che assisterebbe quanti, per essere portatori di infezione da HIV, beneficiano del rinvio obbligatorio dell'esecuzione di pene detentive. Nè l'uno nè l'altro degli indicati rilievi può però dirsi conclusivo ai fini che qui interessano. Se, infatti, a fondamento della nuova ipotesi di differimento della esecuzione della pena sta, come si è detto, l'esigenza di assicurare il diritto alla salute nel particolare consorzio carcerario, la liberazione del condannato non può allora ritenersi frutto di una scelta arbitraria, così come neppure può dirsi che la liberazione stessa integri, sempre e comunque, un fattore di compromissione delle contrapposte esigenze di tutela collettiva: non è la pena differita in quanto tale, infatti, a determinare una situazione di pericolo, ma, semmai, la carenza di adeguati strumenti preventivi volti ad impedire che il condannato, posto in libertà, commetta nuovi reati. Tuttavia, se a colmare una simile carenza può provvedere, ed è auspicabile che provveda, soltanto il legislatore, deve escludersi che la eventuale lacunosità dei presidi di sicurezza possa costituire, in sè e per sè, ragione sufficiente per incrinare, sull'opposto versante, la tutela dei valori primari che la norma impugnata ha inteso salvaguardare, giacchè, ove così fosse, nel quadro del bilanciamento tra le esigenze contrapposte, solo una prevarrebbe a tutto scapito dell'altra. D'altra parte, occorre anche osservare che qualora la norma in esame fosse ritenuta non conforme ai principii costituzionali per il sol fatto che dalla sua applicazione possono in concreto scaturire situazioni di pericolosità per la sicurezza collettiva, ne conseguirebbe che alla esecuzione della pena verrebbe assegnata, in via esclusiva, una funzione di prevenzione generale e di difesa sociale, obliterandosi in tal modo quella eminente finalità rieducativa che questa Corte ha invece inteso riaffermare anche di recente (v. sentenza n. 313 del 1990), e che certo informa anche l'istituto del rinvio che viene qui in discorso.

 

Superato, quindi, il primo e più allarmante dei rilievi mossi dal giudice a quo, circa il quale, peraltro, questa Corte non può non ribadire l'auspicio di un pronto intervento che soddisfi le esigenze di sicurezza di cui innanzi si è detto, diviene allora agevole contestare la fondatezza della questione con riferimento alle restanti censure che il rimettente deduce. Nessuna discriminazione, infatti, può intravedersi tra malati "comuni" e persone affette da AIDS, in quanto le caratteristiche affatto peculiari che contraddistinguono quest'ultima sindrome adeguatamente giustificano un trattamento particolare che, giova ribadirlo, si incentra sulla necessità di salvaguardare il bene della salute nello specifico contesto carcerario: una finalità, dunque, eterogenea rispetto ad altre gravi malattie, in ordine alle quali il rimedio del rinvio della esecuzione è funzionale esclusivamente alle esigenze del singolo.

 

Neppure violato può dirsi, poi, l'art.111 della Costituzione, giacchè la verifica che nella specie la magistratura di sorveglianza è tenuta ad effettuare ed il conseguente obbligo di motivazione, non si raccordano ad una competenza funzionale "astratta", quale è quella che sembra prefigurare il giudice a quo, ma alla tipologia del provvedimento che l'organo della giurisdizione è chiamato ad adottare nell'ambito dei confini delibativi che il legislatore ritiene di dover tracciare: ove, pertanto, i presupposti siano rigorosamente predeterminati, come accade per tutte le ipotesi di rinvio obbligatorio della esecuzione, qualsiasi apprezzamento discrezionale resta assorbito dalla valutazione legale tipica, che, ovviamente, restringe, ma non esclude, il controllo giurisdizionale e il dovere di motivare sul punto.

 

Ugualmente non fondato, infine, è l'assunto secondo il quale la norma impugnata contrasterebbe con gli artt. 27, terzo comma, e 32, primo comma, della Costituzione, sul presupposto che, stante la varietà di situazioni cui può dar luogo l'infezione da HIV, dovrebbe essere "concretamente provato che l'applicazione della pena leda il fondamentale diritto alla salute o si risolva in un trattamento contrario al senso di umanità". Considerata, infatti, la più volte indicata finalità che la norma è chiamata a svolgere nel sistema, non è tanto il bene della salute del singolo condannato a venire qui in discorso, ma la salvaguardia della sanità pubblica in sede carceraria, così come, e di riverbero, l'incompatibilità normativa con la condizione di detenuto non si fonda, per quel che si è detto, sulla presunzione ex lege che l'esecuzione della pena realizzi un trattamento contrario al senso di umanità, ma si proietta sul diverso versante della tutela di quanti potrebbero patire pregiudizio ove la pena venisse immediatamente eseguita.

 

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 146, primo comma, n. 3, del codice penale, aggiunto dall'art. 4 del decreto-legge 12 novembre 1992, n. 431 (Disposizioni urgenti concernenti l'incremento dell'organico del Corpo di polizia penitenziaria, il trattamento di persone detenute affette da infezione da HIV, le modifiche al testo unico delle leggi in materia di stupefacenti e le norme per l'attivazione di nuovi uffici giudiziari), sollevata, in riferimento agli artt. 2 e 3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Torino con le ordinanze iscritte ai numeri da 633 a 639 del registro ordinanze 1993.

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 146, primo comma, n. 3, del codice penale, aggiunto dall'art. 2 del decreto-legge 14 maggio 1993, n. 139 (Disposizioni urgenti relative al trattamento di persone detenute affette da infezione da HIV e di tossicodipendenti), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 1993, n. 222, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 27, terzo comma, 32, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Torino con le ordinanze iscritte ai numeri 689, 690 e 691 del registro ordinanze 1993;

 

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21/02/94.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Giuliano VASSALLI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 03/03/94.