SENTENZA N. 452
ANNO 2006
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE “
- Ugo DE SIERVO “
- Romano VACCARELLA “
- Paolo MADDALENA “
- Alfio FINOCCHIARO “
- Alfonso QUARANTA “
- Franco GALLO “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Maria Rita SAULLE “
- Giuseppe TESAURO “
- Paolo Maria NAPOLITANO “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione sorto a seguito della deliberazione dell’11 gennaio 2000 (Doc. IV-quater, n. 96) della Camera dei deputati relativa alla insindacabilità ai sensi dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dall’onorevole Umberto Bossi imputato in un procedimento penale per reato di vilipendio alla bandiera, promosso con ricorso del Tribunale di Venezia, notificato il 6 agosto 2003, depositato in cancelleria il 25 agosto 2003 ed iscritto al n. 32 del registro conflitti 2003, fase di merito.
Visto l’atto di costituzione della Camera dei deputati;
udito nell’udienza pubblica del 21 novembre 2006 il Giudice relatore Ugo De Siervo;
udito l’avvocato Massimo Luciani per la Camera dei deputati.
Ritenuto in fatto1. – Con ordinanza del 2 marzo 2002, pervenuta alla Corte costituzionale il 2 luglio 2002, il Tribunale di Venezia, nell’ambito del procedimento penale instaurato nei confronti del deputato Umberto Bossi, in relazione al reato di cui agli artt. 81, secondo comma e 292, primo e terzo comma, del codice penale, ha sollevato conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato avverso la delibera, adottata in data 11 gennaio 2000, (Doc. IV-quater, n. 96) con la quale la Camera dei deputati ha dichiarato che i fatti per i quali è in corso il suddetto procedimento penale costituiscono opinioni espresse dal deputato nell’esercizio delle sue funzioni a norma dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.
In punto di fatto, il Tribunale riferisce che è contestato al deputato Bossi il reato di vilipendio alla bandiera, perché, mentre si trovava a Venezia il 14 settembre 1997, avrebbe rivolto ad una persona, che teneva esposta alla finestra la bandiera italiana, la seguente frase: «Il tricolore lo metta al cesso, signora», aggiungendo inoltre: «Ho ordinato un camion di carta igienica tricolore personalmente, visto che è un magistrato che dice che non posso avere la carta igienica tricolore». Il ricorrente rileva come, con deliberazione in data 11 gennaio 2000, la Camera dei deputati ha affermato che le suddette dichiarazioni devono ritenersi espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari, dal momento che esse si inquadrerebbero nell’ambito dell’azione politica contro l’unitarietà dello Stato e contro i simboli che lo rappresentano, svolta dal deputato Bossi e dal partito di cui egli è segretario nazionale.
Ad avviso del Tribunale ricorrente, tale delibera sarebbe lesiva delle attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria, risultando manifesta l’estraneità della condotta del suddetto deputato all’esercizio delle funzioni parlamentari. Da ciò la richiesta che la Corte dichiari la non spettanza alla Camera dei deputati della valutazione contenuta nella delibera impugnata e il suo «annullamento, se del caso, per incompetenza e dichiarando conseguentemente il potere dello Stato al quale spettano le attribuzioni in contestazione». Al riguardo, il ricorrente sostiene che la deliberazione della Camera esorbiterebbe dall’ambito dell’art. 68 Cost. e violerebbe gli artt. 101, secondo comma, 102, primo comma – titolarità della funzione giurisdizionale da parte della magistratura –, 3 – per disparità di trattamento tra parlamentare e cittadino – e 24, primo comma, della Costituzione, «per impossibilità della parte lesa di fruire della tutela giurisdizionale».
Per il ricorrente, le dichiarazioni rese al di fuori del Parlamento da un membro delle Camere sarebbero coperte dalla garanzia di cui all’art. 68, primo comma, Cost., ove siano sostanzialmente riproduttive di opinioni espresse in sede parlamentare, mentre esulerebbero dall’ambito di detta prerogativa le opinioni che presentino una semplice comunanza di argomento con quanto dichiarato in sede parlamentare, come si sarebbe verificato nel caso di specie, poiché le dichiarazioni del deputato Bossi non potrebbero considerarsi riproduttive all’esterno di sue dichiarazioni rese, mediante atti tipici della funzione parlamentare, all’interno del Parlamento. Infine, secondo il Tribunale, le espressioni utilizzate dal deputato Bossi avrebbero valenza «oggettivamente ingiuriosa» e, pertanto, non potrebbero ritenersi «consentite e giustificate».
