ORDINANZA N. 173
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE “
- Ugo DE SIERVO “
- Alfio FINOCCHIARO “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 51, secondo comma, numero 2), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), come sostituito dall’art. 18, comma 2, lettera a), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l’attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale), promosso con ordinanza del 5 marzo 2007 dalla Commissione tributaria regionale della Toscana nel giudizio vertente tra Mirco Genovesi e l’Agenzia delle entrate, ufficio di Massa, iscritta al n. 583 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Franco Gallo.
Ritenuto che, nel corso di un giudizio di appello, riassunto a séguito della cassazione con rinvio – pronunciata dalla Corte di cassazione con sentenza n. 4732 del 2006 – della originaria sentenza di secondo grado ed avente ad oggetto la sentenza con cui il giudice di primo grado aveva rigettato il ricorso proposto da un contribuente avverso l’avviso di accertamento dell’IVA relativa all’anno 1991, la Commissione tributaria regionale della Toscana, con ordinanza pronunciata e depositata il 5 marzo 2007, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 23, 53 e 97 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, secondo comma, numero 2), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), come sostituito dall’art. 18, comma 2, lettera a), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l’attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale), entrata in vigore il 1° gennaio 1992;
che la Commissione rimettente premette che la Corte di cassazione, con la suddetta pronuncia, ha fissato il seguente principio di diritto, al quale la stessa Commissione deve uniformarsi quale giudice di rinvio: «la legge 30 dicembre 1991, n. 413, art. 18, il quale, modificando il d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, ha rimosso limitazioni e reso piú agevole la facoltà degli uffici dell’imposta sul valore aggiunto o della guardia di finanza di assumere notizie e copie di documenti presso gli istituti di credito, non interferisce sul rapporto tributario, non introduce infrazioni o sanzioni prima non previste, né incide sull’onere dell’Amministrazione di provare la pretesa impositiva, ma disciplina soltanto le attività di indagine ed accertamento. Ne consegue che malgrado la portata innovativa e la carenza di una previsione di retroattività è consentito all’amministrazione finanziaria, in applicazione della norma, di assumere le relative iniziative ispettive e di accertamento anche se in relazione a periodi d’imposta anteriori»;
che il giudice a quo, dopo avere constatato la ritualità della riassunzione del giudizio davanti a sé e, quindi, la sussistenza del vincolo interpretativo cui è astretto in base al sopra enunciato principio di diritto, solleva questione di legittimità della denunciata disposizione, quale interpretata dalla Corte di cassazione;
che il medesimo giudice a quo, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, afferma che la «retroattività» della norma denunciata «consente all’Ufficio di avvalersi di presunzioni semplici ricavate dai movimenti attivi e passivi dei conti correnti del contribuente, ai fini dell’accertamento della base imponibile IVA, anche per il periodo anteriore all’entrata in vigore della legge n. 413/91 cit., cosí da onerare il contribuente dell’allegazione di prove che all’epoca dei fatti, stante il dettato normativo in vigore, egli non era tenuto a precostituirsi»;
che, per il giudice rimettente, ciò comporta il contrasto di detta norma con: a) l’art. 3 Cost., perché crea una disparità di trattamento rispetto ad «altre imposte di natura indiretta», per le quali, non applicandosi la norma denunciata, non operano gli stessi meccanismi presuntivi; b) gli artt. 23 e 53 Cost., perché il meccanismo presuntivo da essa previsto, in quanto retroattivamente applicabile, può rendere difficile al contribuente la prova del suo effettivo debito d’imposta; c) l’art. 97 Cost., perché prevede, per gli anni anteriori al 1992, «una presunzione legale, che è, in molti casi, sostanzialmente assoluta, ai fini dell’accertamento della base imponibile IVA», creando una indebita situazione di privilegio per la pubblica amministrazione e compromettendo il buon andamento di questa; d) l’art. 2 Cost. (parametro evocato solo nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione); e) i princípi di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento del cittadino, perché impone a quest’ultimo l’onere di giustificare i movimenti del proprio conto corrente bancario