ORDINANZA N. 453
ANNO 2005
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Annibale MARINI Presidente
- Franco BILE Giudice
- Giovanni Maria FLICK “
- Francesco AMIRANTE “
- Ugo DE SIERVO “
- Romano VACCARELLA “
- Paolo MADDALENA “
- Alfonso QUARANTA “
- Franco GALLO “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 7, commi 1 e 2, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni), promossi con ordinanze depositate il 2 luglio 2003 ed il 22 aprile 2004 dalla Commissione tributaria provinciale di Milano, nelle controversie vertenti tra Niccolò Branca ed altri nei confronti dell’Agenzia delle entrate, Ufficio di Milano 1, rispettivamente iscritte al n. 700 del registro ordinanze 2004 e al n. 16 del registro ordinanze 2005 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2004 e n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2005.
Visti gli atti di costituzione di Niccolò Branca ed altri, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 25 ottobre 2005 il Giudice relatore Franco Gallo;
uditi gli avvocati Massimo Luciani e Gianni Marongiu per Niccolò Branca ed altri e l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che, nel corso di un giudizio promosso da Niccolò Branca avverso l’avviso di liquidazione dell’imposta principale relativa alla successione di Carlo Ranieri Branca, la Commissione tributaria provinciale di Milano ha sollevato, con ordinanza del 6 maggio 2003, depositata il 2 luglio 2003 (r.o. n. 700 del 2004), questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni);
che, secondo il giudice rimettente, la norma denunciata – nel testo anteriore alla modifica apportata dall’art. 69, comma 1, lettera c), della legge 21 novembre 2000, n. 342 (Misure in materia fiscale) – prevedendo per gli eredi o legatari cosiddetti “indiretti”, cioè non legati da rapporto di coniugio o di parentela in linea retta con il defunto, il cumulo dell’imposta sull’asse globale (riferita all’intero patrimonio del de cuius) con l’imposta dovuta sulle singole quote (riferita al trasferimento di ricchezza conseguito dagli eredi o legatari), violerebbe: a) il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., perché la compresenza di due imposte successorie – soggette a distinte discipline, con diverse scale di aliquote progressive e reciprocamente indeducibili – a carico del medesimo successore cosiddetto “indiretto” «concreta una sperequazione priva di alcuna giustificazione», in quanto l’imposta sul valore globale dell’asse ereditario «tassa una ricchezza fittizia, avulsa cioè dall’effettivo arricchimento provocato in capo all’erede dalla successione dal de cuius»; b) il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., perché il presupposto dell’imposta sul valore globale della successione, costituito dall’arricchimento («sia pure fittizio») che si determina a vantaggio del chiamato all’eredità, «quando diviene effettivo accrescimento del patrimonio del chiamato a séguito dell’accettazione dell’eredità […] finisce con il costituire ragione impositiva della tassa sulle quote ereditarie, con la conseguenza che un medesimo cespite è alla base di due tassazioni distinte nei confronti dello stesso soggetto»;
che, in punto di rilevanza, il giudice a quo afferma che, nel caso di accoglimento della sollevata questione, il ricorrente nel giudizio principale vedrebbe accolta l’impugnazione proposta avverso l’avviso di liquidazione;
che, nel giudizio di legittimità costituzionale, si è costituito il contribuente Niccolò Branca, il quale – dopo aver premesso di non essere coniuge o parente in linea retta del de cuius e di avere accettato con beneficio d’inventario l’eredità devolutagli per testamento, a séguito di successione apertasi il 3 marzo 1998 – conclude per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma denunciata dal giudice rimettente;
che la parte privata, dopo un ampio excursus storico sull’evoluzione normativa dell’imposta sul valore netto globale dell’asse ereditario, afferma che sono inconferenti alla risoluzione della sollevata questione – e comunque errate nel merito – le sentenze della Corte costituzionale n. 147 del 1975 e n. 68 del 1985, le quali hanno entrambe dichiarato non fondate le prospettate censure di illegittimità costituzionale dell’imposta sul valore netto globale dell’asse ereditario, ma in relazione a norme anteriori a quella denunciata, mentre quest’ultima si porrebbe in evidente ed insanabile contrasto con la capacità contributiva del singolo erede o legatario, colpendo non già l’arricchimento di questo, bensí la ricchezza del morto;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, adducendo la manifesta inammissibilità o, in subordine, la manifesta infondatezza della questione;
