Sentenza n. 111 del 2005

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SENTENZA N. 111

ANNO 2005

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Fernanda    CONTRI                                                     Presidente

- Guido         NEPPI MODONA                                       Giudice

- Piero Alberto CAPOTOSTI                                                  ”

- Annibale     MARINI                                                            ”

- Franco        BILE                                                                  ”

- Giovanni Maria FLICK                                                         ”

- Francesco   AMIRANTE                                                      ”

- Ugo            DE SIERVO                                                      ”

- Romano      VACCARELLA                                                ”

- Paolo          MADDALENA                                                 ”

- Alfio           FINOCCHIARO                                               ”

- Alfonso      QUARANTA                                                     ”

- Franco        GALLO                                                              ”

ha pronunciato la seguente                                          

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 4, della legge della Regione Puglia 7 marzo 2003, n. 4 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2003 e bilancio pluriennale 2003-2005 della Regione Puglia), promossi con ordinanze del 19 dicembre 2003, del 19 e del 29 gennaio 2004 dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, rispettivamente iscritte ai nn. 178, 261 e 262 del registro ordinanze 2004 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 12 e 15, prima serie speciale, dell’anno 2004.

Visti gli atti di costituzione dell’Azienda unità sanitaria locale Lecce 1, del Centro diagnostico salentino, del Laboratorio di analisi “Madonna della Neve” s.p.a. e della Regione Puglia;

udito nell’udienza pubblica dell’8 febbraio 2005 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;

uditi gli avvocati Gianluigi Pellegrino per il Centro diagnostico salentino, M. Cristina Lenoci e Fabrizio Lofoco per il Laboratorio di analisi “Madonna della Neve” s.p.a., Beniamino Caravita di Toritto, Pierluigi Portaluri e Luciano Ancora per la Regione Puglia e Vito Aurelio Pappalepore per l’Azienda unità sanitaria locale Lecce 1.

Ritenuto in fatto

1.¾ Il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, con tre provvedimenti di pressoché identico contenuto (r.o. nn. 178, 261 e 262 del 2004), il primo dei quali avente forma di sentenza, ha sollevato questione di legittimità costituzionale – per violazione degli articoli 3, 97 e 117 della Costituzione – dell’art. 30, comma 4, della legge della Regione Puglia 7 marzo 2003, n. 4 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2003 e bilancio pluriennale 2003-2005 della Regione Puglia).

1.1.¾ Il Tribunale rimettente deduce che «le censure sollevate nel ricorso in ordine alla assegnazione di risorse economiche per l’acquisto, da parte del Servizio sanitario regionale, di prestazioni specialistiche ambulatoriali da privati impongono l’esame dei seguenti profili: a) la competenza a disporre, ai vari livelli, l’assegnazione di risorse per lo svolgimento di diverse attività che spettano al Servizio sanitario regionale; b) la posizione rivestita dalle istituzioni private nell’ambito del Servizio sanitario regionale; c) le modalità di finanziamento delle istituzioni pubbliche e di quelle private; d) i criteri preposti alla ripartizione delle risorse economiche tra le varie finalità perseguite dal Servizio sanitario regionale, nonché all’assegnazione delle stesse alla assistenza specialistica ambulatoriale e, quindi, alla determinazione dei tetti di spesa relativi all’acquisto di prestazioni specialistiche ambulatoriali da privati».

Nei provvedimenti di rimessione, pertanto, si procede ad una analitica disamina della normativa, statale e regionale, recante la disciplina dei profili suddetti.

1.2.¾ Premesso il quadro normativo di riferimento, il rimettente, per quanto, specificamente, attiene alla disposizione impugnata nella «parte relativa alla determinazione del tetto cosiddetto “montante”, fino al quale la remunerazione è erogata in misura pari al 100 per cento delle tariffe previste», osserva che «le determinazioni amministrative sono vincolate dall’art. 30, comma 4, della legge regionale n. 4 del 2003, che fissa questo tetto della spesa globale in misura corrispondente al valore attuale delle prestazioni erogate nel 1998». In tal modo, quindi, «non si tiene in alcun conto l’andamento della domanda negli anni successivi al 1998», andamento che mostra, invece, «il divario esistente tra la domanda di prestazioni specialistiche rivolta alle strutture private e l’assegnazione di somme per l’acquisto da parte del Servizio sanitario regionale di tali prestazioni».

Ne deriva, secondo il giudice a quo, che la disposizione censurata viola «il principio di razionalità delle scelte sancito dagli artt. 3 (in funzione dell’eguaglianza) e 97 (in funzione della bontà dell’azione amministrativa) della Costituzione, nonché l’art. 117 della Costituzione, in quanto contraddice vari principî fondamentali sanciti dalla legislazione statale nella materia», rinvenibili, in particolare, nel decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421).

