SENTENZA N. 272
ANNO 2007
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZAnel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 30 marzo 2006 dalla Corte dei conti – sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, nel giudizio di responsabilità amministrativa promosso dal Procuratore regionale presso la Sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia nei confronti di Facchini Carlo, iscritta al n. 170 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2006.
Visto l’atto di costituzione di Facchini Carlo;
udito nell’udienza pubblica del 5 giugno 2007 il Giudice relatore Paolo Maddalena;
udito l’avvocato Mario Viviani per Facchini Carlo.
Ritenuto in fatto
1. ¾ Con ordinanza del 30 marzo 2006, la Corte dei conti – sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’articolo 103, secondo comma, della Costituzione, dell’articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui, applicato «in conformità all’indirizzo interpretativo delle Sezioni unite della Corte di cassazione in ordine ai rapporti fra giudizi di competenza del giudice ordinario e quelli devoluti al giudice contabile», comporterebbe la sospensione del processo contabile instaurato, nei confronti delle medesime persone e per i medesimi fatti, dopo l’emanazione della sentenza penale di primo grado che abbia pronunciato sulla domanda civile proposta in quella sede dalla amministrazione pubblica.
2. ¾ La rimettente Corte dei conti riferisce che, nel corso di un giudizio di responsabilità, il convenuto ha eccepito, tra l’altro, l’inammissibilità dell’atto di citazione della Procura regionale per essere stato questo emanato nonostante la già intervenuta condanna per gli stessi fatti, emessa dal giudice penale di primo grado, al risarcimento del danno in favore della amministrazione pubblica danneggiata (Consorzio interprovinciale per la tutela e la salvaguardia delle acque del lago di Varese) ivi costituitasi parte civile ovvero, in via subordinata, la sospensione dell’azione contabile sino alla definizione del pendente giudizio penale.
2.1. ¾ In ordine alla rilevanza della questione, il giudice rimettente evidenzia che «effettivamente» la Procura regionale agisce per il risarcimento del medesimo danno all’immagine già richiesto, in relazione ai medesimi fatti, dal predetto Consorzio, costituitosi parte civile nel giudizio penale.
Il rimettente riferisce, inoltre, che, prima della proposizione della azione di responsabilità in sede contabile, è stata emanata la sentenza penale di primo grado, la quale ha condannato l’imputato al risarcimento pure di questo danno, rinviandone però a separata sede la liquidazione, e che, per quanto gli consta, sarebbe allo stato pendente il giudizio penale di appello.
2.2. ¾ Il giudice rimettente, aderendo alla prospettazione in via subordinata del convenuto, ritiene che nella fattispecie debba trovare applicazione la sospensione prevista dall’articolo 75, comma 3, cod. proc. pen.; sennonché egli dubita della legittimità costituzionale di questa disposizione, in riferimento all’articolo 103, secondo comma, della Costituzione per le ragioni appresso indicate.
2.3. ¾ Quanto alla applicabilità alla fattispecie de qua della sospensione prevista dal predetto articolo 75, comma 3, il giudice rimettente sostiene:
a) che la norma censurata comporta necessariamente la sospensione del giudizio civile instaurato dopo la sentenza penale di condanna di primo grado, che abbia pronunciato anche sulla domanda civile in esso proposta, giacché l’azione proposta nelle due sedi è la medesima e si intende evitare la duplicazione dei giudizi;
b) che se, come affermato dalla giurisprudenza costante (costituente “diritto vivente”) della Corte di cassazione, l’esercizio dell’azione civile in sede penale da parte dell’amministrazione danneggiata esclude, una volta formatosi il giudicato, la proponibilità dell’azione di responsabilità esercitabile innanzi alla Corte dei conti per danno erariale, ne deriva che ammettere la procedibilità di tale azione (dopo che, nel definire il processo penale di primo grado, il relativo giudice abbia pronunciato anche sulla domanda civile in esso proposta) comporterebbe parimenti un problema di duplicazione dei giudizi;
c) che se, come affermato sempre dalla giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione, l’azione erariale non è (neppure) proponibile (solo) una volta formatosi il giudicato sulla sentenza penale che abbia pronunciato anche sulla domanda civile proposta in quella sede, medio tempore, la prima va considerata evidentemente proponibile e procedibile;
d) che, una volta intervenuta la decisione penale di primo grado che, in via non definitiva, abbia pronunciato sulla domanda civile proposta in quella sede, il processo contabile così instaurato va sospeso ai sensi dell’articolo 75, comma 3, cod. proc. pen., perché il rischio di duplicazione è lo stesso che si dà tra l’azione civile esercitata nel processo penale e quella invece esercitata nel processo civile dopo l’emanazione della sentenza penale di primo grado che abbia pronunciato sulla domanda civile proposta in quella sede;
e) che, ove non si ritenesse applicabile l’articolo 75, comma 3, risulterebbe vulnerato il principio di economia processuale, poiché il convenuto (a fronte della domanda civile proposta nel processo penale e, contemporaneamente, della citazione nel processo contabile) sarebbe esposto al rischio di doversi difendere in due sedi distinte, dinanzi a due giudici diversi, per i medesimi fatti;
f) che, inoltre, se l’azione erariale fosse considerata realmente procedibile, a dispetto dell’articolo 75, comma 3, lo svolgimento del processo contabile – fra il momento in cui detta azione viene esercitata e quello (successivo) in cui diviene definitiva la decisione penale di secondo grado che pronunci sulla domanda civile proposta dall’amministrazione danneggiata in quella sede (con conseguente improcedibilità dell’azione erariale) – determinerebbe il paradossale effetto di una inutile attivazione dell’organizzazione giudiziaria con accollo alla parte privata di oneri difensivi duplicati.
