Sentenza n. 329 del 2007

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SENTENZA N. 329

ANNO 2007

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                                  BILE                                  Presidente

- Giovanni Maria                    FLICK                                  Giudice

- Francesco                             AMIRANTE                               "

- Ugo                                      DE SIERVO                               "

- Paolo                                    MADDALENA                          "

- Alfio                                     FINOCCHIARO                        "

- Alfonso                                QUARANTA                             "

- Franco                                  GALLO                                      "

- Luigi                                     MAZZELLA                              "

- Gaetano                                SILVESTRI                                "

- Sabino                                  CASSESE                                   "

- Maria Rita                            SAULLE                                    "

- Giuseppe                              TESAURO                                 "

- Paolo Maria                          NAPOLITANO                          "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 128, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), promosso con ordinanza dell’11 gennaio 2006 dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia sul ricorso proposto da Bergamo Antonella contro il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca ed altri, iscritta al n. 220 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2006.

Visto l’atto di costituzione di Antonella Bergamo nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 5 giugno 2007 il Giudice relatore Sabino Cassese;

udito l’avvocato Ariosto Ammassari per Antonella Bergamo e l’avvocato dello Stato Diego Giordano per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 4, 35, 51 e 97 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 128, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato).

La disposizione censurata stabilisce che l’impiegato, dichiarato decaduto ai sensi della lettera d) del primo comma dell’art. 127 dello stesso d.P.R. n. 3 del 1957, e, cioè, secondo la previsione di quest’ultimo articolo, quando sia accertato che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile, non può concorrere ad altro impiego nell’amministrazione dello Stato.

Dinanzi al Tribunale pende il giudizio promosso da una docente per l’annullamento, previa sospensiva, delle graduatorie permanenti del concorso (di cui all’art. 1 della legge 3 maggio 1999, n. 124), formate dal dirigente del Centro Servizi Amministrativi (CSA) di Lecce, ai sensi del decreto del direttore generale 31 marzo 2005, limitatamente alla mancata inclusione in esse della stessa docente, in applicazione dell’art. 128, secondo comma, del d.P.R. n. 3 del 1957.

1.1. – Il giudice espone preliminarmente la vicenda presupposta al giudizio dinanzi a lui pendente, relativa alla dichiarazione di decadenza di tale docente, ai sensi dell’art. 127, primo comma, lettera d), del d.P.R. n. 3 del 1957.

La docente, dichiarando di essere invalida civile – nonostante fossa affetta da menomazione fisica (certificata) comportante la riduzione della capacità lavorativa del 37 per cento, quindi inferiore al minimo del 46 per cento previsto dalla legge (art. 1, comma 1, lett. a, della legge 12 marzo 1999, n. 68, recante «Norme per il diritto al lavoro dei disabili») per l’applicazione delle norme di tutela in materia di diritto al lavoro dei disabili – aveva ottenuto un contratto di lavoro a tempo determinato di insegnamento per l’anno scolastico 2002/2003.

In seguito ad un controllo d’ufficio, l’amministrazione – avendo accertato un grado di invalidità inferiore rispetto a quello dichiarato dalla docente – aveva disposto (con decreto del CSA n. 5638 del 3 giugno 2003) l’esclusione di quest’ultima dalle graduatorie permanenti relative all’anno scolastico 2002/2003, la nullità del contratto annuale di lavoro e la decadenza dall’impiego in applicazione dell’art. 127, primo comma, lettera d), del d.P.R. n. 3 del 1957. Il giudizio avverso il suddetto decreto si concludeva con sentenza, passata in giudicato, di rigetto dell’impugnativa, avendo il giudice ritenuto non scusabile, né inevitabile, l’ignoranza della misura di invalidità minima prevista dalla legge.

1.2. – Riferisce il Tribunale rimettente che la ricorrente del giudizio principale ha eccepito l’illegittimità costituzionale, in riferimento a più profili di irragionevolezza, dell’art. 128 del d.P.R. n. 3 del 1957, in applicazione del quale non è stata inclusa nelle graduatorie, e delle altre disposizioni che richiamano la disposizione censurata espressamente (art. 2, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, contenente «Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi») o implicitamente (art. 402 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado»).

