SENTENZA N.773
ANNO 1988
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Francesco SAJA, Presidente
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO
Dott. Aldo CORASANITI
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Renato DELL'ANDRO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 26 del codice di procedura penale promosso con ordinanza emessa il 2 apri le 1982 dalla Corte dei Conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Sicilia - nel giudizio di responsabilità promosso dal Procuratore Generale nei confronti di Ferrazzano Angelo ed altri, iscritta al n. 874 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 53 dell'anno 1984;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 febbraio 1988, il Giudice relatore Ugo Spagnoli.
Considerato in diritto
1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte dei Conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Sicilia - dubita della legittimità costituzionale dell'art. 26 c.p.p., in quanto preclude l'azione di responsabilità amministrativa nei confronti del pubblico dipendente, in presenza del giudicato penale che abbia provveduto alla liquidazione del danno in favore della Pubblica Amministrazione costituitasi parte civile. In particolare il giudice a quo sostiene che tale disposizione, posta in relazione con l'art. 489, secondo comma, c.p.p. - che a suo avviso vieta al giudice penale di disporre in tal caso (non sull'an ma sul quantum) - contrasti: -con l'art. 103, secondo comma, Cost., che riserverebbe alla Corte dei Conti la giurisdizione in materia di responsabilità per danno erariale, anche se derivante da reato del pubblico dipendente; - con l'art. 25, primo comma, Cost., in quanto la Corte dei Conti sarebbe giudice naturale precostituito per legge per la liquidazione del danno erariale; - con l'art. 3 Cost., per le conseguenze che da ciò deriverebbero sulla posizione debitoria del dipendente, che potrebbe così fruire di eventuali rinunce o transazioni dello Stato e non giovarsi, invece, degli effetti della concorrente responsabilità solidale di altri dipendenti estranei al reato e del potere riduttivo attribuito alla Corte dei Conti.
2. - La questione non é fondata.
Il giudice a quo muove dal presupposto secondo cui la norma impugnata sarebbe in contrasto con quella di cui all'art. 489, secondo comma, c.p.p., a termini del quale, in caso di costituzione di parte civile, il giudice penale decide sulla liquidazione dei danni <salvo che sia stabilita la competenza di un altro giudice>.
Tale riserva, cioè, varrebbe a radicare la competenza della Corte dei Conti in materia di liquidazione del danno erariale e l'art. 26 c.p.p., precludendo l'azione di responsabilità amministrativa in presenza del giudicato penale, legittimerebbe a posteriori la violazione di tale competenza da parte del giudice penale.
L'interpretazione dell'art. 489 c.p.p. assunta dal giudice a quo muove, pero, da una concezione dell'ambito della giurisdizione riservata alla Corte dei Conti dall'art. 103, secondo comma, Cost. <nelle materie della contabilità pubblica> che va ben al di la della portata da attribuire a tale disposto costituzionale.
Al riguardo, questa Corte ha precisato più volte - da ultimo nella sentenza n. 641 del 1987 - che la giurisdizione della Corte dei Conti in dette materie e <tendenzialmente generale> e che, peraltro, la sua portata espansiva incontra il <limite funzionale> della <interpositio> del legislatore.
A chiarire l'apparente antinomia tra queste due proposizioni giova ricordare, innanzitutto, che l'ambito della materia della contabilità pubblica considerato dal Costituente e quello <tradizionalmente accolto dalla giurisprudenza e dalla legislazione> (sent. cit.), cioè, in sostanza- per quanto attiene alla responsabilità patrimoniale per danni cagionati ad enti pubblici da pubblici funzionari, che qui particolarmente interessa - quello risultante dalla disciplina dettata al riguardo dal testo unico n. 1214 del 1934 sulla Corte dei Conti (cfr. sent. n. 129 del 1981).