2.4. ¾ Il giudice rimettente, pertanto, ritiene che, «presupponendo un rapporto di concorrenza fra azioni risarcitorie omogenee proposte in sedi distinte, l’articolo 75, comma 3, c.p.p. da intendersi» – onde uniformarsi all’orientamento «delle Sezioni unite della corte di Cassazione in ordine ai rapporti fra giudizi di competenza del giudice ordinario e quelli devoluti al giudice contabile – come riferito anche ai giudizi di responsabilità che si svolgono dinanzi alla Corte dei conti, si pone […] in contrasto con l’art. 103, comma secondo, Cost., nell’interpretazione che, parimenti in ordine ai rapporti fra giudizi di competenza dell’uno e dell’altro giudice, ne ha sino ad oggi dato la Corte costituzionale, che ha viceversa escluso l’esistenza di un rapporto di concorrenza tra le due giurisdizioni».
Il rimettente, più specificamente, dubita «della legittimità costituzionale dell’articolo 75, comma 3, c.p.p., testo vigente, nella parte in cui obbliga la sospensione del processo civile – ma anche, per quanto qui interessa, dei processi nei quali può, secondo il richiamato orientamento delle Sezioni unite, proporsi analoga domanda risarcitoria – se questi vengano iniziati dopo l’emanazione della sentenza penale di primo grado».
«Detto altrimenti», continua il rimettente, «dubita questo Giudice – nello specifico caso di risarcimento dei danni, anche non patrimoniali, cagionati ad una amministrazione pubblica da amministratori e dipendenti mediante comportamenti costituenti reato – della legittimazione, che l’articolo 75, comma 3, c.p.p., testo vigente, presuppone, (se inteso coerentemente al predetto orientamento delle Sezioni unite, e quindi del giudice regolatore della giurisdizione), dell’ente pubblico danneggiato a costituirsi parte civile nel processo penale instaurato nei confronti degli autori del reato medesimo, per fare valere in quella sede il diritto di credito di cui assuma di essere titolare, derivandone, in caso di definitivo accoglimento della domanda proposta con l’azione civile, l’improponibilità della domanda che venisse esercitata successivamente dal p.m. contabile dinanzi alla competente Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti (e, medio tempore, l’improcedibilità del giudizio contabile instaurato dopo l’emanazione della sentenza penale di primo grado che abbia pronunciato anche sulla domanda civile proposta in quella sede dall’amministrazione danneggiata)».
Infine, precisa ancora il giudice rimettente, «in ragione di quanto precede, il Collegio ritiene, pertanto, di dovere sollevare d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75, comma 3, c.p.p., essendo la stessa rilevante ai fini delle definizione delle specifica controversia sottoposta al suo esame, nella parte in cui prevede la necessaria sospensione del giudizio contabile nel quale venga esercitata l’azione risarcitoria già esperita vittoriosamente nel giudizio penale di primo grado».
2.5. ¾ In ordine alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice rimettente sviluppa anzitutto una articolata analisi della giurisprudenza costituzionale intervenuta in merito all’articolo 103, secondo comma, della Costituzione, dallo stesso evocato quale parametro del presente giudizio.
Alla luce delle sentenze numeri 33 del 1968, 102 del 1977, 641 del 1987, 24 del 1993 e 385 del 1996, il rimettente individua quale rilevante ai fini della valutazione della prospettata questione, il principio della necessaria interpositio legislatoris, in tali pronunce affermato quale presupposto necessario, al fine di radicare concretamente la giurisdizione, solo tendenzialmente generale, attribuita dall’articolo 103, secondo comma, della Costituzione alla Corte di conti sulle materie di contabilità pubblica.
Per il rimettente, in questa (e, più in generale, nella) giurisprudenza costituzionale l’interpositio legislatoris parrebbe «declinarsi» come «possibilità per il legislatore di enucleare – nell’ambito in cui opera, con carattere tendenzialmente generale, quella giurisdizione della Corte dei conti che funge da limite alla giurisdizione del giudice ordinario – materie in cui si giustifichi, nei limiti del parametro costituzionale della non manifesta irragionevolezza della scelta legislativa, l’attribuzione della giurisdizione ad un giudice diverso da quello contabile», mentre «se di questa possibilità il legislatore non fa uso, opererà appunto «la espansione tendenziale della giurisdizione della Corte dei conti, ove sussista identità di materia e di interesse tutelato […]» (sent. n. 641 del 1987), nei termini specificati dalla sentenza 385 del 1996».