che, in relazione alla eccepita inammissibilità, la difesa erariale afferma che la previsione cumulativa delle due indicate modalità di imposizione successoria – in difetto della prova che tale cumulo comporti la lesione della capacità contributiva dei successori mortis causa – costituisce una insindacabile scelta discrezionale del legislatore, il quale avrebbe potuto adottare anche modalità impositive diverse, ma di effetto economicamente equivalente;
che, in relazione alla dedotta infondatezza, l’Avvocatura generale dello Stato in primo luogo nega che la normativa censurata si risolva in una duplicazione di tributi, come avrebbero chiarito la sentenza n. 147 del 1975 e l’ordinanza n. 236 del 1997 della Corte costituzionale (sia pure con riguardo alla disciplina anteriore al d.lgs. n. 346 del 1990), ed in secondo luogo osserva che il rimettente pone a raffronto situazioni non omogenee, perché l’esclusione dall’imposizione sulle quote ereditarie per i coniugi ed i parenti in linea retta trova giustificazione nel vincolo familiare particolarmente stretto che li unisce al de cuius e, comunque, costituisce disposizione eccezionale la cui mancata estensione a casi diversi non costituisce violazione del principio di eguaglianza;
che nel corso di due giudizi riuniti, promossi da Niccolò Branca, Ilaria Branca e Gloria Cavaciocchi avverso alcuni avvisi di liquidazione dell’imposta principale relativa alla successione di Pierluigi Branca, deceduto il 30 novembre 1999, la Commissione tributaria provinciale di Milano ha sollevato, con ordinanza dell’11 marzo 2004, depositata il 22 aprile 2004 (r.o. n. 16 del 2005), questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, commi 1 e 2, del citato decreto legislativo n. 346 del 1990, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata;
che, secondo il giudice rimettente, il d.lgs. n. 346 del 1990 innoverebbe il precedente regime fiscale perché la tassazione del patrimonio del de cuius non sarebbe più posta a carico del chiamato all’eredità, ma a carico di ciascun «beneficiario attivo dell’eredità», a séguito dell’accettazione dell’eredità, con la conseguenza che la capacità contributiva dovrebbe essere specificamente riferita a chi effettivamente si arricchisca dei beni ereditari;
che su tali premesse interpretative, il giudice a quo afferma che le norme censurate – modificate dall’art. 69, comma 1, lettera c), della legge n. 342 del 2000, ma applicabili ratione temporis alla fattispecie nel loro testo originario – sono in contrasto con i princípi di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di capacità contributiva (art. 53 Cost.), perché, senza alcuna «motivazione logica convincente», prevedono, a causa della progressività delle aliquote, un carico fiscale differente, a seconda che dei beni ereditari beneficino «uno o più soggetti», pur in presenza di un identico valore dei beni ricevuti mortis causa;
che, nel giudizio di legittimità costituzionale, si sono costituiti i contribuenti Niccolò Branca, Ilaria Branca e Gloria Cavaciocchi, chiedendo la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme denunciate dal giudice rimettente;
che le parti private precisano di essere, rispettivamente, figlio, figlia e coniuge del de cuius; di avere accettato con beneficio d’inventario l’eredità, a séguito di successione apertasi il 30 novembre 1999; di avere impugnato gli avvisi di liquidazione dell’imposta di successione, relativi sia alla prima denuncia di successione per lire 40.059.672.000, sia alla denuncia integrativa di successione per lire 9.260.490.093; di aver specificamente contestato, nei giudizi principali, la debenza dell’imposta sul valore globale della successione;
che le stesse parti private – dopo aver illustrato i precedenti e le successive modificazioni dell’imposta sul valore netto globale dell’asse ereditario – deducono il contrasto della norma censurata con il principio della capacità contributiva dell’erede e ripropongono, nella sostanza, le osservazioni già svolte dal contribuente nella memoria di costituzione nell’altro giudizio di legittimità costituzionale sia sul punto della non pertinenza delle sentenze della Corte costituzionale n. 147 del 1975 e n. 68 del 1985 per la risoluzione della questione; sia sul punto dell’accento, che il d.lgs. n. 346 del 1990 avrebbe posto, sul nesso tra l’unitaria imposizione successoria e la capacità contributiva del singolo erede o legatario; sia sul punto dell’asserita incongruenza tra il presupposto e la base imponibile del tributo successorio (entrambi afferenti all’arricchimento effettivo ed alla capacità contributiva dell’erede o legatario), rispetto alla tassazione del valore globale dell’asse ereditario (afferente, invece, alla capacità contributiva solo del defunto); sia, infine, sul punto delle inique ed irragionevoli sperequazioni che comporterebbe l’applicazione di aliquote progressive nel tributo, di carattere reale, sul valore netto globale dell’asse ereditario.
