Ordinanza n. 34 del 2009

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ORDINANZA N. 34

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria        FLICK                    Presidente

- Francesco               AMIRANTE              Giudice

- Ugo                                DE SIERVO                           "

- Paolo                      MADDALENA              "

- Alfio                       FINOCCHIARO            "

- Alfonso                   QUARANTA                 "

- Franco                    GALLO                        "

- Luigi                       MAZZELLA                  "

- Gaetano                  SILVESTRI                   "

- Sabino                    CASSESE                     "

- Maria Rita               SAULLE                       "

- Giuseppe                 TESAURO                    "

- Paolo Maria             NAPOLITANO             "

- Giuseppe                 FRIGO                         "

- Alessandro              CRISCUOLO                "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 1 e 4, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), dell’art. 10, comma 3, della stessa legge e dell’art. 161, secondo comma, del codice penale, come modificato dall’art. 6, comma 5, della citata legge n. 251 del 2005, promossi con ordinanze del 23 gennaio 2007 dal Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Cava de’ Tirreni, del 6 febbraio 2007 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Prato e del 13 febbraio 2006 dal Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Amalfi, rispettivamente iscritte ai nn. 434 e 707 del registro ordinanze 2007 ed al n. 76 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 24 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2007 e n. 14,  prima serie speciale, dell’anno 2008.

       Visti l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 17 dicembre 2008 il Giudice relatore Paolo MariaNapolitano.

Ritenuto che il Tribunale di Salerno, con due distinte ordinanze, la prima della sezione distaccata di Cava de’ Tirreni del 23 gennaio 2007 (r.o. n. 434 del 2007), la seconda della sezione distaccata di Amalfi del 13 febbraio 2006 (r.o. n. 76 del 2008), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 25, secondo comma, 27 e 79 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 1 e 4, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede un sistema di computo dei termini prescrizionali collegato non già alla gravità oggettiva del fatto, bensì allo status soggettivo dell’imputato, prevedendo un più lungo termine di prescrizione in caso di atti interruttivi riguardanti delinquenti recidivi, abituali o professionali;

che il medesimo Tribunale, con la sola ordinanza della sezione distaccata di Amalfi, in riferimento all’art. 3 Cost., ha altresì sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede l’applicazione della nuova e più favorevole normativa nei processi pendenti alla data di entrata in vigore di detta legge, «ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento»;

che, nella prima ordinanza, il rimettente, in punto di rilevanza, premette che in applicazione della norma censurata dovrebbe accogliere la richiesta avanzata dai difensori di B. V., M. M. e C. M., imputati del reato di cui all’art. 368 del codice penale, di emissione di sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione;

che il rimettente ritiene che la Corte abbia superato, in ordine alla sindacabilità delle norme penali di favore, a partire dalla sentenza n. 148 del 1983, l’orientamento restrittivo adottato in precedenza, secondo il quale «il principio di irretroattività della norma più sfavorevole al reo (artt. 25, secondo comma, Cost. e 2 cod. pen.) imporrebbe una declaratoria di inammissibilità della questione concernente il sindacato di norme penali di favore, necessariamente irrilevante, in quanto, anche laddove ne fosse stata pronunciata l’incostituzionalità, non avrebbero comunque potuto trovare applicazione nel giudizio a quo»;

che, tuttavia, osserva il rimettente, superato l’ostacolo di tipo processuale, rimane quello di natura sostanziale secondo il quale il principio di riserva di legge impedisce l’adozione di sentenze di accoglimento in grado di creare nuove norme penali;

che, in particolare, il rimettente sottolinea come tale principio sia stato chiaramente affermato nella sentenza n. 161 del 2004, con la quale la Corte costituzionale, alla luce dell’art. 25, secondo comma, Cost., ha escluso di poter «introdurre in via additiva nuovi reati o che l’effetto di una sua sentenza possa essere quello di ampliare o aggravare figure di reato già esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore»;

che, in quella stessa occasione la Corte costituzionale, tuttavia, ha riaffermato l’ammissibilità del sindacato sulle norme penali di favore, allorquando «l’eventuale ablazione della norma di favore si limita a riportare la fattispecie già oggetto di ingiustificato trattamento derogatorio alla norma generale, dettata dallo stesso legislatore (fermo restando, altresì, il divieto di applicazione retroattiva del regime penale più severo ai fatti commessi sotto il vigore della norma di favore rimossa)»;