«In base a tali premesse», il rimettente ritiene che si sia affermato e consolidato nella giurisprudenza della Corte costituzionale una «lettura» dell’articolo 103, secondo comma, della Costituzione che escluderebbe «la possibilità di configurare i rapporti fra giurisdizione del giudice ordinario» (sia esso quello civile, sia esso quello penale, che pronunci sulle questioni civili) e «quella del giudice contabile in termini di concorrenza» e che «muovendo dalla premessa che – a parità di materia e di interesse tutelato (nel senso specificato dalla già citata sentenza n. 385 del 1996) – laddove manchi l’attribuzione da parte del legislatore della giurisdizione ad un giudice diverso questa spetta, nell’ambito in cui opera quella tendenziale espansività della quale si è detto, alla Corte dei conti, ne discende invariabilmente che nei corrispondenti casi non è rinvenibile uno spazio di azione – di tipo concorrente – per un giudice diverso da quello contabile».
Dalla giurisprudenza costituzionale, in definitiva, a dire del rimettente, deriverebbe il principio della esclusività della competenza della Corte dei conti nelle materie di contabilità pubblica attribuite alla propria giurisdizione.
2.6. ¾ Il rimettente evidenzia, poi, come la giurisprudenza costituzionale, da un lato (sentenza n. 211 del 1972), abbia escluso che l’amministrazione avesse autonomia di decisione nella proposizione delle azioni nei confronti dei propri dipendenti autori di comportamenti fonte di danno, ribadendo, in via generale, il potere del Procuratore generale della Corte dei conti di agire d’ufficio, dall’altro (sentenza n. 102 del 1977), abbia escluso la assoluta (affermando piuttosto la tendenziale) generalità di tale potere e la sua immediata operatività, facendo salva la legge regionale siciliana, la quale attribuiva, invece, il promuovimento della azione di responsabilità agli organi dell’ente danneggiato.
In particolare, il rimettente rimarca che in entrambe queste richiamate pronunce «la necessità della interpositio legislatoris ai fini del radicamento della giurisdizione del giudice contabile viene chiaramente affermata dalla Corte costituzionale non già in assoluto, bensì con specifico riferimento a particolari ipotesi (rectius, a particolari settori/materie) “originariamente sottratti alla giurisdizione della Corte dei conti”».
Conforme a tale indirizzo interpretativo sarebbe, a dire del rimettente, anche la successiva sentenza n. 773 del 1988, per la quale «la “tendenziale generalità” della giurisdizione della Corte dei conti, al di là dei casi già in essa espressamente o istituzionalmente ricompresi, necessita normalmente di apposite previsioni legislative e non può sortire un effetto invalidante di norme che – come nella specie – facciano ricadere la materia nell’ambito della giurisdizione generale del giudice ordinario».
«Anche in tale caso», per il rimettente, sarebbe «confermato l’orientamento della Corte costituzionale incline a ritenere necessaria l’interpositio legisaltoris solamente per attribuire al giudice contabile materie prima attribuite espressamente dalla legge ad un giudice diverso, e non anche per radicare la giurisdizione del primo nelle ipotesi di “carenza di regolamentazione specifica da parte del legislatore”, perché in questa seconda ipotesi è destinata ad operare la espansione tendenziale della giurisdizione della Corte dei Conti».
Il giudice rimettente ricorda, inoltre, che la predetta sentenza n. 773 del 1988 ha definito, nel senso della infondatezza, una questione di legittimità costituzionale riferita all’articolo 26 dell’allora vigente codice di procedura penale, il quale precludeva l’azione di responsabilità amministrativa nei confronti del pubblico dipendente, in presenza del giudicato penale che avesse provveduto alla liquidazione del danno in favore della pubblica amministrazione costituitasi parte civile.
A tale riguardo, il rimettente rammenta che nell’ordinanza di rimessione la Corte dei conti aveva prospettato un contrasto tra il richiamato articolo 26 e l’articolo 489, comma 2, del medesimo previgente codice di procedura penale, a termini del quale, in caso di costituzione di parte civile, il giudice penale decideva sulla liquidazione dei danni «salvo che sia stabilita la competenza di un altro giudice» (norma oggi riprodotta dall’articolo 538, comma 2, del vigente codice di procedura penale) e sostiene che, nel dichiarare non fondata tale questione, la Corte costituzionale ha «fatto puntuale applicazione dell’indirizzo consolidatosi a partire dalla sentenza n. 110 del 1970, ritenendo che le norme sopraindicate valessero a fondare la giurisdizione del giudice ordinario e che, di contro, in difetto di interpositio legislatoris, non potesse valere ad escludere quella giurisdizione (rectius a “toglierla” al giudice ordinario per attribuirla a quello contabile) “la generica previsione di cui all’art. 52 del T.U. n. 1214 del 1934 delle leggi sulla Corte dei Conti, che non contiene alcuna espressa disposizione in materia di danno derivante da reato né alcuna esplicita deroga alla generale competenza spettante in materia al giudice penale in caso di costituzione di parte civile”».