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, adducendo la manifesta inammissibilità o, in subordine, la manifesta infondatezza della questione;
che, quanto all’inammissibilità, la difesa erariale eccepisce il difetto di motivazione sulla rilevanza, perché, non essendo stati riportati nell’ordinanza di rimessione né i motivi dei ricorsi dei contribuenti né le argomentazioni difensive dell’Amministrazione finanziaria, non risulterebbe se le parti controvertano sull’aliquota applicabile all’asse ereditario;
che, quanto all’infondatezza, l’Avvocatura generale dello Stato osserva: a) che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 68 del 1985 e con le ordinanze n. 170 del 1988, n. 222 del 1989 e n. 179 del 1992, ha chiarito che l’imposta di successione di cui al d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637 (Disciplina dell’imposta sulle successioni e donazioni) è in diretto collegamento con il patrimonio ereditario unitariamente considerato, colpendo l’eredità come tale, indipendentemente dal trasferimento di ricchezza; b) che, contrariamente all’assunto del rimettente, il d.lgs. n. 346 del 1990 – disponendo, all’art. 7, comma 4, che, «fino a quando l’eredità non è stata accettata da tutti i chiamati, l’imposta è determinata considerando come eredi i chiamati che non vi hanno rinunciato» – non innova affatto la previgente disciplina sui soggetti passivi d’imposta, mantenendo all’imposta sulle successioni la configurazione di imposta progressiva sul complesso del patrimonio ereditario, senza trasformarla in imposta sulla trasmissione di tale patrimonio ai singoli eredi; c) che rientra nella insindacabile discrezionalità del legislatore individuare il presupposto oggettivo di imposta, con il solo limite (nella specie non superato) che non vengano colpiti elementi del tutto inidonei a manifestare ricchezza; d) che l’imposta sull’asse ereditario, là dove assoggetta le singole quote ereditarie (pur se di pari valore) ad aliquote di imposta diverse a seconda dell’entità globale dell’asse, prevede un trattamento differenziato per situazioni tra loro diverse e, quindi, non víola il principio di eguaglianza; e) che la legge prevede specifiche disposizioni antielusive della censurata disciplina dell’imposta di successione, proprio al fine di prevenire artificiose riduzioni dell’asse ereditario e di garantire che ogni patrimonio caduto in successione sconti l’aliquota pertinente alla sua effettiva consistenza.