1.3. – In ordine alla rilevanza, il rimettente sottolinea che, nonostante la doglianza della ricorrente nel giudizio principale concerna il dato negativo della non inclusione in graduatoria e non un atto positivo di esclusione, risulta certo che la mancata inclusione è derivata dall’applicazione dell’art. 128 suddetto e non da altri motivi ostativi. Di conseguenza, se la Corte costituzionale, pur ritenendo di per sé non illegittima una disposizione che connetta alla produzione di documenti non veridici la preclusione alla partecipazione a successivi concorsi, stabilisse che tale preclusione debba necessariamente essere disposta all’esito di una valutazione in concreto, il giudizio dovrebbe concludersi con l’accoglimento della domanda, risultando dagli atti che l’amministrazione ha omesso ogni verifica in concreto. Viceversa, se la Corte ritenesse non fondata la questione di legittimità costituzionale, il giudizio si concluderebbe con il rigetto della domanda. In conclusione, il rimettente sostiene che la causa non possa essere definita indipendentemente dalla risoluzione della questione di costituzionalità.

1.4. – Quanto alla non manifesta infondatezza, il Collegio si sofferma sulla violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo del difetto di ragionevolezza.

Non sarebbe ragionevole la scelta legislativa di riconnettere l’applicazione di una misura di tipo «para-sanzionatorio», quale la preclusione, peraltro definitiva, alla partecipazione a concorsi pubblici, al verificarsi di un determinato presupposto storico–fattuale, come il conseguimento dell’impiego mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità insanabile, in considerazione del carattere eterogeneo dei diversi fatti presupposti, quanto alla gravità obiettiva di essi (dal reato di falso alla irregolarità documentale).

Tale scelta del legislatore contrasterebbe con il principio – enucleato dalla giurisprudenza costituzionale – del tendenziale superamento di sanzioni rigide ed «avulse da un confacente rapporto di adeguatezza con il caso concreto»; principio ormai «largamente tendenziale – in adempimento del principio di eguaglianza – nell’area punitiva penale e con identica incidenza anche nel campo disciplinare amministrativo» (sentenza n. 971 del 1988). L’estrema rigidità della disposizione impugnata contrasterebbe con il canone di gradualità sanzionatoria, affermato pure dalla Corte costituzionale, volto a salvaguardare il parallelismo fra gravità delle condotte e conseguenze «(para)sanzionatorie», e violerebbe perciò il canone di razionalità normativa (sentenze n. 126 del 1995, n. 134 del 1992 e n. 415 del 1991).

Né, secondo il rimettente, sussistono particolari condizioni di gravità idonee a giustificare la deroga al suddetto principio. Nel caso di specie, infatti, la docente non ha commesso un reato di falso e la sentenza con la quale è stato rigettato il ricorso avverso il decreto che pronunciava la decadenza dall’impiego (sentenza del TAR Lecce n. 8908 del 2003) si è limitata ad accertare l’inescusabilità dell’ignoranza in ordine alla misura dell’invalidità minima per il diritto alla tutela dei disabili. Quindi, non sarebbe conforme al richiamato canone di razionalità normativa la previsione di un meccanismo automatico che riconnetta un’unica conseguenza ad una gamma eterogenea di comportamenti presupposti, prescindendo dall’eventuale stato soggettivo di buona fede e dall’accertamento in concreto delle circostante rilevanti per ricostruire la gravità della condotta.

Il Tribunale rimettente dà atto che la giurisprudenza costituzionale in tema di adeguatezza tra fatto presupposto e conseguenza afflittiva ha prevalentemente riguardato il rapporto tra reato e sanzione disciplinare, settore in cui è possibile la graduazione dei fatti commessi e delle corrispondenti sanzioni, mentre nel caso di specie non sarebbe possibile individuare una graduazione delle conseguenze, avendo l’amministrazione la sola possibilità di scegliere tra l’ammettere o meno il candidato alle prove concorsuali. Tuttavia, secondo il giudice a quo, ciò non può impedire l’applicazione del principio di gradualità sanzionatoria (sentenza n. 363 del 1996). Il legislatore avrebbe potuto considerare i presupposti secondo una scala di crescente gravità e riconnettere alle sole ipotesi più gravi la conseguenza drastica della preclusione alla partecipazione a nuovi concorsi. Inoltre, avrebbe potuto rimettere all’amministrazione il compito di verificare e valutare in concreto la sussistenza dei presupposti «circa la maggiore o minore gravità della condotta in concreto realizzata dall’interessato, giungendo solo all’esito di tale valutazione a poter esprimere un giudizio circa la sussistenza dei presupposti per l’applicazione» della esclusione da tutte le future prove concorsuali.