2.7. ¾ La rimettente Sezione giurisdizionale per la Lombardia della Corte dei conti riferisce, poi, l’indirizzo giurisprudenziale delle sezioni unite della Corte di cassazione «alla stregua del quale, con riguardo all’esplicazione della giurisdizione della Corte dei Conti in materia di responsabilità contabile, il ricorso alle sezioni unite della suprema Corte, che sia rivolto a denunciare, come ragione preclusiva dell’affermazione di detta responsabilità, la circostanza che la Pubblica Amministrazione, costituendosi parte civile in sede penale, abbia chiesto ed ottenuto sentenza definitiva di condanna al risarcimento dei danni per il medesimo fatto, deve essere dichiarato inammissibile».
Tale questione, specifica il giudice rimettente, nell’ottica della Cassazione, non atterrebbe alla sussistenza delle giurisdizione del giudice contabile, ma alla proponibilità dinanzi ad esso dell’azione di responsabilità e, quindi, si tradurrebbe «nella deduzione di un errore in iudicando, esorbitante dalle previsioni degli articoli 111 della Costituzione e 362 c.p.c. (Cass., sez. un., 23 novembre 1999, n. 822; Cass., sez. un., ord. 21 maggio 1991, n. 369), giacché la giurisdizione penale e quella civile risarcitoria, da un lato, e la giurisdizione amministrativa-contabile, dall’altro, sono reciprocamente indipendenti nei profili istituzionali, anche quando investono un medesimo fatto materiale, dal momento che l’interferenza può avvenire tra i giudizi ma non tra le giurisdizioni (Cass. 3 febbraio 1989, n. 664)».
Più specificamente, in quest’ottica, l’impossibilità di proporre l’azione di responsabilità esercitabile innanzi alla Corte dei conti per fatti dannosi in conseguenza dell’esercizio, in altra sede, di analoga azione esercitata dalla pubblica amministrazione, sulla quale si sia formato il giudicato, non rileva in termini di riparto della giurisdizione, bensì in termini di limiti alla proponibilità della domanda risarcitoria erariale e, quindi, concerne la eventuale violazione dei limiti interni della giurisdizione stessa.
Il giudice rimettente richiama, sempre come espressiva di questo indirizzo interpretativo, pure la ordinanza 8 marzo 2005, n. 4957 delle sezioni unite, la quale espressamente afferma che non può essere seguita la tesi secondo la quale la violazione del principio del ne bis in idem potrebbe essere evitata solo ammettendo l’esistenza di una giurisdizione alternativa, «in quanto finisce con il trasformare una questione di merito di conoscibilità della domanda in una questione di giurisdizione».
Secondo il rimettente tale indirizzo interpretativo si fonda dichiaratamente (viene richiamata la sentenza delle sezioni unite 24 ottobre 2005, n. 20476) ed essenzialmente su una “lettura” erronea della sentenza n. 773 del 1988, affatto distorsiva del principio della interpositio legislatoris.
Sostiene, al riguardo, il rimettente che, se tale intervento del legislatore è necessario, come sarebbe desumibile dalla giurisprudenza costituzionale, al fine di attribuire al giudice contabile una materia sino a quel momento devoluta ad un giudice diverso, una volta operata tale interpositio, dovrebbe escludersi la concorrenza delle giurisdizioni né sarebbe possibile, come invece opina la Corte di cassazione, risolvere la questione sotto il profilo della mera proponibilità o improponibilità della domanda della Procura contabile, una volta che la amministrazione, costituendosi parte civile, abbia ottenuto sentenza definitiva di condanna al risarcimento dei danni per il medesimo fatto.
2.8. ¾ Il giudice rimettente aggiunge, poi, che la sentenza n. 773 del 1988 della Corte costituzionale è stata adottata con riferimento ad un quadro normativo profondamente differente da quello attuale, essendo, successivamente, stato approvato il “nuovo” codice di procedura penale.
Ad opinione del rimettente, tre argomenti varrebbero a dimostrare che sia, «ormai», venuta meno la possibilità per la pubblica amministrazione di costituirsi parte civile nel processo penale e, quindi, la concorrenza tra le giurisdizioni che la contestata giurisprudenza della Corte di cassazione presuppone. Specificamente, comproverebbero tale tesi:
a) la mancata riproduzione nel vigente codice del rito penale, dell’articolo 26 del codice precedente (ovvero la disposizione che è stata oggetto della sentenza n. 773 del 1988 e che espressamente fondava la competenza del giudice penale sui danni conseguenti da reato, in caso di costituzione di parte civile della amministrazione pubblica danneggiata), a fronte della «conferma» dell’articolo 489 (ora riprodotto dall’articolo 538, comma 2, del nuovo codice);
b) la introduzione ex novo dell’articolo 129, comma 3, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, per il quale quando esercita l’azione penale per un reato che ha cagionato un danno per l’erario, il pubblico ministero informa il procuratore generale presso la Corte dei conti, dando notizia dell’imputazione);
c) il disposto dell’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), per il quale la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell’articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato.