Considerato che le ordinanze di rimessione, entrambe emesse dalla Commissione tributaria provinciale di Milano, sollevano questioni in gran parte analoghe e comunque connesse e che, pertanto, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi;
che la questione sollevata con l’ordinanza registrata al n. 700 del 2004 è manifestamente inammissibile, mentre quella sollevata con l’ordinanza registrata al n. 16 del 2005 è in parte manifestamente inammissibile ed in parte manifestamente infondata;
che, con la prima ordinanza, la Commissione tributaria provinciale di Milano dubita della legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni) – nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 69, comma 1, lettera c), della legge 21 novembre 2000, n. 342 (Misure in materia fiscale) – nella parte in cui prevede per gli eredi o legatari cosiddetti “indiretti”, cioè non legati da rapporto di coniugio o di parentela in linea retta con il defunto, il cumulo dell’imposta sull’asse globale con l’imposta dovuta sulle singole quote trasferite ai successori mortis causa;
che, secondo il giudice rimettente, la norma denunciata violerebbe gli artt. 3 e 53 della Costituzione, sia perché, «senza alcuna giustificazione», l’erede o legatario cosiddetto “indiretto” viene contemporaneamente gravato non solo dall’imposta successoria collegata all’effettivo arricchimento derivante dal lascito ereditario in suo favore, ma anche dall’imposta sul valore globale dell’asse, collegata ad una ricchezza sussistente in capo al de cuius e non necessariamente in capo all’erede od al legatario; sia perché l’arricchimento «fittizio» del chiamato all’eredità – costituente il presupposto dell’imposta sul valore netto globale dell’asse ereditario – diverrebbe «effettivo» solo a séguito dell’«accettazione dell’eredità», con la conseguenza che, in contrasto con il principio di capacità contributiva, un medesimo cespite sarebbe alla base di due distinte imposizioni nei confronti dello stesso soggetto;
che, tuttavia, il giudice a quo non precisa né la data dell’apertura della successione né se il contribuente sia erede cosiddetto “diretto” o “indiretto” del defunto, limitandosi ad affermare che l’accoglimento della sollevata questione comporterebbe che «il ricorrente Branca si vedrebbe esonerato dal pagamento di una somma […] pretesa con l’avviso di liquidazione impugnato»;
che tale incompleta descrizione della fattispecie impedisce il controllo di questa Corte circa l’applicabilità, nel giudizio a quo, della norma censurata, sia ratione temporis (in quanto, ai sensi dell’art. 69, comma 15, della legge n. 342 del 2000, la disposizione denunciata si applica solo alle successioni per le quali il termine di presentazione delle relative dichiarazioni ha scadenza non successiva al 31 dicembre 2000), sia in riferimento al cumulo dell’imposta sull’asse globale con quella sulla singola quota ereditaria o sul legato (in quanto il denunciato cumulo si applica solo nei confronti dell’erede, coerede o legatario che non è coniuge né parente in linea retta del defunto);
che, in applicazione del consolidato principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione (v., ex plurimis, sentenza n. 329 del 2001; ordinanze n. 166, n. 125 e n. 22 del 2005; n. 119 del 2002; n. 279 del 2000), le indicate lacune nella descrizione della fattispecie non sono colmabili in base agli scritti difensivi delle parti e si traducono, pertanto, in difetto di motivazione sulla rilevanza della questione, con conseguente manifesta inammissibilità di questa;
che la stessa Commissione tributaria provinciale, con la seconda ordinanza (registrata al n. 16 del 2005), dubita, sempre in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 7, commi 1 e 2, del citato decreto legislativo n. 346 del 1990 – nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 69, comma 1, lettera c), della legge n. 342 del 2000 – perché tali disposizioni non solo irragionevolmente comporterebbero, a causa della progressività delle aliquote di imposizione sull’asse globale ereditario, un carico fiscale differente, a parità di valore del lascito ereditario, a seconda che dei beni ereditari beneficino «uno o più soggetti», ma si porrebbero altresí in contrasto con la disciplina del suddetto d.lgs. n. 346 del 1990, che, prevedendo quale soggetto passivo del tributo non più il mero chiamato all’eredità (come nella previgente normativa), bensí l’erede od il legatario, postulerebbe l’esclusivo riferimento alla specifica capacità contributiva di questi ultimi e non del de cuius;
