ORDINANZA N. 63
ANNO 2007
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’art. 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), promosso con ordinanza del 14 ottobre 2004 dal Giudice di pace di Napoli nel procedimento penale a carico di F. V., iscritta al n. 103 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2005.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 febbraio 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice di pace di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 76, 101 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui, nel procedimento penale davanti al giudice di pace, «subordina al consenso dell’imputato e della parte offesa la pronunzia, all’esito del dibattimento, della sentenza di esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto»; ovvero «non precisa che il consenso delle parti private è richiesto solo per la sentenza predibattimentale all’esito del tentativo di conciliazione da esperire obbligatoriamente da parte del giudice di pace nell’udienza di comparizione»;
che il giudice a quo premette di procedere nei confronti di persona imputata – a seguito di duplice querela della persona offesa – dei reati continuati di cui agli artt. 594, 612 e 582 del codice penale, per avere ingiuriato, minacciato e colpito con una bottiglia di plastica piena d’acqua il querelante, provocandogli lesioni al viso guarite in dieci giorni;
che i fatti si erano verificati dopo che l’imputato aveva inutilmente invitato il querelante, che stava eseguendo lavori di ristrutturazione nell’appartamento soprastante, a non provocare eccessivi rumori, i quali recavano disturbo alla propria moglie, malata di cancro in fase terminale e deceduta poco tempo dopo;
che il querelante non si era costituito parte civile, ma aveva, anzi, «di fatto abbandonato il giudizio»: comportamento che – secondo il rimettente – nella fase processuale, non configurava remissione tacita della querela; e nessun tentativo di conciliazione delle parti aveva potuto essere inoltre esperito, in quanto la persona offesa si era allontanata dal luogo di residenza anagrafica, rendendosi irreperibile;
che, ciò premesso, il giudice a quo rileva come sussisterebbero, nella specie, tutte le condizioni previste dall’art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000, ai fini della pronuncia di una sentenza di non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto;
che il danno provocato all’interesse protetto risulterebbe, infatti, assai limitato, stante la ridotta entità delle lesioni riportate dal soggettivo passivo; così come esiguo sarebbe il grado della colpevolezza, trattandosi di dolo d’impeto, originato dall’ingiusto rifiuto dell’offeso di eseguire i lavori in forma meno rumorosa e dall’affectio coniugalis; mentre ricorrerebbero, altresì, le ulteriori condizioni dell’occasionalità del comportamento e dell’attitudine della eventuale condanna, ancorché a mera pena pecuniaria, a recare pregiudizio alla vita di relazione dell’imputato, «cittadino dalla condotta normale»;
che alla pronuncia dell’anzidetta sentenza sarebbe tuttavia di ostacolo la previsione del comma 3 dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000, in forza della quale, dopo l’esercizio dell’azione penale, «la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono»;
che – ad avviso del rimettente – tale disposizione sembrerebbe riferita, prima facie, ad un preciso stadio del processo davanti al giudice di pace, in rapporto al quale «la volontà delle parti private è decisiva» (donde la mancata menzione del pubblico ministero): vale a dire all’udienza di comparizione, nel corso della quale il giudice, prima dell’apertura del dibattimento, promuove la conciliazione tra le parti (art. 29 del d.lgs. n. 274 del 2000);
che, tuttavia, dalla relazione governativa al d.lgs. n. 274 del 2000 emergerebbe chiaramente che il legislatore ha configurato l’istituto previsto dall’art. 34 come una condizione di procedibilità, considerando la non opposizione della persona offesa come «il pendant del suo interesse ad ottenere una sentenza» – interesse che non potrebbe «essere estromesso una volta che vi sia stato l’esercizio dell’azione penale» – e riconoscendo altresì all’imputato il potere di rinunciare alla causa di improcedibilità in vista di un esito più favorevole nel merito;
che risulterebbe dunque certo – sempre secondo il rimettente – che, nel giudizio, il mancato consenso dei soggetti privati sia ostativo alla definizione del procedimento ai sensi dell’art. 34; e che, inoltre, il predetto consenso non possa essere desunto per facta concludentia – come invece nella fase delle indagini preliminari, in rapporto alla diversa previsione del comma 2 dello stesso articolo – ma debba essere manifestato in forma espressa;
che tale soluzione normativa si paleserebbe peraltro lesiva di plurimi parametri costituzionali;
che la scelta di configurare l’istituto della particolare tenuità del fatto come una condizione di procedibilità risulterebbe difatti irragionevole, trasformandolo in un inutile doppione della remissione della querela: detto istituto avrebbe, in realtà, natura sostanziale e non processuale, costituendo «una formula definitoria autonoma», dichiarativa dell’estinzione del reato o della punibilità;