con l’allegazione di prove che, per gli anni anteriori al 1992, non era tenuto a precostituirsi; f) il criterio interpretativo posto dall’art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente) – costituente principio generale dell’ordinamento tributario, ai sensi dell’art. 1 della medesima legge –, secondo cui «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo»; g) i princípi di correttezza e buona fede che debbono informare i rapporti tra amministrazione e finanziaria e contribuenti, come risulta dalla complessiva disciplina degli artt. 5, 6, 7 e 10 della citata legge n. 212 del 2000 e come riconosciuto, altresí, dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, della Corte costituzionale, della Corte di giustizia CE e della Corte europea dei diritti dell’uomo;
che, per il giudice a quo, l’ordinanza n. 260 del 2000 della Corte costituzionale non costituisce ostacolo alla proposizione della questione, perché tale pronuncia non afferma che l’applicazione degli accertamenti di cui all’art. 51, secondo comma, numero 2), del d.P.R. n. 633 del 1972 anche ad annualità d’imposta anteriori all’entrata in vigore della legge n. 413 del 1991 è conforme al dettato costituzionale, ma si limita a chiarire che le risultanze degli accertamenti bancari fondano presunzioni solo relative, superabili dal contribuente con la dimostrazione che dette risultanze non si riferiscono ad operazioni imponibili o che di esse ha tenuto conto nelle dichiarazioni presentate;
che infine, quanto alla rilevanza, il giudice rimettente afferma che l’interpretazione della norma denunciata fa parte del thema decidendum del giudizio di appello portato al suo esame;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate;
che, in particolare, secondo la difesa erariale: a) le norme dello statuto dei diritti del contribuente non costituiscono parametro costituzionale; b) il rimettente muove dall’inesatta premessa ermeneutica che la norma denunciata abbia efficacia retroattiva;
che, a quest’ultimo riguardo, l’Avvocatura generale dello Stato – invocando a sostegno varie sentenze della Corte di cassazione (n. 1728 del 1999; n. 9611 del 2000; n. 26692 del 2005; n. 14023 del 2007) – rileva che la disposizione denunciata va interpretata come riguardante non già l’imposizione, ma il potere di accertamento, con la conseguenza che, in applicazione del principio tempus regit actum, la disciplina degli accertamenti fiscali è regolata dalla legge vigente al momento in cui viene eseguita la verifica, anche se questa concerne periodi di imposta anteriori al 1992;
che, per la difesa erariale, tale interpretazione della disposizione denunciata non è lesiva dei princípi di ragionevolezza e di tutela dell’affidamento del contribuente, perché, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione: a) anche prima delle innovazioni introdotte dall’art. 18, comma 2, lettera a), della legge n. 413 del 1991, le indagini su conti correnti bancari, a fini tributari, non erano precluse ed erano, perciò, legittimi gli accertamenti basati su dette indagini (sentenza n. 2668 del 1996); b) l’aspettativa di una maggiore probabilità di sottrarsi alla scoperta di irregolarità od infrazioni non integra un diritto tutelabile (sentenza n. 1728 del 1999); c) la norma censurata non ha operato alcuna inversione dell’onere della prova in relazione ai dati emergenti dagli accertamenti bancari, ma ha solo reso “legali” le presunzioni che in precedenza dovevano considerarsi “semplici” (sentenza n. 11778 del 2001);
che l’Avvocatura generale dello Stato, infine, con riferimento ai parametri costituzionali evocati, osserva: 1) quanto all’art. 3 Cost., che il rimettente, da un lato, non ha indicato le situazioni analoghe che sarebbero sottoposte a differente disciplina e, dall’altro, non ha considerato le norme aventi un contenuto sostanzialmente analogo a quello della norma denunciata (come l’art. 32, primo comma, numero 2 e numero 7, del d.P.R. n. 600 del 1973); 2) quanto all’art. 23 Cost, che tale articolo non solo riguarda esclusivamente le norme tributarie impositive o sostanziali e non quelle aventi ad oggetto il potere di accertamento (come la norma censurata), ma, comunque, risulta pienamente rispettato, nella specie; 3) quanto all’art. 53, primo comma, Cost., che l’accertamento presuntivo (suscettibile di prova contraria) consentito dalla norma censurata costituisce uno strumento diretto proprio ad attuare il principio di capacità contributiva; 4) quanto alla dedotta violazione del principio dell’imparzialità e del buon andamento dell’attività della pubblica amministrazione, che la censura è oscura e l’art. 97 Cost. non è conferente.