Disciplina che peraltro, all'epoca in cui la Costituzione fu emanata, si inseriva, come si é ricordato nelle sentenze nn. 102 del 1977, 189 e 241 del 1984, in un contesto normativo nel quale - in coerenza con la generale attribuzione della giurisdizione in materia di diritti soggettivi al giudice ordinario-spettava a quest'ultimo di decidere in ordine alla responsabilità amministrativa, ad es., degli amministratori e dei dipendenti degli enti locali e delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza. Tale essendo l'ambito della giurisdizione della Corte dei Conti considerato dal Costituente, ben si spiega come questa Corte, con le citate sentenze del 1977 e del 1984, abbia escluso che in forza della disposizione costituzionale in esame la responsabilità dei predetti amministratori e dipendenti potesse ritenersi attratta nell'orbita della giurisdizione della Corte dei Conti.
La necessità, a tal fine, di apposite <valutazioni e deliberazioni> rientranti nella discrezionalità del legislatore (sent. n. 102 del 1977), discende dal fatto che le questioni sul riparto della giurisdizione involgono scelte in ordine a diversi regimi della responsabilità e del giudizio, tali da <comportare effetti diversi nei riguardi tanto dei responsabili che dei soggetti danneggiati>: sicchè soltanto al potere legislativo <può spettare di valutare se e quali siano le soluzioni più idonee alla salvaguardia dei pubblici interessi insiti nella materia de qua> (sent. n. 189 cit.).
L'esigenza di apposite previsioni legislative, d'altra parte, discende sia dal fatto che- al di là degli aspetti formali (natura pubblica dell'ente e dell'oggetto della gestione) - la materia della contabilità pubblica, di per se suscettibile di evoluzione, <non é definibile oggettivamente> (sent. n. 641 cit.: cfr. anche la sent. n. 17 del 1965), sia dall'incidenza che sulle valutazioni del legislatore possono avere altri fattori, quali il nesso esistente tra regime dei controlli sugli enti e regime della responsabilità dei funzionari ovvero la configurazione positiva degli organi chiamati a valutare quest'ultima (cfr., per la Corte dei Conti, la sent. n. 230 del 1987).
Avuto riguardo a tutto ciò, ben si comprende che la <tendenziale generalità> della giurisdizione della Corte dei Conti, al di là dei casi già in essa espressamente o istituzionalmente ricompresi, necessita normalmente di apposite previsioni legislative e non può sortire un effetto invalidante di norme che -come nella specie-facciano ricadere la materia nell'ambito della generale giurisdizione del giudice ordinario; e che, inoltre, la sua potenzialità espansiva può ritenersi operante ex se, nelle ipotesi di carenza di disciplina, solo se sussista il requisito dell'<identità oggettiva di materia>-da intendersi alla stregua di quanto già detto-e non siano di ostacolo <i limiti segnati da altre norme e principi costituzionali> (sent. n. 129 del 1981), la cui compiuta attuazione può richiedere o suggerire una disciplina diversa.
3.-Alla stregua delle suesposte puntualizzazioni, risulta evidente che la disposizione di cui all'art. 489, secondo comma, c.p.p. non può essere intesa nel senso presupposto dal giudice a quo e che non sussiste perciò l'<insanabile contrasto)> con la norma impugnata che questi assume.
Come ricorda l'Avvocatura dello Stato, la dottrina ritiene che l'inciso <salvo che sia stabilita la competenza di un altro giudice> si riferisca - come risulta del resto dalla formulazione letterale - a casi di attribuzione espressa ad un giudice diverso da quello penale dell'esclusiva potestà di provvedere in ordine alla liquidazione dei danni (es., artt. 373 c.p.m.p., 1246 cod. nav.); ciò che non può certo dirsi per la generica previsione di cui all'art. 52 del T.U. n. 1214 del 1934 delle leggi sulla Corte dei Conti, che non contiene alcuna espressa disposizione in materia di danno derivante da reato ne alcuna esplicita deroga alla generale competenza spettante in materia al giudice penale in caso di costituzione di parte civile.
