Ordinanza n. 153 del 2007

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ORDINANZA N. 153

ANNO 2007

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                      BILE                                       Presidente

- Giovanni Maria         FLICK                                     Giudice

- Francesco                 AMIRANTE                                 "

- Ugo                          DE SIERVO                                 "

- Romano                    VACCARELLA                            "

- Paolo                        MADDALENA                             "

- Alfio                        FINOCCHIARO                           "

- Alfonso                    QUARANTA                                "

- Franco                      GALLO                                        "

- Luigi                        MAZZELLA                                 "

- Gaetano                    SILVESTRI                                  "

- Sabino                      CASSESE                                     "

- Maria Rita                SAULLE                                      "

- Giuseppe                  TESAURO                                    "

- Paolo Maria              NAPOLITANO                              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 324 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 20 dicembre 2004 dal Tribunale di Parma sulla richiesta di riesame proposta da P.E. ed altri, iscritta al n. 240 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 2005.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 marzo 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che, con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Parma ha sollevato, in riferimento all’art. 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 324 del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione fornita dalla Corte di cassazione, vincolante per il giudice a quo perché espressa, quale principio di diritto, in una sentenza di annullamento con rinvio – limita i poteri del tribunale del riesame, nel caso di impugnazione di un decreto di sequestro preventivo, alla verifica della «sola astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato, senza alcuna possibilità di verificare, nel singolo caso concreto − sulla base dei fatti per come indicati dal pubblico ministero ed esaminati alla luce delle argomentazioni difensive – se sia ravvisabile il fumus del reato prospettato dall’accusa»;

che il rimettente premette, in fatto, che il Tribunale di Parma aveva revocato, in sede di riesame, il decreto di sequestro preventivo di un complesso immobiliare – disposto in relazione a supposte irregolarità dell’aggiudicazione di una gara pubblica – ritenendo insussistente il «fumus» dell’ipotizzato delitto di abuso di ufficio, stante l’assenza di prova circa l’intento della pubblica amministrazione di procurare un ingiusto vantaggio alla società aggiudicataria;

che, in accoglimento del ricorso proposto dal pubblico ministero, la Corte di cassazione aveva annullato con rinvio l’ordinanza di revoca, sul rilievo che il Tribunale aveva esorbitato dai limiti della cognizione del giudice in sede di riesame di misure cautelari reali, arrogandosi compiti propri dell’accertamento sul merito dell’imputazione;

che, al riguardo, la Corte di cassazione aveva enunciato, in particolare, il principio di diritto in forza del quale «la verifica della legittimità del provvedimento con cui è stato disposto un sequestro preventivo non può sconfinare nel sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa, dovendosi contenere nella valutazione della astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato (fumus delicti)» e nel riscontro del periculum in mora, ossia del pericolo che la libera disponibilità della cosa pertinente al reato possa agevolare o protrarre le conseguenze di esso o agevolare la commissione di altri reati;

che, in tale prospettiva – sempre alla stregua dell’enunciato principio di diritto – «esula […] dal controllo affidato al giudice della cautela reale non solo il concreto accertamento delle circostanze di fatto su cui l’accusa è fondata, ma anche l’analisi dell’elemento psicologico del reato, a meno che la carenza di esso sia rilevabile ictu oculi» (evenienza, quest’ultima, non ravvisabile nel caso di specie, stando agli stessi dati argomentativi offerti dal Tribunale): e ciò in quanto, diversamente opinando, si verrebbe impropriamente ad anticipare alla fase cautelare «una decisione sulle questioni di merito, in un contesto in cui lo sviluppo delle indagini in corso non consente ancora una focalizzazione dell’imputazione e le determinazioni del pubblico ministero circa l’esercizio dell’azione penale»;

che, ad avviso del rimettente, l’interpretazione offerta dalla Corte di cassazione – vincolante per il rimettente stesso in quanto giudice del rinvio, ai sensi dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen. – porrebbe l’art. 324 cod. proc. pen. (che regola il procedimento di riesame delle misure cautelari reali, in forza dei richiami ad esso operati dagli artt. 318 e 322 dello stesso codice) in contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost.;

che, alla luce della regula iuris enunciata dalla sentenza rescindente, il compito del giudice del riesame del decreto di sequestro preventivo sarebbe limitato, infatti, ad una mera ed astratta «verifica cartolare» della corrispondenza tra le imputazioni concretamente formulate dall’accusa e «la rubrica dei reati presupposti»: ossia ad una indagine basata su indici puramente estrinseci e formali, che non consentirebbe, di fatto, il doveroso controllo delle condizioni che legittimano l’applicazione della misura di cautela reale;

che, in tal modo, detto giudice verrebbe dunque privato del potere-dovere di esercitare – sia pure nell’ambito delle «non censurabili indicazioni di fatto offerte dal pubblico ministero» – quel controllo di legalità che è insito nel principio di «terzietà» della giurisdizione: vulnus, questo, desumibile, in assunto, anche dalla sentenza n. 48 del 1994 di questa Corte, che – pur dichiarando non fondata una analoga questione di legittimità costituzionale degli artt. 321 e 324 cod. proc. pen. – ha basato tale decisione sul rilievo che «neppure è a dirsi che il controllo del giudice» della cautela reale «non possa in alcun modo spingersi all’esame del fatto per il quale si procede»;

che il giudice a quo invoca, di conseguenza, una «pronuncia additiva» che permetta al giudice del riesame – sia pure incidentalmente ed ai soli fini del sequestro – «la puntuale verifica, nel contraddittorio delle parti, della concreta commissione di un fatto oggettivamente antigiuridico»;

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità della questione: ciò in quanto, secondo la difesa erariale, il problema evocato dal giudice a quo ammetterebbe molteplici soluzioni, la scelta fra le quali resterebbe rimessa alla discrezionalità del legislatore.