che il rimettente genericamente afferma la rilevanza della questione nei giudizi principali e precisa, al riguardo, che i ricorrenti sono i figli e la vedova del de cuius, deceduto il 30 novembre 1999 e, quindi, sono i suoi eredi cosiddetti “diretti”;
che tuttavia, in riferimento al denunciato comma 2 dell’art. 7 del d.lgs. n. 346 del 1990, il rimettente omette di fornire una specifica motivazione sull’applicabilità di tale disposizione nei giudizi a quibus; motivazione tanto più necessaria in quanto la stessa ordinanza di rimessione afferma che i giudizi principali non riguardano l’imposta sulle singole quote ereditarie, prevista dal citato comma 2 a carico esclusivamente dei cosiddetti eredi o legatari “indiretti”, ma hanno ad oggetto l’impugnazione degli avvisi di liquidazione della sola imposta sul valore netto globale dell’asse ereditario, prevista dal comma 1 dell’indicato art. 7, ed appunto emessi – nella specie – nei confronti degli eredi cosiddetti “diretti” del defunto;
che, pertanto, la motivazione dell’ordinanza è carente in ordine alla rilevanza, per quanto attiene al censurato comma 2 dell’art. 7 del d.lgs. n. 346 del 1990, e comporta la manifesta inammissibilità della relativa questione;
che, invece, in riferimento al denunciato comma 1 dello stesso art. 7, la questione è ammissibile, perché il rimettente – contrariamente a quanto eccepito dalla difesa erariale – ha precisato sia le ragioni di impugnazione prospettate dai contribuenti nei giudizi principali (cioè la dedotta illegittimità costituzionale dell’imposta sul valore netto globale dell’asse ereditario), sia l’applicabilità nella specie di aliquote superiori a quella minima sul valore netto globale dell’asse ereditario (tenuto conto che l’attivo dichiarato del patrimonio ereditario supera lire 40 miliardi) ed ha quindi fornito adeguata motivazione della rilevanza, in ragione della dimostrata applicabilità della denunciata normativa nei giudizi riuniti a quibus, con riguardo al tempo dell’apertura della successione e con riguardo ad un’aliquota di imposta superiore a quella minima;
che, nel merito, la questione è manifestamente infondata;
che in proposito va osservato che le censure prospettate dal giudice a quo si incentrano sostanzialmente nel rilievo che, se il presupposto dell’imposta di successione, quale disciplinata dal d.lgs. n. 346 del 1990, è il trasferimento (o, comunque, l’incremento) di ricchezza in favore di ciascun successore e se, di conseguenza, il soggetto passivo è il beneficiario del singolo lascito ereditario, allora il prelievo tributario, che prescinda dall’entità di tale lascito e si rapporti – con un’aliquota progressiva a scaglioni – al valore dell’asse ereditario globale, dovrà essere ritenuto in contrasto con i princípi di uguaglianza (art. 3 Cost.) e di capacità contributiva (art. 53 Cost.);
che, in particolare, il contrasto con il principio di uguaglianza conseguirebbe al fatto che, a parità di valore dei singoli lasciti ereditari, la progressività dell’aliquota comporta una maggiore incidenza fiscale per ciascun successore nel caso in cui il lascito provenga da un asse ereditario di maggior valore globale netto; ed il contrasto con la capacità contributiva di ciascun successore deriverebbe dalla circostanza che l’imposta sul valore netto globale dell’asse ereditario si rapporta alla capacità contributiva del de cuius (configurandosi come una “tassa sul morto”, cioè sull’intero asse relitto) o dell’eredità giacente (come tale), i quali sono privi di soggettività tributaria;
che, tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha già più volte esaminato simili censure e ne ha sempre negato il fondamento, avendo precisato, in numerose pronunce, che l’imposta sul valore netto globale dell’asse ereditario colpisce l’eredità come tale, indipendentemente dal trasferimento di ricchezza agli aventi causa uti singuli, in quanto si collega direttamente con il patrimonio ereditario unitariamente considerato (sentenza n. 68 del 1985; ordinanze n. 170 e n. 172 del 1988, n. 222 del 1989, n. 211 del 1990, n. 179 del 1992 e n. 353 del 1993; nello stesso senso, sostanzialmente, già la sentenza n. 147 del 1975);
che da tale premessa la menzionata giurisprudenza ha infatti tratto il corollario, per quanto concerne l’evocato art. 53 Cost., che non può ravvisarsi violazione del principio di capacità contributiva nell’applicazione dell’imposta sul valore netto globale dell’asse ereditario, perché questa ha carattere reale ed in tale tipo di imposta «la capacità contributiva è data dal valore del bene tassato e non dal patrimonio del soggetto o dei soggetti ai quali il bene appartiene» (cosí, testualmente, la citata sentenza n. 147 del 1975);