che per quanto concerne le disposizioni censurate, la questione sollevata, sempre secondo il rimettente, dovrebbe essere ritenuta ammissibile, perché una pronuncia caducatoria della nuova disciplina della prescrizione avrebbe soltanto l’effetto di ripristinare il regime di «perseguibilità» dell’azione penale, escludendo l’estinzione dei reati, senza coinvolgere nessun profilo concernente l’ambito di astratta applicabilità della norma penale, nella sua dimensione di fattispecie oggettiva (condotta, nesso di causalità, evento) e di fattispecie soggettiva (dolo o colpa);

che, pertanto, una eventuale sentenza di accoglimento della questione prospettata non violerebbe il principio di riserva di legge, atteso che nessuna influenza avrebbe sulle astratte fattispecie incriminatici;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente evidenzia che le norme censurate, nel modificare gli artt. 157 e 161 cod. pen., oltre a determinare una generale riduzione dei termini di prescrizione, hanno modificato anche gli effetti dell’interruzione del corso della prescrizione con un prolungamento del tempo necessario a prescrivere che opera nel seguente modo: «un aumento frazionario di un quarto in caso di soggetti incensurati, della metà in caso di imputati cui sia applicabile (o contestata) la recidiva infraquinquennale o specifica (art. 99 comma 2, c.p.), di due terzi in caso di imputati cui sia applicabile la recidiva plurima (art. 99 comma 4 c.p.), del doppio nel caso di imputati dichiarati delinquenti abituali (artt. 102 e 103 c.p.) o professionali (art. 105 c.p.)»;

che, alla stregua della nuova normativa, la personalità criminale del reo, desunta dalla recidiva o dallo stato di delinquente abituale o professionale, determina un allungamento, anche consistente, dei termini di prescrizione;

che, sempre a parere del giudice a quo, il legislatore, nell’adottare quale criterio distintivo degli effetti della proroga connessa al compimento di atti interruttivi, non già la gravità oggettiva del fatto, come avveniva precedentemente, bensì lo status soggettivo dell’imputato, avrebbe riesumato la logica del «diritto penale d’autore», in violazione degli artt. 13, 25 e 27 della Costituzione, che impongono «un ordinamento improntato ai tratti di un “diritto penale del fatto”»;

che tale disciplina, inoltre, sarebbe irragionevole perché viene a collegare l’allungamento dei termini di prescrizione ad una situazione di recidiva che può maturare anche a distanza di anni dal fatto, a causa della lunghezza dei tempi processuali, e sarebbe anche contraria al principio di eguaglianza, che sancisce l’illegittimità di trattamenti normativi differenti in ragione delle condizioni personali del cittadino;

che la violazione del principio di eguaglianza sarebbe evidente nell’ipotesi della contestazione di un medesimo reato ad una pluralità di imputati: in tal caso, infatti, si potrebbe assistere ad un esito processuale del tutto opposto – declaratoria di estinzione del reato per prescrizione ovvero condanna – a seconda che i diversi imputati abbiano riportato o meno precedenti condanne, e che una tale «ipotesi, oltre ad offendere i più elementari canoni di giustizia, violerebbe palesemente il principio costituzionale di cui all’art. 3 Cost., che consente trattamenti diversi soltanto in situazioni diverse»;

che, secondo il rimettente, i precedenti penali sono ordinariamente valutati dal giudice in sede di concreta commisurazione della pena,  nell’ambito di un giudizio individualizzato che assume a parametro i criteri finalistici di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., e che i suddetti precedenti non possono essere assunti a discrimen di un differente trattamento normativo;

che il rimettente ritiene, altresì, che la riforma dettata dalla legge n. 251 del 2005, determinando l’estinzione generalizzata di una molteplicità di ipotesi di reato a causa della riduzione dei termini di prescrizione, produca l’effetto tipico di una amnistia, con un aggiramento dell’art. 79 Cost., che richiede una legge approvata dai due terzi dei componenti di ciascuna Camera;

che, infine, secondo il giudice a quo, la riduzione consistente dei termini di prescrizione violerebbe il principio costituzionale di difesa sociale, immanente all’intero sistema costituzionale, sul quale si fonda la pretesa punitiva dello Stato, e ciò in quanto detta riduzione impedirebbe «di fatto, il perseguimento e la punizione di molteplici fatti di reato, con una obliterazione della sicurezza collettiva»;