2. – Il conflitto è stato dichiarato ammissibile con ordinanza di questa Corte n. 272 del 2003, depositata il 22 luglio 2003.
3. – Il Tribunale di Venezia ha provveduto a notificare l’ordinanza ed il ricorso introduttivo alla Camera dei deputati il 6 agosto 2003, e ha poi depositato tali atti in data 25 agosto 2003.
4. – Si è costituita in giudizio, con memoria depositata il 22 agosto 2003, la Camera dei deputati, eccependo l’inammissibilità del ricorso, in subordine la sua irricevibilità e, nel merito, l’infondatezza dello stesso, con conseguente riconoscimento della spettanza alla Camera del potere di dichiarare l’insindacabilità delle opinioni espresse dal deputato Bossi.
5. – La difesa della Camera, dopo essersi riservata di identificare compiutamente tutte le ragioni di irricevibilità, di inammissibilità e di improcedibilità dello stesso «solo dopo aver esaminato gli atti e i documenti depositati dal ricorrente», eccepisce innanzitutto l’inammissibilità del conflitto per vizio della notificazione.
Le copie dell’ordinanza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile il conflitto e dell’ordinanza del Tribunale di Venezia con cui il medesimo è stato sollevato, notificate alla Camera dei deputati, non recherebbero l’attestazione di conformità all’originale da parte della Cancelleria della Corte, bensì «un’irrituale attestazione di conformità da parte della Cancelleria dello stesso ricorrente». Tale circostanza comprometterebbe la certezza legale sulla effettiva conformità degli atti notificati agli originali, con conseguente «radicale vizio» nell’instaurazione del contraddittorio, che non sarebbe sanato dalla costituzione della resistente.
Altra ragione di inammissibilità sarebbe costituita dalla impossibilità di identificare il ricorrente, dal momento che l’ordinanza con cui è stato sollevato il conflitto non conterrebbe alcuna indicazione dell’ufficio giudiziario di provenienza. Non sarebbe sufficiente la specificazione del luogo in cui è stata resa la pronuncia, né l’individuazione della persona fisica del giudice che l’ha sottoscritta, mancando l’indicazione delle funzioni del medesimo e l’ufficio di appartenenza. Né tale individuazione potrebbe avvenire attraverso i timbri apposti sull’atto (che recano la dicitura «Tribunale di Venezia»). A tale mancanza non potrebbe supplire neppure l’informazione contenuta nell’ordinanza n. 272 del 2003 con cui la Corte ha dichiarato ammissibile il conflitto.
Il ricorso sarebbe, comunque, inammissibile a causa dell’assoluta incertezza nella qualificazione dell’atto introduttivo, definito, dallo stesso Tribunale, ora come “ordinanza” che contiene il ricorso, ora come ricorso.
In ogni caso, l’atto in parola sarebbe privo dei contenuti e della sostanza del ricorso. In particolare, mancherebbe «uno specifico petitum», poiché l’autorità giudiziaria si sarebbe limitata a ordinare la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, senza espressamente chiedere di annullare la deliberazione di insindacabilità.
Inoltre, poiché il Tribunale chiede alla Corte di dichiarare che non spetta alla Camera di effettuare la valutazione contenuta nella deliberazione impugnata e di annullare «se del caso» detta delibera, esso avrebbe rimesso alla Corte la valutazione dell’opportunità di tale annullamento, non assolvendo l’onere gravante sul ricorrente di esprimere inequivocabilmente la pretesa che intende far valere.
Ancora, secondo la resistente, l’atto introduttivo sarebbe inammissibile, in quanto non conterrebbe né una sufficiente descrizione delle opinioni espresse extra moenia dal deputato, tant’è che il ricorrente rinvierebbe, a tal fine, ad atti allegati, né «alcuna indicazione delle “ragioni del conflitto”».