Considerato che la Commissione tributaria regionale della Toscana dubita, in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 51, secondo comma, numero 2), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), come sostituito – con effetto dal 1° gennaio 1992 – dall’art. 18, comma 2, lettera a), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l’attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale), e come interpretato, con la sentenza n. 4732 del 2006, dalla Corte di cassazione nel formulare il principio di diritto cui deve uniformarsi la medesima Commissione quale giudice di rinvio;
che la Commissione tributaria rimettente precisa che la suddetta norma censurata consente all’amministrazione finanziaria di assumere iniziative ispettive e di accertamento della base imponibile dell’IVA presso istituti di credito e di porre a base delle rettifiche e degli accertamenti i dati e gli elementi risultanti da tali indagini (se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili), anche in relazione a periodi d’imposta anteriori a quello in corso alla data di entrata in vigore della suddetta legge n. 413 del 1991 (1° gennaio 1992);
che, secondo il giudice a quo, la disposizione denunciata, cosí interpretata, si pone in contrasto con gli evocati parametri costituzionali e, in particolare, con: a) l’art. 2 Cost.; b) l’art. 3 Cost., perché crea una disparità di trattamento rispetto ad «altre imposte di natura indiretta», per le quali, non applicandosi la norma denunciata, non operano gli stessi meccanismi presuntivi, senza che a tale rilievo possa opporsi l’esistenza di «disposizioni corrispondenti in materia di accertamento delle imposte sui redditi», trattandosi di disposizioni non aventi carattere generale; c) gli artt. 23 e 53 Cost., perché il meccanismo presuntivo da essa previsto, in quanto retroattivamente applicabile, «può rendere impossibile od estremamente difficile al contribuente la prova della effettività del suo debito d’imposta, nonché della sussistenza e della dimensione delle operazioni imponibili», onerando il contribuente dell’allegazione di prove che all’epoca dei fatti, stante il dettato normativo in vigore, egli non era tenuto a precostituirsi; d) l’art. 97 Cost., perché prevede, per gli anni anteriori al 1992, «una presunzione legale, che è, in molti casi, sostanzialmente assoluta, ai fini dell’accertamento della base imponibile IVA» e, pertanto, «si traduce in una indebita situazione di privilegio» per la pubblica amministrazione, compromettendo il buon andamento di questa;
che, come costantemente affermato da questa Corte, il regime delle preclusioni proprio del giudizio di rinvio non impedisce di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma dalla quale è tratto il “principio di diritto” enunciato dalla Corte di cassazione con la sentenza di cassazione con rinvio (ex plurimis: sentenze nn. 349 e 78 del 2007; n. 224 del 1996; n. 58 del 1995; n. 257 del 1994; n. 138 del 1993; ordinanze n. 153 del 2007; n. 501 del 2000; n. 11 del 1999);
che, sotto questo profilo, le sollevate questioni – aventi ad oggetto l’interpretazione risultante dal “principio di diritto” stabilito dalla Corte di cassazione – sono ammissibili;
che, come risulta dal dispositivo e dalla motivazione dell’ordinanza di rimessione, il rimettente non ha inteso evocare quali parametri costituzionali né i «princípi di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento del cittadino», né l’«art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212», né gli «artt. 5, 6, 7 e 10 della citata legge n. 212 del 2000», perché tali princípi e disposizioni sono stati da lui menzionati al solo fine di sottolineare la gravità del contrasto della norma denunciata con i parametri costituzionali evocati;
che la questione proposta con riferimento all’art. 2 Cost. è manifestamente inammissibile, perché il rimettente non indica le ragioni della ritenuta non manifesta infondatezza della questione medesima con riferimento a tale parametro, indicato soltanto nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione;
che la questione relativa all’asserita violazione del principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. è manifestamente infondata, perché: a) «è formulata dal rimettente senza alcuna indicazione delle situazioni asseritamente analoghe che sarebbero sottoposte a differente disciplina; […] al contrario, norme sostanzialmente analoghe a quelle denunciate sono previste ai fini dell’accertamento, nei confronti di tutti i contribuenti, delle imposte sui redditi (cfr. art. 32, primo comma, numeri 2 e 7, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, come modificati, anch’essi, dal medesimo art. 18 della legge 30 dicembre 1991, n. 413 […])» (ordinanza n. 260 del 2000 citata dallo stesso giudice a quo, che ha già dichiarato manifestamente infondata una questione identica a quella in esame); b) il rimettente non solo non precisa i tertia comparationis da lui genericamente richiamati, ma nemmeno spiega la ragione per cui le disposizioni in materia di accertamento delle imposte sui redditi corrispondenti a quella censurata non avrebbero carattere generale;