Infatti, «l’insieme delle prestazioni specialistiche ambulatoriali che il Servizio sanitario regionale deve rendere e deve, quindi, acquistare da strutture pubbliche o private deve essere suddiviso fra le une e le altre in base alle esigenze primarie di assicurare la libertà di scelta dell’utente» (art. 8-bis, comma 2, del d.lgs. n. 502 del 1992), «l’efficace competizione fra le strutture accreditate», ex art. 8-quater, comma 3, lettera b) del medesimo decreto legislativo, nonché l’equiordinazione delle stesse (sancita dall’art. 8-bis, comma 1, e dall’art. 8-sexies, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992), e, da ultimo, «l’economicità della scelta, dovendo l’acquisto conseguire anche a valutazioni comparative della qualità e dei costi», così come stabilito dall’art. 8-quinquies, comma 2, del già citato d.lgs. n. 502 del 1992.

Sempre in relazione all’art. 117 della Costituzione, e «con specifico riguardo alle norme che sanciscono l’equiordinazione delle strutture pubbliche e di quelle private», il rimettente osserva che «il dubbio di costituzionalità» non parrebbe escluso dalla circostanza che la disposizione censurata preveda che «i patti relativi a programmi comprendenti volumi di prestazioni pari a quelli erogati nel 1998 riguardino sia le strutture pubbliche che quelle private; ciò perché tali accordi, in base alla legislazione regionale, non intercorrono con i presidî ospedalieri amministrati dalle Aziende unità sanitarie locali (AUSL), cioè la stragrande maggioranza delle strutture ospedaliere pubbliche».

Circa, infine, la rilevanza della questione il rimettente ritiene che la stessa sia «indubbia», giacché la declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 30, comma 4, della legge regionale n. 4 del 2003 – «nella parte in cui prevede che le AUSL stipulano con le strutture private patti relativi a programmi comprendenti prestazioni sanitarie per volumi pari a quelli erogati nel 1998, da remunerare a tariffa intera» – comporterebbe l’illegittimità dei provvedimenti impugnati.

2.¾ È intervenuto il Centro diagnostico salentino (parte ricorrente nel primo dei tre giudizi a quibus), il quale si è costituito con atto depositato presso la cancelleria della Corte il 9 aprile 2004, ed ha chiesto l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale.

2.1.¾ Nel premettere che «alcuni dei principî fondamentali affermati dal Tribunale amministrativo regionale pugliese sono stati recentemente confermati dal Consiglio di Stato», la predetta parte privata sottolinea quella che definisce come «la sostanziale ribellione ai principî cardine dell’ordinamento statuale in materia, da parte della Regione Puglia», realizzata per effetto dell’art. 30, comma 4, della legge regionale n. 4 del 2003, disposizione alla stregua della quale «i volumi di prestazioni da concordarsi con le strutture private (ai fini dell’attribuzione dei relativi budgets) devono essere fissati “in misura corrispondente a quelli erogati nel 1998”».

È proprio, difatti, il riferimento ai volumi di prestazioni “erogati nel 1998” – sulla base dei quali gli atti regionali, impugnati nel giudizio a quo, individuano in concreto «le prestazioni da corrispondersi a tariffa intera alle strutture private (cd. montante), prevedendo poi (peraltro solo per un piccolo margine) il pagamento in misura ridotta delle prestazioni ulteriormente erogate (sino al cd. tetto invalicabile)» – a formare oggetto del dubbio di costituzionalità, giacché l’impiego di tale sistema darebbe luogo a determinazioni che «ignorano l’effettiva evoluzione della domanda» in materia di prestazioni sanitarie.

«È infatti evidente» – prosegue la parte privata – che «per le prestazioni de quibus le somme che l’Amministrazione sanitaria ha a disposizione devono essere ripartite per l’acquisto di prestazioni da parte di strutture pubbliche e private, non già in base a dati cristallizzati nel corso del tempo, né tantomeno sulla scorta di una inammissibile discriminazione soggettiva» tra tali strutture, dovendo piuttosto tale ripartizione avvenire – «pur nella riconosciuta limitatezza delle risorse» – sulla scorta di «criteri che, sulla base dell’atteggiarsi della domanda dell’utenza, possano realmente garantire la piena equiordinazione e la concorrenza tra strutture pubbliche e strutture private».

Da ciò deriva, quindi, «la evidente violazione» dell’art. 117 della Costituzione realizzata dalla norma impugnata – sub specie di contrasto con taluni principî fondamentali posti dalla legislazione statale (quali quelli della «libertà di scelta dell’utente tra strutture equiordinate», della «efficace competizione tra le strutture accreditate», e della necessità che l’acquisto delle prestazioni avvenga «a seguito di valutazioni comparative della qualità e dei costi») – nella parte in cui «vincola al risalente volume di prestazioni erogate nel 1998 il volume di prestazioni “concordato” (…) da attribuire alle strutture private per l’anno 2003, prescindendo del tutto dal concreto atteggiarsi della domanda dell’utenza per come registrato nei cinque anni intercorsi».