La difesa della Camera dei deputati aggiunge che le anzidette cause di inammissibilità del conflitto non potrebbero essere superate nemmeno facendo leva su un criterio «sostanzialistico» nell’esame dell’atto introduttivo; criterio, che – secondo la difesa della resistente – sarebbe stato seguito da questa Corte nella sentenza n. 421 del 2002.
6. – In subordine, la resistente ritiene che il ricorso debba essere dichiarato irricevibile. Al riguardo, pur ricordando come questa Corte abbia «con numerose, recenti pronunce» rigettato analoghe eccezioni, insiste nel proporre l’eccezione relativa alla infungibilità del ricorso e dell’ordinanza, sottolineando come l’utilizzazione della forma dell’ordinanza comporterebbe la violazione del principio della parità delle armi tra le parti del giudizio. In particolare, la difesa della resistente rileva come, in tal modo, l’autorità giudiziaria eluderebbe il disposto dell’art. 6 delle norme integrative per giudizi davanti alla Corte costituzionale, il quale, al comma 1, obbliga la parte a depositare i propri documenti in tante copie quanti sono i componenti della Corte e le parti e, al comma 2, prevede che il cancelliere non possa ricevere gli atti e i documenti che non siano corredati del necessario numero di copie.
7. – In ulteriore subordine, la difesa della Camera dei deputati sostiene che, nel merito, il ricorso debba essere rigettato.
Al riguardo, la resistente ricorda come la «questione della bandiera italiana sia stata oggetto di ripetuta attenzione da parte dei parlamentari della Lega Nord, che hanno costantemente avversato, anche con durezza, le norme sulla sua esposizione e sulla sua celebrazione». A conferma di ciò, viene riportato il contenuto delle dichiarazioni rese, nel corso dei lavori parlamentari, da alcuni senatori leghisti. Ad avviso della difesa della Camera, inoltre, «gli aspri toni usati dall’on. Bossi» erano già rinvenibili negli emendamenti presentati da taluni parlamentari della Lega Nord sia alla Camera che al Senato «in ordine a quella che sarebbe poi divenuta la legge n. 22 del 1998», «significativi della disistima nei confronti della bandiera nazionale».
Attraverso tali atti tipici della funzione parlamentare sarebbe stata, dunque, manifestata la stessa opinione espressa extra moenia dal deputato Bossi. Inoltre, la difesa della Camera sottolinea come la questione della bandiera sia connessa inestricabilmente con l’iniziativa parlamentare della Lega Nord per l’indipendenza della Padania, estrinsecatasi nella presentazione di alcune proposte di legge nonché in interrogazioni parlamentari.
Ai fini della esclusione della garanzia di cui all’art. 68 Cost., sarebbe ininfluente la circostanza che gli autori degli atti parlamentari tipici non coinciderebbero con l’autore delle dichiarazioni extra moenia, dal momento che la ratio dell’insindacabilità risiederebbe nell’esigenza di garantire la funzione parlamentare contro le interferenze di un altro potere, e, dunque, di tutelare le istituzioni rappresentative e non i loro membri, con la conseguenza che la “paternità” delle dichiarazioni non avrebbe alcuna rilevanza ai fini della sussistenza della garanzia.
Le dichiarazioni rese dal deputato Bossi sarebbero, pertanto, assistite dalla prerogativa dell’insindacabilità, dal momento che riprodurrebbero all’esterno opinioni già rese in atti tipici della funzione. Il fatto che esse siano state manifestate extra anziché intra moenia sarebbe «meramente accidentale», dal momento che il discrimine tra ciò che deve e ciò che non può essere tutelato andrebbe ravvisato «nella oggettiva connessione delle opinioni con il “complessivo contesto parlamentare”, e cioè con i contenuti (di volta in volta modificantisi) della “politica parlamentare”».
Al riguardo, la difesa della Camera aggiunge di essere consapevole che questa Corte, con le sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, è pervenuta a soluzioni diverse da quelle prospettate; nondimeno, «si auspica che l’indirizzo giurisprudenziale più recente sia oggetto […] di un ripensamento».