che, per la medesima giurisprudenza, non è contrario agli artt. 3 e 53 Cost. che, per effetto della progressività dell’indicato tributo, «a seconda del valore dell’asse, […] quote ereditarie di eguale valore siano gravate da imposte di ammontare differente», e ciò perché «non è irrazionale […] avere ritenuto diverse, agli effetti tributari, successioni ereditarie per quote dello stesso valore da assi di valore diverso» (cosí, in particolare, la suddetta sentenza n. 147 del 1975);
che il giudice a quo e le parti private, pur non criticando tale giurisprudenza, tuttavia la ritengono inconferente, perché riguarderebbe solo la normativa previgente a quella denunciata e presupporrebbe, perciò, un soggetto passivo d’imposta (il chiamato all’eredità) ed una nozione di capacità contributiva (commisurata al valore globale dell’asse ereditario) non più compatibili con la normativa dell’imposta di successione introdotta con il d.lgs. n. 346 del 1990, il quale – sempre per il giudice a quo – avrebbe innovato il quadro normativo, stabilendo che il soggetto passivo d’imposta si identifica con il successore mortis causa e che la capacità contributiva di questo va commisurata esclusivamente al trasferimento (od all’incremento, secondo una variante interpretativa) di ricchezza in suo favore;
che l’affermazione del rimettente e delle parti private circa il mancato esame, da parte di questa Corte, della normativa denunciata è inesatta, perché tale normativa è stata già valutata dalla sentenza n. 111 del 1997, la quale ha ritenuto non lesivo dei princípi di uguaglianza e di capacità contributiva il fatto che il legislatore individui, di volta in volta, quali indici di capacità contributiva, le varie specie di beni patrimoniali, come accade nel caso, appunto, dell’«imposta sul valore globale netto dell’asse ereditario (d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346)»;
che anche l’altra affermazione circa le innovazioni che il legislatore del 1990 avrebbe apportato alla disciplina dell’imposta sulle successioni è inesatta, perché, se è vero che l’art. 42, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 346 del 1990 – consentendo di richiedere agli uffici tributari il rimborso dell’imposta di successione «pagata o pagata in più a séguito di sopravvenuto mutamento della devoluzione ereditaria», anziché solo il rimborso dell’imposta «percetta in più per la mutata devoluzione ereditaria» previsto dall’ art. 47, primo comma, numero 3, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637 (Disciplina dell’imposta sulle successioni e donazioni) – ha definitivamente chiarito che il soggetto passivo dell’imposta è l’erede od il legatario e non il chiamato (gravato solo di obblighi strumentali e comunque provvisori, come si desume anche dal disposto dell’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 346 del 1990, per il quale, «fino a quando l’eredità non è stata accettata, o non è stata accettata da tutti i chiamati, l’imposta è determinata considerando come eredi i chiamati che non vi hanno rinunziato»), è altrettanto vero che tale interpretazione era ben possibile già nella precedente normativa, come del resto rilevato da questa stessa Corte con la sentenza n. 147 del 1975, secondo cui l’imposta grava «in definitiva» sull’erede, e come sostenuto da autorevole dottrina, secondo cui l’imposizione posta a carico del chiamato all’eredità era da considerarsi provvisoria perché suscettibile di essere rimossa mediante restituzione in caso di mancata accettazione dell’eredità;
che, comunque, la citata giurisprudenza di questa Corte, riguardante esclusivamente fattispecie relative a successori mortis causa e che ha costantemente dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’imposta sull’asse ereditario all’epoca sollevate, ha sempre evidenziato, quale propria essenziale ratio decidendi, l’argomento tratto dal fatto oggettivo del «diretto collegamento dell’imposizione con il patrimonio ereditario unitariamente considerato, indipendentemente dal trasferimento di ricchezza», con la conseguenza che, in questa prospettiva, importa solo tale «diretto collegamento», mentre appare irrilevante identificare il soggetto passivo nel chiamato all’eredità o nell’effettivo successore mortis causa;
che, una volta esclusi significativi elementi di novità nella normativa censurata rispetto alla precedente disciplina e negli argomenti prospettati dal rimettente rispetto a quelli già esaminati da questa Corte, va confermata l’indicata giurisprudenza costituzionale in tema di imposta sul valore netto globale dell’asse ereditario;