2.9. ¾ In questo senso, per la Corte rimettente, resterebbe in capo alla sola Procura regionale della Corti dei conti la legittimazione all’esercizio della azione risarcitoria.
E questo sarebbe ulteriormente (seppure indirettamente) avvalorato dalla disposizione dell’articolo 1, comma 174, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), per il quale, al fine di realizzare una più efficace tutela dei crediti erariali, l’articolo 26 del regolamento di procedura di cui al regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038, si interpreta nel senso che il procuratore regionale della Corte dei conti dispone di tutte le azioni a tutela delle ragioni del creditore previste dalla procedura civile, ivi compresi i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale di cui al libro VI, titolo III, capo V, del codice civile.
Questa previsione, non difformemente, sul piano della ratio, da quella recata dall’articolo 5, comma 2, della legge 14 gennaio 1994, n. 19, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti) – che già legittimava il Procuratore contabile ad agire per ottenere il sequestro conservativo, anche ante causam, dei beni del presunto responsabile del danno erariale – confermerebbe, secondo il rimettente, che, nell’attuale normativa, l’azione risarcitoria spetti alla sola Procura contabile e non più alla amministrazione danneggiata.
Tale norma, in sostanza, confermerebbe, ulteriormente, «quel fenomeno di scissione in base al quale, una volta verificatosi un danno erariale, se l’amministrazione è titolare del diritto sostanziale di credito (indisponibile, in ragione della necessaria integrità della finanza pubblica), non lo è invece delle relative facoltà processuali (essenzialmente, il diritto di azione, esperibile anche ai fini della conservazione della garanzia patrimoniale), il cui esercizio è rimesso dalla legge ad un organo pubblico appositamente costituito, la Procura presso la Corte dei conti».
2.10. ¾ Il giudice rimettente, sempre nell’ottica di confermare la proposta tesi della assoluta alternatività tra giurisdizione ordinaria e contabile, richiama, infine, l’indirizzo delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenze 22 dicembre 1999, n. 933 e 4 dicembre 2001, n. 15288), che ha più volte escluso che l’amministrazione pubblica danneggiata possa esercitare l’azione civile contro i propri dipendenti autori del danno, in base all’argomento che la Corte dei conti ha, in materia, giurisdizione esclusiva.
In particolare il rimettente richiama un passaggio della sentenza n. 933 del 1999 delle sezioni unite della Corte di cassazione per la quale, «se si tiene conto che costituisce principio pacifico che la giurisdizione della Corte dei Conti è esclusiva, nel senso che è l’unico organo giudiziario che può decidere nelle materie devolute alla sua cognizione, ne consegue che va esclusa una concorrente giurisdizione del giudice ordinario, adito secondo le regole normali applicabili in tema di responsabilità e di rivalsa».
Il giudice rimettente sottolinea che «trattandosi allora della medesima azione civile, se essa non viene considerata esperibile in sede civile in ragione dell’esclusività della giurisdizione del giudice contabile, questo Giudice ritiene implausibile una diversa conclusione sol che la stessa azione venga invece esercitata, come nella specie, in sede penale».
2.11. ¾ Il giudice rimettente sostiene, infine, come non sia nemmeno possibile dare una interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 75, comma 3, cod. proc. pen., stante il costante orientamento (costituente “diritto vivente”) delle sezioni unite della Corte di cassazione.
Alla luce di ciò ed, in particolare, «onde uniformarsi al principio di concorrenza e, quindi, di sostanziale fungibilità delle giurisdizioni ordinaria e contabile (affermato dal giudice regolatore della giurisdizione in caso di danno erariale derivante da reati attribuibili a pubblici dipendenti), quale ineluttabilmente presupposto dal criterio della proponibilità o improponibilità dell’azione erariale in presenza del giudicato penale anche sulla domanda civile», per il rimettente, sarebbe infatti inevitabile la sospensione del giudizio ai sensi del censurato articolo 75, comma 3, cod. proc. pen., a fronte della intervenuta decisione penale di primo grado che, come nel caso di specie, abbia condannato il pubblico dipendente al risarcimento del danno nei confronti della pubblica amministrazione, costituitasi parte civile.
Sospensione che, tuttavia, per le ragioni indicate, sarebbe in contrasto con l’articolo 103, secondo comma, della Costituzione.
3. ¾ Si è costituito in giudizio Carlo Facchini, convenuto del giudizio contabile di responsabilità, chiedendo che sia dichiarata la inammissibilità della questione per irrilevanza, nonché per «l’assenza di una vera e propria questione di legittimità costituzionale» e, nel merito, la infondatezza della stessa.