Infine, la Camera contesta l’affermazione, contenuta nell’atto introduttivo del conflitto, secondo cui le espressioni impiegate dal deputato Bossi costituirebbero meri insulti. Si fa notare come, nel caso di specie, non si tratti di insulti, bensì, «tutt’al più», di vilipendio. Inoltre, secondo la resistente, la giurisprudenza costituzionale citata dalla Corte di appello (sentenza n. 137 del 2001) non conterrebbe «affermazioni drastiche in ordine all’esclusione delle espressioni insultanti dal novero delle opinioni guarentigiate dall’art. 68, primo comma, della Costituzione».
8. – In prossimità dell’udienza pubblica la difesa della Camera dei deputati ha depositato una memoria, nella quale ribadisce puntualmente tutte le eccezioni di inammissibilità del conflitto già sollevate nell’atto di costituzione in giudizio.
La difesa della Camera eccepisce, inoltre, che l’emanazione, nelle more del procedimento, della legge 24 febbraio 2006, n. 85 (Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione), che ha sostituito l’art. 292 cod. pen., renderebbe necessaria una nuova valutazione, da parte dell’autorità giudiziaria, della sussistenza dell’interesse al ricorso. In particolare, la legge richiamata, nel richiedere che il vilipendio avvenga «con espressioni ingiuriose», imporrebbe al Tribunale di procedere ad una «nuova qualificazione della fattispecie concreta in ragione della mutata fattispecie astratta». Pertanto il ricorso sarebbe «inammissibile, ovvero improcedibile per sopravvenuto difetto dell’apprezzamento (e della motivazione) dell’interesse a ricorrere».
Quanto al merito, la resistente dà atto che questa Corte, nella sentenza n. 249 del 2006 avente ad oggetto una fattispecie analoga, ha affermato che l’uso del turpiloquio non può essere ritenuto esercizio delle funzioni parlamentari, e tuttavia contesta che la Corte, nel giudizio per conflitto di attribuzione, possa esaminare il merito delle opinioni espresse da un parlamentare, «attesa la nota irrilevanza dell’offensività delle opinioni manifestate» ai fini dell’applicazione della prerogativa dell’art. 68, primo comma, Cost..
Contesta, inoltre, l’affermazione, contenuta nella medesima pronuncia, dell’irrilevanza degli atti compiuti da altri parlamentari (ed anche appartenenti al medesimo gruppo parlamentare) ai fini della configurabilità del nesso funzionale.
Considerato in diritto1. – Il Tribunale di Venezia ha sollevato conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato in relazione alla deliberazione adottata dalla Camera dei deputati nella seduta dell’11 gennaio 2000 (Doc. IV-quater, n. 96), mediante la quale l’Assemblea ha approvato la proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere di dichiarare che i fatti per i quali è in corso il procedimento penale a carico del deputato Umberto Bossi, imputato del reato previsto dagli artt. 81, secondo comma e 292 primo e terzo comma, del codice penale concernono opinioni espresse da un componente del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.
2. – Preliminarmente, deve essere confermata l’ammissibilità del conflitto, come già ritenuto da questa Corte con ordinanza n. 272 del 2003.
Infondate, infatti, sono le molteplici eccezioni sollevate dalla difesa della Camera.
Anzitutto, viene eccepita l’inammissibilità del conflitto a causa di un asserito vizio della notificazione. Le copie dell’ordinanza con cui questa Corte ha dichiarato ammissibile il conflitto e dell’ordinanza del Tribunale di Venezia con cui esso è stato sollevato, notificate alla Camera dei deputati, non recherebbero l’attestazione di conformità all’originale da parte della Cancelleria della Corte, bensì «un’irrituale attestazione di conformità da parte della Cancelleria dello stesso ricorrente».
Effettivamente, la copia dell’ordinanza n. 272 del 2003, con cui la Corte ha dichiarato ammissibile il conflitto, notificata alla Camera dei deputati, risulta priva della attestazione di conformità all’originale ad opera della Cancelleria della Corte. Nessuna rilevanza, pertanto, può riconoscersi alla attestazione effettuata dalla Cancelleria del Tribunale di Venezia circa la conformità alla decisione della Corte delle copie di questa da essa notificate, non disponendo tale ufficio dell’originale dell’ordinanza.