La norma censurata sarebbe anche irragionevole sotto il diverso profilo del carattere definitivo della misura inflitta, determinando una sorta di perpetua incapacità personale anche quando la decadenza dell’impiego non derivi da reato, mentre nel sistema penale sono delimitate le ipotesi di interdizione perpetua e temporanea dai pubblici uffici (art. 29 del codice penale).

Inoltre, tale vizio di costituzionalità sarebbe di tale gravità da comprimere – in modo sproporzionato rispetto all’esigenza di tutela della fede pubblica, a salvaguardia della quale sono essenzialmente posti gli artt. 127 e 128 del d.P.R. n. 3 del 1957 – altri diritti a valenza costituzionale, quali il diritto al lavoro e il diritto di accedere agli uffici pubblici di cui agli artt. 4, 35 e 51 Cost.

Infine, la norma censurata violerebbe il principio del buon andamento della pubblica amministrazione sotto il profilo della migliore utilizzazione delle risorse professionali potenzialmente a disposizione, impedendo definitivamente ad alcuni soggetti di partecipare alle selezioni per l’accesso agli impieghi pubblici, indipendentemente dalla verifica in concreto della presenza di elementi ostativi gravi.

2. – E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di costituzionalità sollevata sia dichiarata infondata.

Secondo la difesa erariale, le censure non rientrano nel solco della giurisprudenza costituzionale in materia di esclusione di sanzioni rigide. L’Avvocatura ritiene che la delimitazione dei presupposti di operatività della norma effettuata dalla giurisprudenza amministrativa, nel senso della necessaria consapevolezza dell’uso dei documenti falsi, costituisce il modo di operare, «nel campo disciplinare amministrativo, di un unico principio dell’ordinamento […] che sanziona non la creazione di documentazione falsa, bensì […] il fatto (doloso) del suo mero utilizzo», e, a tal fine, richiama i delitti di cui agli artt. 485 e 489 del codice penale, nei quali rileverebbe l’uso dell’atto falso. L’art. 128 censurato, quindi, prenderebbe in esame un unico comportamento, consistente nell’utilizzazione consapevole del documento falso, idoneo a pregiudicare l’interesse dell’amministrazione. Tale interesse consisterebbe sia «nel non assumere personale al di fuori e in violazione dei casi previsti dalla norma, sia nel precludere l’instaurarsi del rapporto di impiego con soggetti che comunque hanno agito in danno e contro la medesima pubblica amministrazione, che pur dovrebbero (e vorrebbero) servire, vale a dire in palese violazione dei principi di fedeltà e lealtà che costituiscono uno dei cardini del rapporto di impiego».

Quanto alla lesione del principio di ragionevolezza sotto il profilo della definitività dell’esclusione dai concorsi ad altri impieghi statali, la difesa erariale sostiene che tale conseguenza trova fondamento nella gravità eccezionale della condotta ed appare ragionevole e di buon senso in relazione alla natura fiduciaria del rapporto d’impiego.

3. – Si è costituita la ricorrente del giudizio principale, chiedendo l’accoglimento della questione di costituzionalità sollevata e delle «successive norme che ripropongono lo stesso precetto» (art. 2, comma 3, del d.P.R. n. 487 del 1994; art. 402 del d.lgs. n. 297 del 1994).

Nell’attuale contesto normativo, caratterizzato dall’equiparazione fra lavoro pubblico e lavoro privato, la limitazione all’accesso al lavoro pubblico sarebbe irragionevole rispetto alla libertà del datore di lavoro privato di valutare concretamente la compatibilità della condotta pregressa del candidato con il suo inserimento nell’organizzazione produttiva. Inoltre, l’automatismo e la perpetuità che impedisce alla pubblica amministrazione qualsiasi valutazione concreta della fattispecie, contrasterebbero con il diritto di accedere agli uffici pubblici (artt. 4 e 51 Cost.) e con l’interesse pubblico a che l’amministrazione possa selezionare la professionalità dei migliori cui affidare gli uffici pubblici.