3.1. ¾ Il Facchini ricostruisce, anzitutto, i fatti del processo a quo, segnalando che l’amministrazione danneggiata ha mutato denominazione (da Consorzio interprovinciale per la tutela e la salvaguardia delle acque del lago di Varese a Società per la tutela e la salvaguardia delle acque del lago di Varese e di Comabbio per azioni) e che il giudizio davanti alla Corte di appello di Milano, Sezione III penale, si è concluso con sentenza del 24 maggio 2006, n. 1359 (che ha confermato la condanna dell’imputato anche al risarcimento del danno in favore della predetta società).
Il Facchini, nella ricostruzione del contenuto dell’ordinanza di rimessione, rileva anzitutto la contraddizione della tesi, in essa prospettata, della assoluta alternatività tra giudizio ordinario e contabile con il consolidato indirizzo della Corte dei conti, per il quale la costituzione di parte civile nel processo penale sospende la prescrizione per l’intera durata del giudizio.
3.2. ¾ La parte costituita sostiene, poi, la prescrizione dell’azione esercitata dalla Procura contabile nel processo a quo e, conseguentemente, la irrilevanza della questione proposta dal rimettente, dovendo il relativo giudizio non essere sospeso per la pendenza del processo penale, bensì concluso con declaratoria di prescrizione del diritto ovvero della nullità dell’atto di citazione.
3.3. ¾ Il Facchini ritiene, poi, che la questione, nei termini in cui è sollevata, concernerebbe non il contrasto del censurato articolo 75, comma 3, cod. proc. pen. con l’articolo 103, secondo comma, della Costituzione, bensì la portata, i limiti e i modi di attuazione di tale disposizione costituzionale da parte del legislatore ordinario. Di qui l’inammissibilità della questione.
3.4. ¾ Il Facchini afferma, infine, che la tesi del rimettente si fonda su due argomenti:
a) la sussistenza di una giurisdizione esclusiva del giudice contabile in tema di responsabilità dei pubblici amministratori per danno alla pubblica amministrazione;
b) la legittimazione esclusiva della Procura presso la Corte dei conti all’esercizio dell’azione risarcitoria in nome e per conto della pubblica amministrazione.
Il Facchini ritiene, tuttavia, infondati entrambi questi argomenti.
A sua opinione, infatti, la giurisprudenza costituzionale (ed in particolare la sentenza n. 773 del 1988), lungi dal confermare le prospettazione dell’ordinanza di rimessione, confermerebbe, invece, la concorrenza delle giurisdizioni ordinaria e contabile. Soluzione, questa, che troverebbe riscontro nel pacifico indirizzo della giurisprudenza della Corte di cassazione (vengono richiamate le sentenze delle sezioni unite 23 novembre 1999, n. 822 e 26 novembre 2004, n. 1012), che risolve le relative interferenze non in termini di sussistenza o meno della giurisdizione, bensì in termini di proponibilità o meno della domanda, a seconda della esistenza o meno di un giudicato in merito.
Né dalle invocate previsioni dell’articolo 7 della legge n. 97 del 2001 e dell’articolo 1, comma 174, della legge n. 266 del 2005 sarebbe desumibile alcun indizio del prospettato fenomeno di “scissione” tra la titolarità del credito e le relative facoltà di tutela processuale. Per la parte privata, sarebbe, semmai palesemente irragionevole limitare la facoltà di esercizio diretto da parte dell’amministrazione pubblica dell’azione risarcitoria in sede penale, dacché ciò varrebbe a porre la amministrazione stessa in una immotivata posizione deteriore rispetto a quella di ogni altro soggetto di diritto, con impossibilità di partecipare all’accertamento dei fatti ed alle responsabilità relative ad un evento dannoso subito.
Per la parte privata, il potenziale pericolo di duplicazione del giudizio potrebbe essere scongiurato, riconoscendosi che la previa proposizione della azione civile in sede penale esclude l’esercizio concreto della giurisdizione contabile, con conseguente inammissibilità della azione esercitata dalla Procura contabile.
4. ¾ In prossimità dell’udienza pubblica la difesa della parte privata ha depositato una memoria, nella quale deduce che, essendo nella specie passata in giudicato la sentenza penale, statuente pure sugli effetti civili, nelle more del giudizio di costituzionalità, si sarebbe verificata una circostanza che rende del tutto inapplicabile il denunciato articolo 75, comma 3, cod. proc. pen., nel giudizio a quo. Con conseguente inammissibilità della questione sollevata dal rimettente, per irrilevanza.
Il Facchini svolge, poi, ulteriori considerazioni sostanzialmente riproduttive degli argomenti sviluppati nell’atto di intervento.
Considerato in diritto1. ¾ La Corte dei conti – sezione giurisdizionale per la Lombardia ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’articolo 103, secondo comma, della Costituzione, dell’articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui, applicato «in conformità all’indirizzo interpretativo delle Sezioni unite della Corte di cassazione in ordine ai rapporti fra giudizi di competenza del giudice ordinario e quelli devoluti al giudice contabile», comporterebbe la sospensione del processo contabile instaurato, nei confronti delle medesime persone e per i medesimi fatti, dopo l’emanazione della sentenza penale di primo grado che abbia pronunciato sulla domanda civile proposta in quella sede dalla amministrazione.