Considerato che il Tribunale di Parma dubita, in riferimento all’art. 111, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 324 cod. proc. pen., nella parte in cui – secondo l’interpretazione offerta dalla Corte di cassazione, vincolante per il rimettente in quanto giudice del rinvio – limita i poteri del tribunale del riesame, in caso di impugnazione del decreto di sequestro preventivo, «alla sola astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato, senza possibilità di verificare, nel singolo caso concreto − sulla base dei fatti per come indicati dal pubblico ministero ed esaminati alla luce delle argomentazioni difensive – se sia ravvisabile il fumus del reato prospettato dall’accusa»;

che, ad avviso del rimettente, una simile configurazione dei poteri del giudice del riesame – limitando la funzione giurisdizionale di quest’ultimo alla sola verifica della astratta configurabilità del reato ipotizzato dall’accusa a fondamento della cautela reale – non consentirebbe un effettivo «controllo di legalità» sulla misura, alterando così la condizione di parità delle parti e compromettendo, in pari tempo, la terzietà del giudice;

che la questione proposta finisce, tuttavia, per risolversi in una impropria richiesta, a questa Corte, di “interpretazione” del principio di diritto che il rimettente è chiamato ad applicare, come dimostra anche il carattere meramente “discorsivo” del petitum, insuscettibile di tradursi nei contenuti necessariamente specifici di una «pronuncia additiva» di illegittimità costituzionale;

che il rimettente non si adopera, in effetti, per ricercare un’interpretazione di detto principio conforme a quella che il rimettente stesso reputa essere una lettura “costituzionalmente orientata” dei poteri dell’organo del riesame;

che il giudice a quo assume, difatti, in modo del tutto apodittico, che – per effetto del vincolo scaturente dalla regula iuris enunciata dalla Corte di legittimità – il proprio potere giurisdizionale resterebbe circoscritto ad un riscontro, puramente “estrinseco” e “cartolare”, dei presupposti di adozione del sequestro preventivo, senza alcuna possibilità di verificare se, nel caso concreto, «sia ravvisabile il fumus del reato prospettato dall’accusa»;

che, in realtà – alla luce delle indicazioni della stessa ordinanza di rimessione – il principio di diritto, cui il giudice a quo è tenuto ad  uniformarsi, si limita a fissare, nel solco di un risalente e consolidato indirizzo giurisprudenziale, la preclusione, per il giudice del riesame delle cautele reali, di un accertamento sul merito dell’azione penale, nella precipua ottica di evitare un sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa compiuto nella fase delle indagini preliminari;

che, più in particolare, il nucleo centrale del principio in parola – per quel che espone lo stesso giudice a quo – non si discosta dal tradizionale (e incontestato) rilievo secondo il quale, riguardo alle misure cautelari reali, non è richiesto il presupposto della gravità indiziaria, postulato, invece, in tema di cautele personali, in correlazione alla diversità – pure di rango costituzionale – dei valori coinvolti;

che una simile ratio si riflette anche sulla ampiezza del sindacato giurisdizionale relativo alla verifica della “base fattuale” richiesta per l’adozione delle misure cautelari: valendo il paradigma della “elevata probabilità di responsabilità” nel caso delle misure cautelari personali; ed il diverso metro del “fumus commissi delicti” in tema di sequestri: e ciò tenuto conto anche del fatto che il nesso di pertinenzialità che, ai fini dell’applicabilità della cautela, deve sussistere tra oggetto del sequestro e reato, può prescindere – secondo il corrente indirizzo giurisprudenziale – da qualsiasi profilo di responsabilità del titolare del bene sequestrato;

che, in questa prospettiva, il principio di diritto de quo non risulta dunque prescrivere soltanto un controllo meramente “cartolare” e formale; né, correlativamente, esso risulta impedire – negli ovvi limiti, dianzi ricordati, propri del giudizio di riesame delle misure cautelare reali – la verifica, «nel singolo caso concreto», del «fumus» del reato ipotizzato dall’accusa, come risulta evidente, nella specie, dall’esplicito riferimento del principio di diritto stesso alla rilevabilità del difetto di elemento soggettivo, purché «ictu oculi»;

che la mancata verifica, da parte del rimettente, delle effettive preclusioni scaturenti dal principio di diritto affermato nella sentenza rescindente rende, pertanto, la questione manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 324 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all’art. 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Parma con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 aprile 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 4 maggio 2007.