Peraltro, la certezza in ordine alla corrispondenza della copia notificata all’originale non risulta pregiudicata da tale omissione, ben potendo essere agevolmente conseguita attraverso il confronto con il testo della decisione di questa Corte pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, tanto più che tale pubblicazione è avvenuta in data 30 luglio 2003, e cioè anteriormente alla notifica da parte del Tribunale di Venezia dell’ordinanza alla Camera, effettuata il 6 agosto 2003.
Di conseguenza non può configurarsi alcuna lesione del diritto di difesa, né la stessa parte resistente ha lamentato alcun concreto pregiudizio.
La difesa della Camera dei deputati ha, poi, eccepito l’inammissibilità del conflitto a causa della impossibilità di identificare il ricorrente, dal momento che l’ordinanza con cui è stato sollevato il conflitto non conterrebbe sufficienti indicazioni dell’ufficio giudiziario di provenienza, posto che mancherebbe l’indicazione delle funzioni del giudice che l’ha sottoscritta e l’ufficio di appartenenza.
Anche tale eccezione deve essere respinta. Al contrario di quanto asserito dalla resistente, infatti, l’ordinanza con cui è stato proposto il conflitto non solo specifica il luogo in cui essa è stata pronunciata e individua personalmente il magistrato che l’ha emessa, ma contiene su ciascuna pagina dell’atto, nonché in calce allo stesso, timbri che recano espressa menzione dell’ufficio ricorrente (Tribunale di Venezia). Pertanto, l’omessa intestazione dell’ordinanza non preclude l’identificazione del giudice ricorrente, la quale emerge con sufficiente certezza dal contesto dell’atto.
La difesa della Camera dei deputati eccepisce, inoltre, che il ricorso sarebbe comunque inammissibile a causa dell’assoluta incertezza nella qualificazione dell’atto introduttivo, definito dal ricorrente ora come “ordinanza” che contiene il ricorso, ora come “ricorso”.
Questa Corte, peraltro, ha più volte affermato l’irrilevanza della forma dell’atto introduttivo, allorché esso, al di là del nomen iuris, comunque possieda i requisiti di sostanza necessari per un valido ricorso (si vedano, ex plurimis, le sentenze n. 314 del 2006, n. 193 del 2005 e n. 298 del 2004).
Del pari infondate sono le eccezioni della resistente relative alla asserita mancanza, nell’atto introduttivo del conflitto, di «uno specifico petitum» e al mancato assolvimento, da parte del ricorrente, dell’onere di esprimere inequivocabilmente la pretesa da far valere, avendo il Tribunale rimesso alla Corte la valutazione di opportunità dell’annullamento dell’atto impugnato.
La consolidata giurisprudenza di questa Corte afferma che, ai fini della corretta formulazione del petitum, è sufficiente «qualsiasi espressione idonea a palesare, in modo univoco e chiaro, la volontà del ricorrente di richiedere la decisione della Corte su un determinato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato» (si vedano, ex plurimis, le sentenze n. 249 del 2006; n. 164, n. 146 e n. 28 del 2005). Nel caso del presente giudizio, il Tribunale di Venezia giustifica la proposizione del conflitto, in quanto «la Camera avrebbe sostanzialmente esorbitato dai limiti di esercizio della potestà parlamentare prevista dall’art. 68, primo comma, Cost.» e chiede alla Corte «una pronuncia che dichiari la non spettanza alla Camera dei deputati della valutazione contenuta nella delibera impugnata dell’11 gennaio 2000, con conseguente suo annullamento, se del caso, per incompetenza e dichiarando conseguentemente il potere dello Stato al quale spettano le attribuzioni contestate». La volontà del ricorrente, dunque, appare manifestata in modo inequivoco, avendo egli espressamente richiesto a questa Corte la dichiarazione di “non spettanza” alla Camera del potere in contestazione, nonché l’annullamento della delibera parlamentare.