che anche le questioni relative all’asserita violazione degli artt. 23 e 53 Cost. sono manifestamente infondate, perché il giudice a quo muove dall’erroneo presupposto che la norma denunciata abbia efficacia retroattiva;
che tale presupposto è infondato, perché la suddetta norma è dettata con riferimento non già agli anni d’imposta oggetto delle indagini degli uffici tributari, ma all’acquisizione, da parte degli uffici stessi, di dati relativi ai conti correnti bancari e simili, concernenti qualsiasi periodo d’imposta e, quindi, anche i periodi – come quello al quale si riferisce il giudizio principale – anteriori al 1992, anno di entrata in vigore della suddetta legge n. 413 del 1991;
che, pertanto, la norma denunciata non ha efficacia retroattiva ed esplica i suoi effetti solo sul piano istruttorio, con la conseguenza che – contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente – il contribuente non può subire alcun pregiudizio, rilevante ai fini del giudizio di costituzionalità, in caso di applicazione di detta norma ad anni d’imposta anteriori al 1992, in quanto: a) sul piano sostanziale, la pretesa impositiva erariale e gli obblighi tributari del contribuente non mutano per effetto dell’applicazione del censurato art. 51, secondo comma, numero 2), del d.P.R. n. 633 del 1972; b) il contribuente non può vantare alcun legittimo affidamento ad evitare che l’accertamento relativo agli anni d’imposta anteriori al 1992 sia effettuato in base alla norma censurata, successivamente al 1° gennaio 1992 (come si è verificato nella specie); c) la presunzione basata sui dati bancari è suscettibile di prova contraria e, comunque, si fonda ragionevolmente sul carattere oggettivo delle risultanze (ordinanze n. 33 del 2002 e n. 260 del 2000), oltre che sulla natura e consistenza degli elementi in concreto utilizzati dall’amministrazione (come chiarito anche dalla sentenza della Corte di cassazione n. 11778 del 2001);
che, dunque, la norma medesima, in quanto si limita ad integrare i poteri istruttori esercitabili dall’amministrazione finanziaria ai fini dell’accertamento, riguarda il solo profilo probatorio e, perciò, non vulnera il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.(come già precisato dalla citata ordinanza di questa Corte n. 260 del 2000);
che, inoltre, il principio della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. risulta pienamente rispettato, sia perché la norma denunciata è posta da una legge ordinaria non avente efficacia retroattiva, sia perché, comunque, l’evocato art. 23 Cost. non stabilisce alcun principio di irretroattività della legge tributaria (ordinanza n. 428 del 2006);
che tali conclusioni coincidono con il diritto vivente in materia (ivi compresa la sentenza che ha formulato il “principio di diritto” vincolante per il giudice rimettente), secondo cui la norma denunciata non ha efficacia retroattiva, attiene alle sole operazioni di acquisizione dei dati bancari (cioè ad un piano “processuale” ed istruttorio) e, quindi, può essere applicata ad anni d’imposta anteriori al 1992, in piena coerenza con il principio tempus regit actum (ex plurimis, Corte di cassazione, sentenze n. 14023 del 2007; n. 19613 del 2006; n. 4732 del 2006);
che anche la questione relativa alla asserita violazione dell’art. 97 Cost. è manifestamente infondata, perché la norma denunciata non compromette né l’imparzialità né il buon andamento della pubblica amministrazione, limitandosi a chiarire quali presunzioni (oggettive, ragionevoli e relative) possono essere poste a base delle rettifiche e degli accertamenti tributari di cui agli artt. 54 e 55 del d.P.R. n. 633 del 1972.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
La Corte costituzionale
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, secondo comma, numero 2), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), come sostituito dall’art. 18, comma 2, lettera a), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l’attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale), sollevata, con riferimento all’art. 2 della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale della Toscana con l’ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 51, secondo comma, numero 2), del d.P.R. n. 633 del 1972, come sostituito dall’art. 18, comma 2, lettera a), della legge n. 413 del 1991, sollevate, con riferimento agli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost., dalla stessa Commissione tributaria regionale della Toscana con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Franco GALLO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.