1.1. ¾ La rimettente sezione giurisdizionale della Corte dei conti svolge un ampio ed articolato ragionamento, che può essere sintetizzato in quattro fondamentali proposizioni:
a) la ratio dell’articolo 75, comma 3, cod. proc. pen. è quella di evitare la duplicazione tra l’azione risarcitoria proposta in sede civile e la medesima azione proposta in sede penale, e, pertanto, esso dispone che il giudizio civile, instaurato dopo la sentenza penale di primo grado che abbia pronunciato anche sulla domanda civile proposta in quella sede, è sospeso fino alla pronuncia penale irrevocabile;
b) il “diritto vivente” delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 23 novembre 1999, n. 822; ordinanza 21 maggio 1991, n. 369) ritiene concorrenti l’azione civile proposta in sede penale e l’azione di responsabilità amministrativa, dacché risolve la loro contemporanea pendenza non in termini di conflitto positivo di giurisdizione, bensì in termini di proponibilità della domanda, nel senso che, una volta formatosi il giudicato su una delle due domande, non è possibile proporre (o proseguire) l’azione nell’altra sede;
c) a fronte di tale “diritto vivente”, che afferma la sostanziale fungibilità tra le due giurisdizioni, l’articolo 75, comma 3, cod. proc. pen., deve essere applicato anche al giudizio di responsabilità amministrativa, il quale deve pertanto anch’esso essere necessariamente sospeso, se proposto dopo la sentenza penale di primo grado che abbia pronunciato anche sulla domanda civile proposta in quella sede dall’amministrazione che si sia costituita parte civile;
d) questo obbligo di sospensione del giudizio di responsabilità amministrativa, derivante dalla ritenuta concorrenza delle azioni civile e contabile, contrasta con l’articolo 103, secondo comma, della Costituzione, in quanto in base a tale norma, alla luce della interpretazione datane dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze nn. 33 del 1968, 211 del 1972, 102 del 1977, 641 del 1987, 773 del 1988, 24 del 1993 e 385 del 1996), una volta intervenuta la attribuzione legislativa della materia della responsabilità amministrativa alla giurisdizione della Corte dei conti, tale giurisdizione è esclusiva ed alternativa a quelle ordinaria.
1.2. ¾ Per rafforzare tali argomentazioni, il rimettente richiama, poi, quella giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenze 22 dicembre 1999, n. 933 e 4 dicembre 2001, n. 15288), che ha più volte escluso che l’amministrazione pubblica danneggiata possa esercitare (al di fuori della costituzione di parte civile nel processo penale) l’azione civile contro i propri dipendenti, in base all’argomento che la Corte dei conti ha, in materia, giurisdizione esclusiva.
Il giudice rimettente sottolinea che «trattandosi allora della medesima azione civile, se essa non viene considerata esperibile in sede civile in ragione dell’esclusività della giurisdizione del giudice contabile» sarebbe «implausibile una diversa conclusione sol che la stessa azione venga invece esercitata, come nella specie, in sede penale».
1.3. ¾ Il rimettente sviluppa, infine, una ulteriore ampia serie di argomenti tesi ad avvalorare, alla luce delle evoluzioni della materia della responsabilità amministrativa, una sostanziale scissione tra la titolarità del diritto (sostanziale) al risarcimento e quella del conseguente diritto (processuale) di azione risarcitoria, la cui legittimazione spetterebbe alla sola Procura della Corte dei conti (ed in nessun caso alla amministrazione pubblica danneggiata, con conseguente difetto di legittimazione della stessa alla costituzione di parte civile nel processo penale).
2. ¾ Prima di esaminare la questione proposta dal rimettente, devono essere valutate le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla parte privata costituita.
Il convenuto del giudizio a quo sostiene, anzitutto, la sopravvenuta irrilevanza della questione proposta in riferimento alla sospensione del giudizio contabile ai sensi dell’articolo 75, comma 3, cod. proc. pen., per essere ormai passata in giudicato la sentenza penale relativa al medesimo fatto, statuente pure sugli effetti civili e, quindi, venuta meno, anche in astratto, ogni possibilità di sospensione.
La parte privata prospetta, poi, l’irrilevanza della questione anche sull’assunto che l’azione di responsabilità erariale sarebbe prescritta e che, pertanto, a fronte della relativa eccezione sollevata dalla stessa parte nel giudizio a quo, il giudice rimettente avrebbe dovuto dichiarare la prescrizione del credito risarcitorio azionato e non sollevare la questione di legittimità costituzionale.
Le eccezioni non sono fondate.
2.1. ¾ Quanto alla prima, è pacifica la giurisprudenza di questa Corte nel riconoscere la irrilevanza dei successivi sviluppi del giudizio a quo, dopo una valida introduzione del giudizio di costituzionalità.