che nella seconda ordinanza il rimettente premette, quanto alla rilevanza della questione, di dover accogliere la richiesta della difesa dell’imputato di una pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione dei reati di cui agli artt. 581, 582 e 612 .cod. pen., commessi in data 3 luglio 1999, in applicazione dell’art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251 del 2005 e dell’art. 10, comma 3, della medesima legge;

che il rimettente solleva la medesima questione di costituzionalità dell’art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251 del 2005, e sviluppa argomentazioni identiche a quelle ora riportate sia in ordine alla ammissibilità del sindacato della Corte costituzionale sulle norme penali di favore sia in ordine alla non manifesta infondatezza delle censure sollevate;

che, a parere del rimettente, anche la disciplina transitoria di applicazione della legge n. 251 del 2005, dettata dall’art. 10, comma 3, sarebbe irragionevole e in contrasto con l’art. 3 della Costituzione;

che, in particolare, la dichiarazione di apertura del dibattimento sarebbe un momento processuale privo di qualsivoglia connotato in grado di giustificare una dismissione della pretesa punitiva dello Stato, non essendo assimilabile né all’esercizio dell’azione penale, né, tantomeno, alla pronuncia di una sentenza di condanna in primo grado, atto autoritativo che esprime l’accertamento della responsabilità ipotizzata;

che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Prato, con ordinanza del 6 febbraio 2007 (r.o. n. 707 del 2007), ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 161, secondo comma, cod. pen. come modificato dall’art. 6, commi 1 e 4 (recte: comma 5), della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un sistema di computo dei termini prescrizionali collegato non già alla gravità oggettiva del fatto, bensì allo status soggettivo dell’imputato, prevedendo un più lungo termine di prescrizione in caso di atti interruttivi riguardanti delinquenti recidivi, abituali o professionali;

che il rimettente premette che il giudizio a quo, nella fase dell’udienza preliminare, ha ad oggetto la contestazione all’imputato del reato di calunnia di cui all’art. 368 cod. pen., commesso nelle date del 21 luglio 1999 e del 25 agosto 1999, con l’aggravante della recidiva reiterata ed infraquinquennale;

che, ai fini della rilevanza della questione, il rimettente evidenzia che la difesa dell’imputato, dopo aver precisato che, a causa della contestazione della recidiva reiterata infraquinquennale, il reato di calunnia contestato alla propria assistita non poteva dichiararsi estinto per intervenuta prescrizione, pur essendo trascorso il termine massimo, stabilito ai sensi dell’art. 161, secondo comma, cod. pen. (aumento di un quarto rispetto al termine di sei anni), di sette anni e sei mesi, ha chiesto sollevarsi questione di legittimità costituzionale della norma citata (art. 161, secondo comma, cod. pen., nuova formulazione) per contrasto con gli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost.;

che la questione è, a giudizio del rimettente,  rilevante, perché se operasse l’ordinario termine massimo di prescrizione, senza l’aumento di un quarto (recte: due terzi), si imporrebbe una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, quantomeno con riferimento al reato di calunnia commesso in data 21 luglio 1999;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, a parere del rimettente la norma censurata (la quale è stata modificata dall’art. 6, comma 5, della legge n. 251 del 2005), nel determinare il tempo necessario a prescrivere per imputati incensurati (aumento di un quarto), imputati con recidiva infraquinquennale o specifica (aumento della metà) e imputati recidivi plurimi (aumento di due terzi), imputati dichiarati delinquenti abituali o professionali (aumento del doppio), «fa dipendere i differenti termini massimi di prescrizione non dalla gravità oggettiva del fatto bensì dallo status soggettivo dell’imputato, così determinando un ritorno al “diritto penale d’autore” ed introducendo una discriminazione assai pericolosa che finisce per pregiudicare gli autori di reati bagatellari ma commessi con continuità rispetto ai reati dei colletti bianchi»;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte di dichiarare la questione inammissibile o infondata;

che, in particolare, secondo l’Avvocatura dello Stato «l’opzione del legislatore è mirata all’individuazione di criteri di calcolo il più possibile oggettivi, e si prospetta come una sostanziale applicazione del principio del “favor rei, consentendo l’esclusione del singolo episodio, ormai prescritto, dall’aumento di pena previsto ex art. 81 cpv. c.p. in caso di condanna, e facendo comunque salva la facoltà dell’imputato di rinunciare alla stessa prescrizione, accettando il giudizio di merito»;

che, in tale contesto, l’asserita irragionevolezza della norma, peraltro solo apoditticamente sostenuta, sembrerebbe superata con il significativo bilanciamento degli interessi appena rappresentati;

che, pertanto, sempre a giudizio dell’Avvocatura, appare di tutta evidenza l’inammissibilità, prima che l’infondatezza, della sollevata questione di costituzionalità, in una materia nella quale, fra l’altro, resta pur sempre salva la facoltà dell’imputato di rinunciare alla prescrizione e accettare il giudizio di merito.

Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

che il Tribunale di Salerno, con due distinte ordinanze, la prima della sezione distaccata di Cava de’ Tirreni, del 23 gennaio 2007 (r.o. n. 434 del 2007), la seconda della sezione distaccata di Amalfi del 13 febbraio 2006 (r.o. n. 76 del 2008), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 25, comma secondo, 27 e 79 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 1 e 4, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede un sistema di computo dei termini prescrizionali collegato non già alla gravità oggettiva del fatto, bensì allo status soggettivo dell’imputato, prevedendo un più lungo termine di prescrizione in caso di atti interruttivi riguardanti delinquenti recidivi, abituali o professionali; e che, con la sola ordinanza della sezione distaccata di Amalfi, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 nella parte in cui prevede l’applicazione della nuova più favorevole normativa nei processi pendenti alla data di entrata in vigore di detta legge, «ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento»;

che il rimettente ritiene che la norma censurata, nell’adottare, in caso di atti interruttivi, come criterio per determinare il tempo di prescrizione dei reati, la personalità criminale del reo desunta dalla recidiva o dallo stato di delinquente abituale o professionale e non la gravità oggettiva del reato, contrasti con gli artt. 13, 25 e 27 Cost., i quali impongono un ordinamento improntato a un «diritto penale del fatto»;

che, inoltre, la norma contrasterebbe sia con il principio di eguaglianza, che sancisce l’illegittimità di trattamenti normativi differenti in ragione delle condizioni personali del cittadino, sia con il principio di ragionevolezza, non essendo sorretta da alcuna ragione giustificatrice;

che, infine, la norma censurata violerebbe il «principio costituzionale di difesa sociale», immanente all’intero sistema costituzionale, e l’applicazione ai fatti pregressi produrrebbe l’effetto tipico di una amnistia in violazione dell’art. 79 Cost.;

che, nella sola ordinanza del 13 febbraio 2006 (r.o. n. 76 del 2008), il rimettente censura anche la disciplina transitoria della legge n. 251 del 2005, dettata dall’art. 10, comma 3, ritenendola irragionevole e in contrasto con l’art. 3 Cost.;

che, in particolare, la dichiarazione di apertura del dibattimento sarebbe un momento processuale privo di qualsivoglia connotato in grado di giustificare una dismissione della pretesa punitiva dello Stato, non essendo assimilabile né all’esercizio dell’azione penale, né, tantomeno, alla pronuncia di una sentenza di condanna in primo grado, atto autoritativo che esprime l’accertamento della responsabilità ipotizzata;

che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Prato, con ordinanza del 6 febbraio 2007 (r.o. n. 707 del 2007), ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 161, secondo comma, cod. pen., come modificato dall’art. 6, commi 1 e 4 (recte: comma 5), della legge n. 251 del  2005, nella parte in cui prevede un sistema di computo dei termini prescrizionali collegato non già alla gravità oggettiva del fatto, bensì allo status soggettivo dell’imputato, prevedendo un più lungo termine di prescrizione in caso di atti interruttivi riguardanti delinquenti recidivi, abituali o professionali;

che, a parere del rimettente, la norma censurata, nel determinare il tempo necessario a prescrivere per imputati incensurati (aumento di un quarto), per imputati con recidiva infraquinquennale o specifica (aumento della metà), per imputati recidivi plurimi (aumento di due terzi) e per imputati dichiarati delinquenti abituali o professionali (aumento del doppio), «fa dipendere i differenti termini massimi di prescrizione non dalla gravità oggettiva del fatto bensì dallo status soggettivo dell’imputato, così determinando un ritorno al “diritto penale d’autore” ed introducendo una discriminazione assai pericolosa che finisce per pregiudicare gli autori di reati bagatellari ma commessi con continuità rispetto ai reati dei colletti bianchi»;