3.1. – In prossimità della data fissata per l’udienza, la parte privata ha depositato memoria argomentando ulteriormente rispetto alle conclusioni già formulate.

Sottolinea che dal diritto al lavoro – come fondamentale diritto di libertà della persona – discende il principio, affermato dalla stessa Corte costituzionale, secondo cui il legislatore non può introdurre requisiti di accesso ai pubblici uffici che si traducano in arbitrarie discriminazioni o ingiustificate barriere all’ingresso nel posto di lavoro (sentenza n. 108 del 1994). Si sofferma sul carattere irreversibile della preclusione stabilita dall’art. 128 censurato – quale emerge dall’irrilevanza dell’eventuale riabilitazione penale o della decorrenza della pena accessoria di interdizione temporanea dai pubblici uffici – sostenendo che nel nostro ordinamento le ipotesi di privazione del cittadino di diritti costituzionalmente garantiti devono essere confinate a casi eccezionali. A tal fine, ricorda che la stessa Corte costituzionale (sentenze n. 284 del 1999 e n. 3 del 1994) ha ritenuto illegittimo il divieto di rientro in servizio per il dipendente colpito da dispensa per infermità. Aggiunge che le altre cause di preclusione all’accesso sono reversibili, con l’eccezione della destituzione e della dispensa per incapacità. Ma, in queste ultime ipotesi, il provvedimento espulsivo, che determina l’incapacità a concorrere ad un futuro impiego, è assunto (per effetto delle sentenze della Corte costituzionale, a partire dalla n. 270 del 1986) all’esito di una valutazione in concreto della condotta dell’impiegato nell’ambito di un procedimento disciplinare (destituzione), o all’esito di un procedimento in contraddittorio che dà la possibilità all’impiegato di modificare il proprio rendimento in servizio (dispensa). Invece, nel caso in esame – sottolinea la difesa della parte privata – la decadenza di cui all’art. 127, primo comma lettera d), del d.P.R. n. 3 del 1957 è vincolata (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 148 del 2006), la falsità o nullità può anche non essere riferibile all’impiegato e non è impedita dalla eventuale buona fede (Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 1752 del 1994). In sostanza, nella specie, si tratterebbe dell’unico caso in cui la legge non consente la valutazione del caso concreto, irragionevolmente comprimendo un fondamentale diritto di libertà della persona.

Inoltre, prosegue la difesa, la presenza di condanne penali definitive non ostacola in sé la costituzione di un rapporto di lavoro pubblico, procedendo l’amministrazione ad una autonoma valutazione della natura e della gravità del reato in relazione alla natura e alle funzioni da conferire (Consiglio di Stato, Sezione III, n. 712 del 1996 e Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 1487 del 1997). Invece, l’art. 128 censurato esclude tale valutazione, con il «paradossale risultato» che un soggetto condannato per il delitto di falso in atto pubblico può essere riammesso in servizio ai sensi dell’art. 10 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (se non destituito), o ammesso in esito a concorso, mentre un soggetto dichiarato decaduto, non per falsità ma per vizi amministrativi dei documenti di assunzione, è considerato definitivamente indegno di essere riammesso in servizio. Tanto renderebbe evidente l’irragionevolezza della disposizione censurata «che costituisce un dato oramai eccentrico al sistema ed incompatibile anche con la ratio della legislazione successiva».

Altro sintomo dell’irrazionalità sarebbe costituito dall’indeterminatezza della fattispecie presupposta (art. 127, primo comma, lettera d), che non indica le modalità dell’accertamento (processo penale o istruttoria amministrativa) e rinvia ad una categoria onnicomprensiva, «l’invalidità insanabile» dell’atto, senza coordinamento con la legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), che definisce la nullità e l’annullabilità (artt. 21-septies e 21-octies). Quindi, secondo la prospettazione della parte, la genericità e l’eterogeneità dei fatti che possono condurre alla dichiarazione vincolata di decadenza «postula necessariamente che la preclusione alla successiva riammissione in servizio sia oggetto di una specifica e concreta valutazione».