che, in tale ottica, la subordinazione della pronuncia prevista dall’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 al consenso dell’imputato e della persona offesa, dopo l’apertura del dibattimento, violerebbe l’art. 101 Cost., in forza del quale il giudice è soggetto soltanto alla legge: il parametro costituzionale evocato impedirebbe, infatti, di riconoscere all’imputato – una volta aperto il dibattimento – il potere di opporsi alla definizione del processo ritenuta idonea dal giudice, la quale dovrebbe essere autonomamente adottata sulla base delle risultanze processuali, in ossequio al principio del libero convincimento, potendo l’imputato dolersi della declaratoria della particolare tenuità del fatto – nella prospettiva di ottenere una pronuncia più favorevole nel merito – unicamente tramite l’esercizio del diritto di impugnazione;
che altrettanto irrazionale risulterebbe la previsione del necessario consenso della persona offesa, giacché quest’ultima e la parte civile sarebbero titolari, nel processo penale, della sola pretesa civilistica al risarcimento del danno: pretesa che non verrebbe pregiudicata dalla sentenza di non luogo a procedere per la particolare tenuità del fatto, in quanto non preclusiva – al pari di tutte le sentenze che dichiarano l’estinzione del reato – dell’esercizio dell’azione risarcitoria;
che non varrebbe evocare, in senso contrario, il potere della persona offesa di rimettere la querela in qualunque stato del processo, con il solo limite dell’irrevocabilità della sentenza, e quello dell’imputato di accettare la remissione: giacché – posto che i reati perseguibili a querela costituiscono comunque un «numerus clausus» – nell’esercizio degli anzidetti poteri, la persona offesa e l’imputato operano esclusivamente «una valutazione di opportunità, sulla base dei loro interessi»;
che la norma censurata, per converso, demanderebbe «in modo abnorme» alla persona offesa la valutazione dello stesso fatto-reato, riconoscendo, altresì, all’imputato un altrettanto abnorme diritto di «veto» della decisione del giudice: decisione che, nel nostro ordinamento, non sarebbe mai condizionata dalla volontà delle parti, neppure nel caso di applicazione della pena su richiesta (art. 444 del codice di procedura penale), la quale lascia salvo il potere del giudice di rigettare la richiesta stessa qualora debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., nonché nel caso in cui la pena concordata non appaia congrua;
che sarebbe inoltre compromesso l’art. 76 Cost., sotto il profilo dell’eccesso di delega;
che l’art. 17, comma 1, lettera f), della legge 24 novembre 1999, n. 468 (Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374, recante istituzione del giudice di pace. Delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace e modifica dell’articolo 593 del codice di procedura penale), prevedeva, infatti – nell’ambito dei principi direttivi della delega legislativa al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace – l’«introduzione di un meccanismo di definizione del procedimento nei casi di particolare tenuità del fatto e di occasionalità della condotta, quando l’ulteriore corso del procedimento può pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato»;
che la norma di delega non conteneva, dunque, alcun riferimento al requisito del consenso dell’imputato e della persona offesa, il quale sarebbe stato introdotto sua sponte dal legislatore delegato, con scelta la cui irrazionalità emergerebbe, peraltro, anche dal confronto con l’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, il quale consente al giudice di pace di dichiarare estinto il reato a seguito di condotte riparatorie dell’imputato, valutando la congruità di tali condotte a prescindere dalla richiesta o dall’assenso delle parti;
che risulterebbe violato, ancora, l’art. 3 Cost., a fronte dell’evidente disparità di trattamento tra imputati maggiorenni e imputati minorenni, giacché ai sensi dell’art. 27 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni) – costituente il modello ispiratore della norma impugnata – nel processo minorile la declaratoria di irrilevanza del fatto resta svincolata dal consenso tanto della parte pubblica che della persona offesa;
che, sebbene il favor minoris costituisca un principio fondamentale dell’ordinamento, di rango costituzionale, non potrebbe ammettersi una disparità di trattamento di tale portata a sfavore dell’imputato maggiorenne, che vede subordinata la decisione del giudice al consenso della persona offesa: e ciò tenuto conto anche del fatto che, mentre l’art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1988 è applicabile ad una vasta gamma di reati, sono invece suscettibili di venir definiti ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 unicamente i processi relativi alle limitate fattispecie criminose devolute alla competenza del giudice di pace;
che la norma denunciata lederebbe anche l’art. 24 Cost., giacché i poteri difensivi tanto della persona offesa che dell’imputato verrebbero ad essere limitati «da reciproci consensi, quasi non si trattasse di un processo penale tendente all’accertamento della verità sul fatto-reato, ma di un contenzioso civilistico da definire sulla base di accordi transattivi»;
che sarebbe vulnerato, poi, l’art. 111 Cost., in quanto la terzietà del giudice – da intendere quale indipendenza dalle parti e come discrezionalità della decisione – rimarrebbe condizionata dalla necessità del consenso delle parti medesime;
che risulterebbe violato, infine, l’art. 27 Cost., giacché il giudice di pace – nel giudicare un fatto che, pur sussistendo nella sua materialità, ha arrecato un danno minimo – sarebbe costretto, nel caso di mancato consenso, a pronunciare una sentenza di condanna, sia pure a pena pecuniaria, in contrasto con i principi «della meritevolezza e della proporzione della pena», i quali costituiscono i presupposti essenziali affinché quest’ultima possa svolgere la sua funzione rieducativa e non spinga viceversa l’autore del fatto – che si sente ingiustamente condannato – ad ulteriori violazioni delle norme penali;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;