La riprova di ciò é data dalla palese irrazionalità che conseguirebbe all'accoglimento della tesi in questione. Il giudice a quo, infatti, non contesta che spetti all'Amministrazione, così come a qualsiasi altro soggetto, la potestà-correlata all'esclusiva titolarità del relativo interesse-di esercitare l'azione civile nel processo penale, mediante la costituzione di parte civile. L'ipotizzare che in tal caso l'Amministrazione debba limitarsi a richiedere, ed il giudice penale a pronunciare, solo una condanna generica ai danni non solo sarebbe in contraddizione con il generale obbligo di tale giudice di provvedere alla liquidazione (e, ove ciò non sia possibile, di concedere se del caso una provvisionale), ma priverebbe l'Amministrazione di fondamentali facoltà processuali spettanti alla parte civile - come il proporre mezzi di prova per accertare l'entità dei danni (art. 104 c.p.p.) - ed il giudice del potere di acquisire elementi rilevanti ai fini della determinazione della pena (art. 133, primo comma, n. 2 c.p.). Ove si consideri, poi, che il giudizio di responsabilità amministrativa, vertendo sul medesimo fatto o comportamento oggetto del giudizio penale, deve essere necessariamente sospeso in pendenza di questo (art. 3 c.p.p.) e che il giudicato penale di condanna vincola il giudice amministrativo-contabile ai sensi dell'art. 28 c.p.p., non si scorge la ragione per la quale l'interesse pubblico al ristoro del danno derivato all'erario dal reato, interesse che l'Amministrazione e chiamata a tutelare, non debba ricevere pronta soddisfazione attraverso l'esecuzione del giudicato reso in sede penale e debba invece attendere la definizione del giudizio di responsabilità amministrativa: ciò che porrebbe l'Amministrazione medesima in una condizione ingiustificatamente deteriore rispetto a quella di ogni altro soggetto.
Una volta, poi, che il giudicato penale sulla liquidazione del danno si sia formato, a tenore della norma impugnata ne consegue, naturalmente, la preclusione all'azione di responsabilità amministrativa.
Al riguardo, la Sezione rimettente ha dato conto di talune interpretazioni proposte da una parte della giurisprudenza della stessa Corte dei Conti che, ove accolte, rimuoverebbero il presupposto della questione sollevata: così l'interpretazione secondo cui, alla stregua della sentenza n. 55 del 1971 di questa Corte, l'azione di responsabilità non sarebbe preclusa al Procuratore Generale della Corte dei Conti, in quanto il vincolo in ordine all'accertamento dei fatti materiali discendente dall'art. 28 c.p.p. non opererebbe nei suoi confronti in ragione della sua mancata partecipazione al giudizio penale; ovvero l'interpretazione secondo cui la preclusione in esame non opererebbe, perché la sentenza penale sarebbe, per il capo attinente alla liquidazione del danno erariale, inesistente in quanto resa da giudice carente di giurisdizione in materia.
L'ipotesi di una decisione interpretativa di rigetto che si fondasse su simili assunti e però all'evidenza da escludere.
Quanto al primo, perché il limite soggettivo, posto con la citata sentenza, all'efficacia di un giudicato penale formatosi nei confronti della parte - Pubblica Amministrazione - titolare dell'interesse al risarcimento non riguarda certo il Procuratore Generale, che non solo non può considerarsi alla stregua di una parte privata, ma che non e titolare di alcun diverso interesse ne può pretendere di far valere un interesse che col giudicato e già stato soddisfatto.
Il secondo assunto, poi, é palesemente inesatto, dato che l'ordinamento riserva alla Corte di Cassazione la potestà di decidere sulle questioni di giurisdizione.
4.-La disposizione impugnata va dunque si intesa, come il giudice a quo presuppone, nel senso che il giudicato penale con cui si sia liquidato il danno erariale precluda la proposizione dell'azione di responsabilità amministrativa nei confronti del condannato: ma ciò non da fondamento ad alcuna delle censure prospettate in riferimento agli artt. 25, primo comma, e 3 Cost.