Considerato in diritto

1. – E’ all’esame della Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 128, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato). La disposizione censurata stabilisce che l’impiegato dichiarato decaduto ai sensi della lettera d) del primo comma dell’art. 127 dello stesso decreto, e cioè quando sia accertato che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile, non può concorrere ad altro impiego nell’amministrazione dello Stato.

Dinanzi al Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, pende il giudizio promosso da una docente per l’annullamento delle graduatorie permanenti del concorso (di cui all’art. 1 della legge 3 maggio 1999, n. 124), limitatamente alla sua mancata inclusione, in applicazione dell’art. 128, secondo comma, del d.P.R. n. 3 del 1957. La docente era stata dichiarata decaduta, ai sensi del citato art. 127, primo comma, lettera d) dello stesso decreto, da un contratto annuale di insegnamento, avendo dichiarato di essere invalida civile, nonostante fossa affetta da minorazione fisica comportante una riduzione della capacità lavorativa inferiore al minimo previsto dalla legge per l’applicazione delle norme di tutela in materia di diritto al lavoro dei disabili. Il giudizio avverso il decreto di decadenza si era concluso con la sentenza di rigetto dell’impugnativa, passata in giudicato, avendo il giudice ritenuto non scusabile, né inevitabile l’ignoranza della misura di invalidità minima prevista dalla legge.

La Corte è chiamata a decidere se la norma censurata, anche in considerazione del carattere definitivo della esclusione dai concorsi ad altro impiego nell’amministrazione dello Stato, violi: a) l’art. 3 Cost., per irragionevolezza, atteso che la diversa gravità obiettiva dei fatti presupposti (dal reato di falso alla irregolarità documentale) contrasterebbe con il principio – enucleato dalla giurisprudenza costituzionale – della gradualità sanzionatoria e del tendenziale superamento di sanzioni rigide, volto a salvaguardare il parallelismo fra gravità delle condotte e conseguenze sanzionatorie; b) gli artt. 4, 35 e 51 Cost., essendo il difetto di ragionevolezza suddetto di tale gravità da comprimere altri diritti a valenza costituzionale, quali il diritto al lavoro e il diritto di accedere agli uffici pubblici; c) l’art. 97 Cost., sotto il profilo che, impedendo definitivamente ad alcuni soggetti di partecipare alle selezioni per l’accesso agli impieghi pubblici senza la verifica in concreto della presenza di gravi elementi ostativi, sarebbe violato il principio del buon andamento della pubblica amministrazione in riferimento alla migliore utilizzazione delle risorse professionali potenzialmente a disposizione.

2. – In via preliminare, va precisato che è inammissibile l’estensione dell’oggetto del giudizio alle «successive norme che ripropongono lo stesso precetto» (cioè all’art. 2, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, contenente «Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi», e all’art. 402 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado»), prospettata dalla parte privata costituita. L’oggetto del giudizio di costituzionalità è delimitato dall’ordinanza di rimessione, potendo le parti private solo argomentare in ordine ai profili di illegittimità prospettati dal giudice rimettente rispetto alla norma censurata (sentenza n. 220 del 2007).

3. – La questione è fondata nei termini di seguito precisati.

3.1. – E’ opportuno soffermarsi sul quadro legislativo entro cui si inserisce l’art. 128 del d.P.R. n. 3 del 1957.

Nell’ambito dei requisiti generali per l’accesso all’impiego pubblico, l’art. 2, comma 5, del testo unico n. 3 del 1957 prevede alcune limitazioni. Non possono accedere all’impiego: a) coloro che siano esclusi dall’elettorato attivo (in base all’art. 2 del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, contenente «Approvazione del testo unico delle leggi per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali», coloro che sono sottoposti a misure di prevenzione e sicurezza e coloro ai quali è stata inflitta l’interdizione perpetua o temporanea – per il tempo della stessa – dai pubblici uffici, sempre che sia intervenuto un provvedimento definitivo); b) coloro che siano stati destituiti (all’esito del procedimento disciplinare) o dispensati (per insufficiente rendimento) dall’impiego.

L’art. 128, secondo comma, del testo unico n. 3 del 1957 aggiunge una limitazione all’accesso per l’impiegato dichiarato decaduto, «quando sia accertato che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile» (art. 127, primo comma, lettera d).

Con riferimento al personale della scuola, il relativo testo unico (art. 402, comma 4, del d.lgs. n. 297 del 1994) richiede il possesso dei requisiti per l’ammissione ai concorsi di accesso agli impieghi civili dello Stato.