che, pertanto, deve essere qui ribadito e chiarito, con particolare riferimento alla normativa denunciata, che l’imposta sulle successioni – pur se formalmente unica, dopo l’unificazione dell’imposta sul valore netto globale dell’asse ereditario con l’imposta sulle singole quote ereditarie e sui legati, operata dal d.P.R. n. 637 del 1972 e confermata dal d.lgs. n. 346 del 1990 – continua ad articolarsi (con diversità di presupposto e di base imponibile) in una imposizione di carattere prevalentemente patrimoniale e reale, gravante su tutti i successori ed incidente sull’asse ereditario globale, ed in una imposizione delle quote ereditarie e dei legati, gravante soltanto sui successori cosiddetti “indiretti” ed incidente sul singolo trasferimento (od incremento) di ricchezza in favore di ciascun beneficiario;
che, quanto alla denunciata imposizione incidente sull’asse ereditario, il legislatore – con scelta non isolata nell’àmbito della legislazione fiscale dei paesi occidentali – ha non irragionevolmente assunto, nella sua discrezionalità, il complessivo patrimonio ereditario quale base di commisurazione dell’imposta progressiva da ripartire fra i beneficiari, avendo come fine il perseguimento, in occasione delle vicende traslative mortis causa, di politiche redistributive non sindacabili da questa Corte, se non nei limiti della manifesta arbitrarietà o irrazionalità (nella specie non sussistente);
che questa non censurabile scelta del legislatore di attribuire carattere reale all’imposta sull’asse ereditario giustifica l’imposizione per il solo fatto oggettivo dell’esistenza del patrimonio ereditario unitariamente considerato e, di conseguenza, l’identificazione del soggetto passivo in colui che ha un collegamento effettivo con detto patrimonio, e cioè nel successore mortis causa;
che, date tali premesse, l’imposta denunciata non víola l’evocato art. 53, primo comma, Cost., perché, gravando sul patrimonio ereditario, ha riguardo ad una capacità contributiva manifestata dal medesimo patrimonio nel suo complesso e non – come avviene nel caso dell’imposta sulle quote ereditarie e sui legati – dal singolo trasferimento (od incremento) di ricchezza in favore dei successori;
che, diversamente da quanto asserito dalle parti private, va rilevato che nessuna pronuncia di questa Corte afferma che la progressività è incompatibile con la natura reale di qualsiasi imposta (tanto meno la richiamata sentenza n. 128 del 1966, la quale, con riferimento all’imposta di bollo vigente all’epoca, si limita a rilevare che «non tutti i tributi si prestano, dal punto di vista tecnico, all’adattamento al principio della progressività» e che detto principio è «applicabile alle imposte personali ma non a tutte le altre diverse imposte»);
che, anzi, non è contrario al principio generale di cui all’art. 53, secondo comma, Cost. che un’imposta reale possa essere anche progressiva (come la soppressa imposta di ricchezza mobile, per la parte relativa ai redditi di impresa e di lavoro, disciplinata dal d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, recante «Approvazione del testo unico delle leggi sulle imposte dirette», soprattutto nel testo modificato dall’art. 1 della legge 3 novembre 1964, n. 1190, recante «Variazioni delle aliquote dell’imposta di ricchezza mobile»; nonché come la parimenti soppressa imposta sull’incremento di valore degli immobili, di cui al d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643, recante «Istituzione dell’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili»);
che la natura reale del denunciato tributo non osta, dunque, a che la progressività del prelievo sia costruita in funzione del solo valore dell’asse globale, con la conseguenza che, nella specie, va esclusa la lamentata ingiustificata disparità di trattamento fiscale di lasciti ereditari di identico valore, perché la tassazione di tali lasciti avviene commisurando l’aliquota progressiva ad assi di diversa entità e, pertanto, riguarda situazioni non omogenee e tra loro non comparabili.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Milano, con entrambe le ordinanze indicate in epigrafe;
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, dello stesso decreto legislativo n. 346 del 1990, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla medesima Commissione tributaria provinciale di Milano, con l’ordinanza datata 11 marzo 2004, indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 2005.
Annibale MARINI, Presidente
Franco GALLO, Redattore
Depositata in Cancelleria il 15 dicembre 2005.