La prima é, invero, meramente consequenziale a quella finora esaminata: sicché, una volta escluso che l'art. 103, secondo comma, Cost. possa comportare l'invalidazione della norma impugnata e che l'art. 489, secondo comma, c.p.p. valga a radicare la competenza della Corte dei Conti, manca il supporto normativo per affermare che tale organo sia <giudice naturale> della liquidazione del danno erariale derivante dal reato del dipendente pubblico.
Quanto alla seconda censura, deve innanzitutto osservarsi che la preclusione derivante dal giudicato risponde al principio che vieta una molteplicità di decisioni nei riguardi della stessa persona e per lo stesso oggetto, cioè che si dia luogo ad un bis in idem (cfr. la già citata sentenza n. 55 del 1971). Né basterebbe replicare, come talora fa la giurisprudenza contabile, che l'azione di responsabilità amministrativa e cosa diversa da quella esercitata ex art. 185 c.p., concernendo il fatto oggetto dell'accertamento compiuto in sede penale, ma riguardato come violazione degli obblighi di servizio. ciò non toglie, invero, che il fatto, nella sua fenomenica oggettività, e il medesimo, e che pertanto esso non può ne essere diversamente accertato nel giudizio amministrativo (art. 28 c.p.p.) ne dar luogo ad una duplicità di pretese (e di conseguenze) risarcitorie.
Quanto poi alla tesi - svolta nel giudizio a quo dal Procuratore Generale e recepita nell'ordinanza di rimessione -secondo cui l'instaurazione del giudizio di responsabilità amministrativa nei confronti del condannato sarebbe necessaria al fine di far valere il vincolo solidale tra costui e gli altri soggetti che, pur se non penalmente responsabili, hanno contribuito a determinare il danno erariale per violazioni degli obblighi di servizio connesse al fatto-reato, v'é innanzitutto da rilevare che il presupposto da cui tale tesi muove non é affatto pacifico. Recenti decisioni della stessa Corte dei Conti ritengono, infatti, che la disposizione secondo cui essa, <valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto> (art. 52 R.D. n. 1214 del 1934) contempli un'ipotesi di responsabilità ripartita anziché solidale - da commisurare cioè al grado di colpa di ciascuno nella violazione dei doveri propri delle rispettive attribuzioni - ed imponga all'amministrazione di aggredire innanzitutto il patrimonio del condannato, in quanto principale obbligato, e di escutere i corresponsabili amministrativi, limitatamente alla parte avuta da ciascuno nella determinazione dell'evento, solo ove la relativa procedura risulti infruttuosa.
Ma anche a ritenere altrimenti, la richiamata esigenza non può certo fondare censure di violazione del principio di eguaglianza: anzi, il consentire che, in mancanza di un preesistente vincolo tra i soggetti, il peso del risarcimento possa essere trasferito dal maggior al minor colpevole rischia di non essere consono proprio con tale principio, nonché con le prescrizioni di cui all'art. 97 Cost.
Ancor meno la regola costituzionale dell'eguaglianza può dirsi violata in ragione del fatto che, procedendosi alla liquidazione del danno in sede penale, si priva il condannato della possibilità di fruire del c.d. potere riduttivo dell'addebito, di cui viceversa, ad avviso dell'ordinanza di rimessione, egli potrebbe giovarsi in sede contabile. Proprio se ciò fosse, quella regola risulterebbe violata, in quanto ne sortirebbe che il funzionario responsabile di un reato godrebbe di una posizione ingiustificatamente più favorevole rispetto a quella comune alla generalità degli altri cittadini.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 26 c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 25, primo comma e 103, secondo comma, Cost., sollevata dalla Corte dei Conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Sicilia - con l'ordinanza indicata in epigrafe (r.o. 874/83).
Così deciso in Roma, sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22/06/88.
Francesco SAJA - Ugo SPAGNOLI
Depositata in cancelleria il 07/07/88.