La norma denunciata non è inclusa nel processo di contrattualizzazione del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni. Essa concerne i requisiti per l’accesso e rientra nell’ambito dei «procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro e di avviamento al lavoro», di cui all’art. 2, comma 1, lettera c), numero 4, della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), richiamati dall’art. 69, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), per escludere la contrattualizzazione della materia ivi disciplinata. Per il personale della scuola, l’art. 70, comma 8, dello stesso d. lgs. n. 165 del 2001, dispone che sono fatte salve le procedure di reclutamento di cui al d. lgs. n. 297 del 1994.

3.2. – Le limitazioni legislative all’accesso agli uffici pubblici si collocano nell’area coperta da tre precetti costituzionali. Il legislatore individua, infatti, i requisiti negativi necessari per l’ingresso nel rapporto di lavoro pubblico contemperando il diritto di tutti di accedere agli uffici pubblici (art. 51 Cost.) con l’esigenza di garantire, anche attraverso la scelta del personale, il buon andamento e l’imparzialità dell’organizzazione amministrativa (art. 97 Cost.) e il rispetto del dovere di lealtà dei dipendenti pubblici (art. 98 Cost.).

L’art. 128, secondo comma, del d.P.R. n. 3 del 1957 persegue due obiettivi conformi alla Costituzione. Il primo è di vietare l’instaurazione del rapporto di impiego con soggetti che abbiano agito in violazione del principio di lealtà, che costituisce – come notato – uno dei cardini dello stesso rapporto (art. 98 Cost.). Il secondo è di tutelare l’eguaglianza dei concorrenti, pregiudicati dalla sleale competizione con chi abbia partecipato alla selezione con documenti falsi o viziati (art. 97 Cost.).

Tuttavia, esso non è conforme al principio, «che è alla base della razionalità che domina “il principio di uguaglianza”» (sentenza n. 16 del 1991) di cui all’art. 3 Cost., di adeguatezza tra illecito amministrativo e sanzione (affermato da questa Corte a partire dalla sentenza n. 270 del 1986). Infatti, la preclusione prevista nell’art. 128 censurato colpisce per una durata illimitata nel tempo e automaticamente, senza distinzione, tutti i comportamenti (dalle varie fattispecie di reato in tema di falsità alla produzione di documenti viziati da invalidità non sanabile) rientranti nell’area della decadenza dall’impiego disciplinata dall’art. 127 dello stesso testo unico.

Ne discende la necessità che l’amministrazione valuti il provvedimento di decadenza emesso ai sensi dell’art. 127, primo comma, lettera d), dello stesso decreto, per ponderare la proporzione tra la gravità del comportamento presupposto e il divieto di concorrere ad altro impiego; potere di valutazione analogo a quello riconosciuto da questa Corte ai fini dell’ammissione al concorso, con riferimento alla riabilitazione ottenuta dal candidato (sentenza n. 408 del 1993).

La discrezionalità che l’amministrazione pubblica eserciterà in tal modo sarà limitata dall’obbligo di tenere conto dei presupposti e della motivazione del provvedimento di decadenza, ai fini della decisione circa l’ammissione a concorrere ad altro impiego nell’amministrazione.

3.4. – Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 128, secondo comma, del d.P.R. n. 3 del 1957, nella parte in cui, facendo discendere automaticamente dalla dichiarazione di decadenza il divieto di concorrere ad altro impiego nell’amministrazione dello Stato, non prevede l’obbligo dell’amministrazione di valutare il provvedimento di decadenza dall’impiego, emesso ai sensi dell’art. 127, primo comma, lettera d), dello stesso decreto, al fine della ponderazione della proporzione tra gravità del comportamento e divieto di concorrere ad altro impiego nell’amministrazione dello Stato.

Restano assorbite le altre censure.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 128, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), nella parte in cui non prevede l’obbligo dell’amministrazione di valutare il provvedimento di decadenza dall’impiego, emesso ai sensi dell’art. 127, primo comma, lettera d), dello stesso decreto, al fine della ponderazione della proporzione tra gravità del comportamento e divieto di concorrere ad altro impiego nell’amministrazione dello Stato.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Sabino CASSESE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 luglio 2007.