La difesa della Camera eccepisce, ancora, l’inammissibilità del presente conflitto in ragione della asserita mancanza nell’atto introduttivo di una sufficiente descrizione delle opinioni espresse extra moenia dal deputato, tant’è che il ricorrente rinvierebbe, a tal fine, ad atti allegati all’ordinanza che, in realtà, non sarebbero mai stati depositati. Inoltre, l’atto non conterrebbe «alcuna indicazione delle “ragioni del conflitto”».
Al contrario, la descrizione delle opinioni espresse extra moenia dal deputato appare sufficiente alla loro compiuta identificazione, dal momento che il loro contenuto è stato testualmente riprodotto. Riferisce, infatti, il Tribunale che la condotta contestata nel capo di imputazione concerne le dichiarazioni che il deputato, mentre si trovava a Venezia il 14 settembre 1997, avrebbe rivolto ad una persona, che teneva esposta alla finestra la bandiera italiana, pronunciando la seguente frase: «Il tricolore lo metta al cesso, signora», e aggiungendo inoltre: «Ho ordinato un camion di carta igienica tricolore personalmente, visto che è un magistrato che dice che non posso avere la carta igienica tricolore».
È dunque irrilevante, ai fini dell’ammissibilità del conflitto, che il Tribunale, nell’atto introduttivo, abbia fatto riferimento ad atti allegati, successivamente non depositati.
Al tempo stesso, non vi è dubbio che il ricorrente abbia esposto anche le ragioni di diritto del conflitto: il Tribunale, infatti, dopo aver richiamato la giurisprudenza di questa Corte in materia, ha ampiamente contestato la valutazione dei presupposti dell’insindacabilità operata dalla Camera, affermando in particolare che la deliberazione contestata «esorbiterebbe dall’ambito dell’art. 68, primo comma, Cost., con conseguente violazione (art. 26 legge 11 marzo 1953, n. 87) degli artt. 101, secondo comma, 102, primo comma – titolarità della funzione giurisdizionale da parte della magistratura – 3 – per disparità di trattamento tra parlamentare e cittadino –, e 24, primo comma, Cost. - impossibilità per la parte lesa di fruire della tutela giurisdizionale – ».
Del pari infondata è l’eccezione sollevata dalla resistente nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, secondo la quale il ricorso sarebbe comunque divenuto «inammissibile, ovvero improcedibile per sopravvenuto difetto dell’apprezzamento (e della motivazione) dell’interesse a ricorrere», a causa dell’approvazione della legge 24 febbraio 2006, n. 85 (Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione), che ha – tra l’altro – sostituito l’art. 292 cod. pen.. Ad avviso della resistente, si renderebbe necessaria una nuova valutazione, da parte dell’autorità giudiziaria, della sussistenza dell’interesse al ricorso, nonché, in relazione alla nuova previsione legislativa, che il vilipendio avvenga «con espressioni ingiuriose», che si proceda ad una «nuova qualificazione della fattispecie concreta in ragione della mutata fattispecie astratta».
Le modifiche apportate alla figura di reato appaiono irrilevanti ai fini della perdurante sussistenza dell’interesse al ricorso per conflitto di attribuzione. D’altra parte, la valutazione circa la riconducibilità della condotta del soggetto agente nell’ambito della fattispecie incriminatrice è possibile solo in quanto il giudice possa valutare le dichiarazioni effettuate dal parlamentare, possibilità che la deliberazione della Camera – che riconduce tali affermazioni nell’ambito dell’art. 68, primo comma, Cost. – preclude.
3. – La difesa della Camera ha eccepito anche l’irricevibilità dell’atto introduttivo, dal momento che esso rivestirebbe la forma dell’ordinanza; ciò comporterebbe la violazione del principio della parità delle armi tra le parti del giudizio: in tal modo, infatti, l’autorità giudiziaria eluderebbe il disposto dell’art. 6 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, il quale obbliga la parte a depositare i propri documenti in tante copie quanti sono i componenti della Corte e le parti, prevedendo anche che il cancelliere non possa ricevere gli atti e i documenti che non siano corredati del necessario numero di copie.
L’eccezione è infondata.