che, con riferimento alle questioni sollevate dal Tribunale di Salerno con le due ordinanze sopra indicate, in via preliminare, il rimettente ritiene che il limite al sindacato di costituzionalità cui deve attenersi questa Corte, nel caso in cui si invochi una pronuncia additiva in malam partem in materia penale, non operi con riferimento all’istituto della prescrizione, perché una pronuncia caducatoria della nuova disciplina della prescrizione sarebbe idonea soltanto a ripristinare il regime di «perseguibilità» dell’azione penale, influendo solo sulle cause estintive dei reati, senza coinvolgere nessun profilo concernente l’ambito di astratta applicabilità della norma penale, nella sua dimensione di fattispecie oggettiva (condotta, nesso di causalità, evento) e di fattispecie soggettiva (dolo o colpa);

che la questione relativa all’art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251 del 2005 è manifestamente inammissibile;

che analoga questione, sollevata dal medesimo rimettente con una precedente ordinanza, è già stata dichiarata inammissibile da questa Corte con la sentenza n. 324 del 2008;

che, nella citata sentenza, si è evidenziato come il rimettente non tenga in considerazione la costante giurisprudenza della Corte che, in più occasioni, ha ribadito che la prescrizione, inerendo al complessivo trattamento riservato al reo, è istituto di natura sostanziale e la relativa disciplina è soggetta al principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., secondo il quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso;

 che tale principio, rimettendo al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, rende inammissibili pronunce il cui effetto possa essere quello di introdurre nuove fattispecie criminose, di estendere quelle esistenti a casi non previsti, o, comunque, «di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità, aspetti fra i quali, indubbiamente, rientrano quelli inerenti la disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi» (ex plurimis, tra le ultime, sentenze n. 324 del 2008 e n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65 del 2008);

  che, pertanto, la pronuncia che il rimettente sollecita, mirando a introdurre un più lungo termine massimo di prescrizione conseguente al verificarsi di atti interruttivi esorbita dai poteri spettanti a questa Corte, a ciò ostando il principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., che demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena, delle sanzioni loro applicabili e del complessivo trattamento sanzionatorio (ex plurimis, tra le ultime, sentenze n. 161 del 2004, n. 49 del 2002 e n. 508 del 2000; ordinanze n. 164 del 2007, n. 187 del 2005, n. 580 del 2000 e n. 392 del 1998);

 che la questione relativa alla violazione dell’art. 79 Cost., derivante dall’applicazione della nuova disciplina ai fatti pregressi, che secondo il rimettente produrrebbe l’effetto tipico di una amnistia, è stata dichiarata anch’essa infondata da questa Corte con la sentenza n. 324 del 2008, laddove si è affermato che è di tutta evidenza che la norma che abroga o riformula una norma incriminatrice o una ipotesi di estinzione del reato, quale la prescrizione, non presenta alcuna delle caratteristiche proprie dei provvedimenti di amnistia, prima fra tutte l’efficacia limitata nel tempo, essendo invece destinata a disciplinare in via stabile tutti i fatti successivi alla sua entrata in vigore, salvo gli effetti retroattivi più favorevoli al reo derivanti, peraltro, dall’operatività della regola generale;

che, non risultando addotti profili o argomenti diversi o ulteriori rispetto a quelli già valutati nella citata sentenza, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata;

che la questione relativa alla disciplina transitoria della legge n. 251 del 2005, dettata dall’art. 10, comma 3, sollevata dal rimettente Tribunale di Salerno solo con l’ordinanza del 13 febbraio 2006 (r.o. n. 76 del 2008), è manifestamente inammissibile;

che questa Corte, con la sentenza n. 324 del 2008, ha già dichiarato inammissibile identica questione sollevata dal medesimo rimettente evidenziando che la disposizione è stata, si, dichiarata illegittima, ma non in quanto costituisce una deroga eccessivamente ampia ad un principio generale dell’ordinamento, quale quello dello retroattività della norma penale più favorevole, ma in quanto ne costituisce un’illegittima eccezione (sentenza n. 393 del 2006);

che con riferimento alle questioni sollevate con la seconda delle ordinanze citate sussistono, inoltre, ulteriori motivi di inammissibilità;

che il giudice rimettente, in ordine alla rilevanza della questione, muove dall’erroneo presupposto interpretativo di dover accogliere la richiesta della difesa di una pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato;