che la difesa erariale rileva, in particolare, che – contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente – l’art. 34, comma 3, del d.lgs. n. 274 del 2000 condiziona, nella fase dibattimentale, la pronuncia di esclusione della procedibilità per la particolare tenuità del fatto, non già al consenso, ma alla mera mancata opposizione dell’imputato e della persona offesa: mancata opposizione che – tenuto conto anche della ratio della norma, palesemente rivolta alla deflazione processuale – si configurerebbe ove i predetti soggetti non partecipino ingiustificatamente al giudizio;
che, di conseguenza, la questione sollevata sarebbe irrilevante nel processo a quo, giacché la persona offesa, sebbene ritualmente citata a giudizio, non ha mai partecipato allo stesso e non vi è stata, pertanto, alcuna sua opposizione alla declaratoria di improcedibilità per irrilevanza del fatto;
che la motivazione dell’ordinanza di rimessione circa la rilevanza della questione si paleserebbe comunque insufficiente, giacché il giudizio circa la tenuità del danno e il grado di colpevolezza risulterebbe formulato dal rimettente con esclusivo riferimento al reato di lesioni volontarie, e non anche in rapporto agli ulteriori, ripetuti fatti di ingiuria e minaccia oggetto di contestazione, ovvero al loro complesso; mentre l’occasionalità del comportamento e il pregiudizio alla vita di relazione dell’imputato nell’ulteriore corso del procedimento risulterebbero affermati in modo del tutto apodittico;
che la questione sarebbe, in ogni caso, infondata nel merito, in rapporto a tutti i parametri costituzionali evocati.
Considerato che, nel dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 3, del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, il giudice rimettente muove dal dichiarato presupposto interpretativo in forza del quale la norma censurata condizionerebbe, nella fase dibattimentale, la pronuncia di esclusione della procedibilità per particolare tenuità del fatto al «consenso» dell’imputato e della persona offesa: «consenso» che, d’altra parte, non potrebbe essere neppure desunto dal giudice per facta concludentia, ma andrebbe manifestato dagli interessati in forma espressa;
che tale presupposto interpretativo – come rilevato anche dall’Avvocatura dello Stato – si presenta, tuttavia, palesemente contrario al tenore letterale della disposizione sottoposta a scrutinio, la quale prevede, ai fini dell’operatività dell’istituto de quo nella fase successiva all’esercizio dell’azione penale, non già una condizione positiva (il «consenso»), ma una condizione negativa (la non opposizione: «se l’imputato e la persona offesa non si oppongono»);
che, in base alla chiara lettera della legge, dunque, una manifestazione di volontà è necessaria non già al fine di permettere la dichiarazione della particolare tenuità del fatto, quanto piuttosto al fine di impedirla: con la conseguenza che, ove quest’ultima manifestazione di volontà manchi, detta dichiarazione deve ritenersi ammissibile;
che il richiamo alla relazione governativa al d.lgs. n. 274 del 2000, operato dal rimettente onde fondare il proprio contrario assunto interpretativo, si rivela privo di qualsiasi valenza dimostrativa; da detta relazione emergono, infatti, le ragioni che hanno indotto il legislatore delegato a riconoscere, in materia, uno specifico rilievo alla volontà dell’imputato e della persona offesa – ragioni sinteticamente ricordate nella stessa ordinanza di rimessione – ma non si desume affatto che il legislatore medesimo sia incorso in una improprietà linguistica e concettuale quale quella che il giudice a quo nella sostanza gli addebita: improprietà consistente nell’impiego di una formula negativa («se […] non si oppongono») per indicare l’esigenza di un comportamento positivo, per giunta esplicito («se […] vi consentono espressamente»);
che l’evidenziato vizio di prospettiva del giudice rimettente inficia, quindi – prima e più ancora della motivazione sulla non manifesta infondatezza della questione – la motivazione in ordine alla sua rilevanza, rendendola del tutto inadeguata;
che l’ordinanza di rimessione – pur coinvolgendo nelle censure di costituzionalità anche il potere di «veto» riconosciuto all’imputato – tace infatti completamente sull’atteggiamento concretamente assunto, al riguardo, dall’imputato nel giudizio a quo, non specificando se egli si sia opposto alla dichiarazione di improcedibilità per la particolare tenuità dei fatti contestatigli;
che per quanto attiene, poi, alle censure relative all’omologo potere della persona offesa, il rimettente fa discendere (implicitamente) la rilevanza della questione dalla circostanza che, nella specie, il querelante abbia disertato completamente il processo, rendendosi irreperibile, e non abbia quindi prestato il suo «consenso» alla definizione del processo medesimo ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000;
che tale approccio si palesa peraltro errato, giacché, nella situazione considerata, il rimettente avrebbe dovuto chiedersi non già se la persona offesa avesse consentito, quanto piuttosto se essa si fosse o meno opposta alla predetta definizione alternativa;
che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 76, 101 e 111 della Costituzione, dal Giudice di pace di Napoli con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 febbraio 2007.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 2 marzo 2007.