2.2. ¾ Quanto alla seconda, è sufficiente osservare che la questione, pregiudiziale in senso tecnico, sulla sospensione del giudizio per pendenza di un processo penale interferente, cui è riferita la ordinanza di rimessione, è logicamente precedente rispetto a quella, preliminare di merito, relativa alla prescrizione del diritto. A tacer poi del fatto che, come costantemente ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenza n. 100 del 1993), spetterebbe, comunque, al giudice rimettente la individuazione dell’ordine logico delle questioni sottoposte al proprio giudizio.
3. ¾ La questione è, peraltro, inammissibile sotto diverso profilo.
3.1. ¾ Il rimettente, sulla base di una assimilazione del giudizio contabile a quello civile, che egli fa derivare dal “diritto vivente” della Corte di cassazione (la quale considera concorrenti i due giudizi), ritiene che il giudizio contabile debba essere sospeso in caso di pronuncia del giudice penale anche sugli effetti civili del reato.
La tesi è tuttavia contraddittoria ed è fondata su una erronea interpretazione della disposizione censurata.
Infatti l’articolo 75, comma 3, cod. proc. pen., collega l’effetto sospensivo del giudizio civile non alla circostanza che la decisione penale verta anche sugli effetti civili, ma alla proposizione dell’azione civile, alternativamente, dopo la costituzione di parte civile in sede penale ovvero dopo la sentenza penale di primo grado (indipendentemente dal fatto che essa statuisca o meno sugli effetti civili).
Pertanto il rimettente censura una norma non enucleabile, ed anzi affatto diversa da quella dettata dalla disposizione impugnata.
A ben vedere, però, l’errore di prospettiva, in cui incorre il rimettente, è più in radice.
Questo, infatti, nel suo ragionamento trascura, anzitutto, di considerare che, non solo non sussiste un “diritto vivente” nel senso della sospensione del processo contabile, ma sussistono anzi diverse posizioni della Corte dei conti al riguardo, essendo state da questa affermate tanto la obbligatorietà quanto la impossibilità della sospensione del giudizio.
Accanto ad una lettura (data evidentemente per pacifica dal rimettente) che assimila giudizio civile e amministrativo sul danno ai fini dell’applicazione dell’articolo 75 cod. proc. pen., ne è stata, infatti, sostenuta una affatto diversa che, facendo leva sul tenore letterale di questa disposizione, ne esclude la riferibilità all’ambito di cognizione della Corte dei conti (cfr. ex multis Corte dei conti, sez. III, 4 novembre 2005, n. 651, e sez. I, 30 giugno 2004, n. 244)
In effetti l’articolo 75 cod. proc. pen. (espressamente intitolato ai rapporti tra azione civile e penale) si riferisce puntualmente e solo al giudizio civile. Il che, a fronte delle logicamente collegate previsioni degli articoli 651 e 652 del medesimo codice (i quali si riferiscono, espressamente, tanto nel titolo, quanto nel testo, sia al giudizio civile sia al giudizio amministrativo di danno), potrebbe costituire (e, per la sopra riferita giurisprudenza, ha costituito) argomento a favore della inapplicabilità di questa previsione al giudice contabile; la cui cognizione resterebbe, allora, del tutto autonoma da quella ordinaria (salvo che già sussista un giudicato penale sul punto).
Inoltre il rimettente omette di valutare l’applicabilità alla fattispecie in questione, come riconosce la dottrina, dell’articolo 538 del codice di procedura penale, il quale limita la giurisdizione del giudice penale in sede di pronuncia sul risarcimento del danno, alla sola condanna generica dell’imputato senza porre problemi di pregiudizialità, essendo questa venuta meno, con l’abrogazione dell’art. 3 del vecchio codice di procedura penale.
3.2 ¾ Il rimettente, dunque, non dà conto della pluralità di soluzioni date dalla giustizia contabile alla questione della sospensione del processo ai sensi dell’articolo 75, comma 3, cod. proc. pen., non valuta la possibile idoneità dell’articolo 538, comma 2, del medesimo codice a risolvere il prospettato problema di raccordo tra la giurisdizione ordinaria e contabile, né, soprattutto, svolge argomenti atti a comprovare che il censurato orientamento della Corte di cassazione in ordine alla concorrenza delle giurisdizioni confermi o, addirittura, imponga la sospensione del processo contabile.
Alla luce di tale incerto indirizzo giurisprudenziale e a fronte del delineato quadro normativo, invece, proprio quelle ragioni che il rimettente individua a fondamento delle sue censure avverso la disposizione impugnata, avrebbero potuto direttamente condurre lo stesso a non sospendere il giudizio, risolvendo così, nell’esercizio della sua cognizione, una questione, in definitiva, meramente interpretativa, come tale inammissibile, in quanto estranea alla logica del proposto giudizio di costituzionalità.
per questi motivi
La Corte costituzionale
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale sollevata, in riferimento all’articolo 103, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte dei conti – sezione giurisdizionale per la Lombardia con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 4 luglio 2007.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Paolo MADDALENA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 luglio 2007.