 che, tuttavia, dall’ordinanza di rimessione risulta che il giudizio a quo ha ad oggetto un’imputazione relativa ai delitti di cui agli artt. 581, 582 e 612 cod. pen., commessi in data 3 luglio 1999 ed essendo l’ordinanza del 13 febbraio 2006, a quella data non era ancora decorso il termine massimo di prescrizione dei suddetti reati di sette anni e sei mesi;

che il predetto vizio interpretativo rende del tutto inadeguata la motivazione in ordine alla rilevanza della questione (ex plurimis, ordinanza n. 63 del 2007);

che il rimettente compie un ulteriore errore di prospettiva ritenendo che la nuova disciplina introdotta dalla legge n. 251 del 2005 in relazione ai delitti sottoposti al suo giudizio sia più favorevole della precedente tanto da indurlo ad ipotizzare la violazione dell’art. 79 Cost. per avere il legislatore realizzato un’amnistia;

che, al contrario, l’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nel modificare gli artt. 157 e 161 cod. pen., ha allungato il termine ordinario di prescrizione dei suddetti delitti da cinque a sei anni ed ha lasciato invariato, per i soli non recidivi, il termine massimo di prescrizione di sette anni e mezzo, prevedendo un aumento di un quarto da aggiungere ai sei anni;

che la questione, pertanto, va dichiarata manifestamente inammissibile;

che anche la questione di costituzionalità dell’art. 161, secondo comma, cod. pen. sollevata dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Prato è manifestamente inammissibile;

che, secondo il rimettente, la norma censurata, nel determinare il tempo necessario a prescrivere per imputati incensurati (aumento di un quarto), imputati con recidiva infraquinquennale o specifica (aumento della metà), imputati recidivi plurimi (aumento di due terzi) e imputati dichiarati delinquenti abituali o professionali (aumento del doppio) «fa dipendere i differenti termini massimi di prescrizione non dalla gravità oggettiva del fatto bensì dallo status soggettivo dell’imputato, così determinando un ritorno al “diritto penale d’autore” ed introducendo una discriminazione assai pericolosa che finisce per pregiudicare gli autori di reali bagatellari ma commessi con continuità rispetto ai reati dei colletti bianchi»;

che il rimettente solleva una questione opposta rispetto a quella del Tribunale di Salerno, volendo ridurre il termine massimo di prescrizione previsto dall’art. 161 per i recidivi parificandolo a quello più breve previsto per i non recidivi;

che, tuttavia, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Prato trascura di considerare che la recidiva reiterata infraquinquennale contestata all’imputato sottoposto al suo giudizio, prima ancora di determinare un allungamento del termine massimo, incide già sul termine ordinario di prescrizione del reato;

che infatti, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, l’aumento di pena previsto in caso di recidiva reiterata infraquinqennale, essendo questa una circostanza aggravante ad effetto speciale, deve essere calcolato ai fini della determinazione del termine ordinario di prescrizione ai sensi dell’art. 157, secondo comma, cod. pen.;

che, nel giudizio a quo, essendo contestata, oltre al delitto di calunnia, che prevede una pena massima di sei anni, anche l’aggravante della recidiva reiterata infraquinquennale, il termine ordinario di prescrizione è di dieci anni, dovendosi calcolare anche l’aumento di pena derivante da detta aggravante ad effetto speciale, ai sensi del citato art. 157, secondo comma, cod. pen.;

che, pertanto, anche nel caso di accoglimento della questione sollevata dal rimettente con riferimento alla disciplina degli atti interruttivi, il delitto di calunnia oggetto del giudizio a quo non sarebbe comunque prescritto, in quanto il reato, secondo la contestazione, è stato commesso nelle date del 21 luglio e del 25 agosto 1999 e l’ordinanza con cui è stata sollevata la questione è del 6 febbraio 2007;

che muovendo il rimettente, in ordine alla rilevanza della questione, dall’erroneo presupposto interpretativo secondo il quale, una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma censurata, egli dovrebbe accogliere la richiesta della difesa di una pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato, la questione va dichiarata manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 1 e 4, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, della Costituzione, dal Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Cava de’ Tirreni, e dal Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Amalfi, con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Amalfi, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 161, secondo comma, del codice penale, come modificato dall’art. 6, comma 5, della legge n. 251 del 2005, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Prato, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251 del 2005, sollevata, in riferimento all’art. 79 della Costituzione, dal Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Cava de’ Tirreni, e dal Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Amalfi, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 gennaio 2009.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 6 febbraio 2009.