La giurisprudenza di questa Corte – come in precedenza ricordato – non solo ha più volte affermato che non ha rilievo il fatto che l’atto introduttivo abbia, anziché la forma del ricorso quella dell’ordinanza, ove essa abbia i requisiti sostanziali necessari per un valido ricorso, ma anche che, di conseguenza, ciò non implica l’inosservanza delle prescrizioni di cui all’art. 6 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Inoltre, il principio di «parità delle armi», la cui violazione è lamentata a causa dell’adozione della forma dell’ordinanza, «è certamente male invocato quando si sostiene che la difesa della Camera, se ricorrente, si sobbarca all’onere di produrre numerose copie del ricorso laddove l’autorità giudiziaria, quando è ricorrente, si sottrae a tale “difficoltà materiale”. La par condicio non ha nulla a che vedere con una fattispecie che richiederebbe, nell’auspicio della difesa della Camera, una applicazione (non tanto rigorosa, quanto) rigidamente letterale dell’art. 6 citato da parte della Cancelleria della Corte nel sanzionare una irregolarità formale, pur non idonea a pregiudicare in qualsiasi modo la controparte» (sentenza n. 193 del 2005; di recente si veda pure la sentenza n. 249 del 2006).
4. – Nel merito il ricorso è fondato.
Le espressioni in questione sono state pronunciate dal deputato mentre si recava a tenere un comizio, rivolgendosi ad un cittadino che aveva esposto alla finestra della propria abitazione la bandiera italiana. Esse non trovano alcuna corrispondenza sostanziale con atti parlamentari svolti dal medesimo deputato, come evidenziato dalla stessa difesa della Camera, che richiama solo atti ed iniziative parlamentari posti in essere da altri deputati della Lega Nord (ed a nessuno dei quali risulta aver preso parte di persona in sede parlamentare il deputato Bossi), relativamente all’uso della bandiera della Repubblica.
Peraltro, ai fini della riconducibilità delle dichiarazioni per cui pende il procedimento penale nell’ambito dell’art. 68, primo comma, Cost., appaiono irrilevanti le attività svolte da altri parlamentari, sia pure appartenenti al medesimo gruppo, come questa Corte ha anche di recente ribadito in una pronuncia relativa ad una fattispecie del tutto analoga a quella oggetto del presente conflitto. In particolare, questa Corte ha affermato che la verifica del nesso funzionale tra dichiarazioni rese extra moenia ed attività tipicamente parlamentari, nonché il controllo sulla sostanziale corrispondenza tra le prime e le seconde, devono essere effettuati con riferimento alla stessa persona, mentre «sono irrilevanti gli atti di altri parlamentari», poiché, se «è vero che le guarentigie previste dall’art. 68 Cost. sono poste a tutela delle istituzioni parlamentari nel loro complesso e non si risolvono in privilegi personali dei deputati e dei senatori», tuttavia da ciò non può trarsi la conseguenza che «esista una tale fungibilità tra i parlamentari iscritti allo stesso gruppo da produrre effetti giuridici sostanziali nel campo della loro responsabilità civile e penale per le opinioni espresse al di fuori delle Camere: l’art. 68, primo comma, Cost. non configura una sorta di insindacabilità di gruppo, per cui un atto o intervento parlamentare di un appartenente ad un gruppo fornirebbe copertura costituzionale per tutti gli altri iscritti al gruppo medesimo» (sentenza n. 249 del 2006; nello stesso senso, si vedano anche le sentenze n. 146 del 2005 e n. 347 del 2004).
In altre parole, l’insindacabilità di cui al primo comma dell’art. 68 Cost. è finalizzata a garantire l’istituzione parlamentare, ma si riferisce all’attività svolta personalmente dai singoli parlamentari.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara che non spettava alla Camera dei deputati affermare che le dichiarazioni rese dal deputato Umberto Bossi, oggetto del procedimento penale davanti al Tribunale di Venezia, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione;
annulla, di conseguenza, la deliberazione di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati nella seduta dell’11 gennaio 2000 (Doc. IV-quater, n. 96).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 2006.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Depositata in Cancelleria il 28 dicembre 2006.