«Indiscutibile», poi, «è anche la violazione degli artt. 3 e 97 Cost.», giacché «vengono differentemente trattati soggetti (pubblici e privati) equiordinati dalla disciplina di sistema», mentre viene osservato come «i principî fondamentali innanzi richiamati» siano «precipuamente funzionali all’ottimizzazione del sistema attraverso la equiordinazione e la concorrenza tra le strutture, a beneficio ultimo del miglioramento del servizio e cioè della quantità/qualità di prestazioni da erogarsi con le risorse disponibili». Sempre, infatti, in relazione al profilo della violazione dell’art. 97 Cost. viene rilevato che la norma impugnata, «vincolando il budget da assegnarsi al risalente dato del 1998, senza aver riguardo al concreto atteggiarsi della domanda», se – da un lato – «non premia lo sforzo di qualità compiuto dalle strutture private nei riguardi dell’utenza» (essendo stata essa, medio tempore, «attratta dal miglior servizio erogato dalle medesime strutture»), «dall’altro non punisce l’incapacità riscontrabile, nello stesso arco temporale, nei confronti delle strutture pubbliche nel saper adeguatamente ed allo stesso modo attrarre l’utenza».

3.¾ È intervenuta in giudizio anche la Regione Puglia, la quale si è soffermata, preliminarmente, ad illustrare il contenuto della disposizione impugnata, riassumendo taluni punti salienti dell’iter argomentativo svolto dal giudice a quo.

3.1.¾ In particolare, la Regione ha eccepito la «inammissibilità della questione», e ciò sotto il duplice profilo della «carenza di motivazione circa la rilevanza», ovvero della «insufficienza della motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza».

Secondo la Regione, difatti, il Tribunale rimettente «non descrive i presupposti di fatto da cui trae origine il giudizio di costituzionalità», in tal modo contravvenendo a quanto affermato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui «i presupposti di fatto che si riflettono sull’individuazione della norma da applicare nel giudizio principale, e quindi sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale, devono essere verificati e descritti dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione, a pena di manifesta inammissibilità della questione» (sentenza n. 37 del 1999, ma è richiamata anche la sentenza n. 173 del 1992).

«Né, d’altra parte, emergono con chiarezza» – prosegue la Regione – «i profili di illegittimità dell’art. 30, comma 4, denunciati dal giudice a quo», giacché soltanto da «alcuni passi della sentenza si ha la sensazione che il TAR voglia investire della questione di legittimità costituzionale la determinazione del limite massimo annuale di spesa sostenibile dalla Regione per l’acquisto di prestazioni sanitarie da parte di strutture accreditate». Se così fosse, però, si dovrebbe allora rilevare «che l’art. 30, comma 4, non disciplina il limite massimo annuale di spesa», atteso che «un riferimento a tale limite è contenuto nel comma 6 dell’art. 30 della legge regionale n. 4 del 2003, mentre la compiuta disciplina di detto limite è rinvenibile nell’art. 25, comma 1», della legge regionale 22 dicembre 2000, n. 28 (Variazione al bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2000).

Rileva, inoltre, la Regione che in «altri passi della sentenza sembrerebbe che il giudice a quo ritenga illegittimo il sistema di finanziamento dei presidî ospedalieri dettato dalla legislazione pugliese (per quota capitaria anziché attraverso la remunerazione delle prestazioni) e che tale illegittimità si rifletta sulle modalità con le quali l’art. 30, comma 4, fissa il limite di spesa entro il quale le prestazioni rese dalle strutture accreditate pubbliche e private sono remunerate a tariffa intera»; se tale, tuttavia, fosse il significato da attribuire all’iniziativa del rimettente la stessa sarebbe del pari inammissibile, «incorrendo (…) in un’aberratio ictus».

3.2.¾ Nel merito la Regione ha proceduto ad una analitica ricostruzione della «distribuzione delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni in materia di assistenza sanitaria e ospedaliera».

Ciò premesso, la stessa Regione ha osservato come la regolamentazione della materia sanitaria sia stata affidata, a livello statale, al d.lgs. n. 502 del 1992, il quale però – con riferimento all’accreditamento delle strutture sanitarie – ha rimesso l’individuazione della disciplina concreta ad un atto statale di indirizzo e coordinamento (art. 8-quater, comma 3).

Tuttavia, osserva la Regione, la «mancata adozione da parte dello Stato dell’atto di indirizzo e coordinamento», di cui alla norma suddetta, e con essa «la successiva soppressione del relativo potere statale» ad opera dell’art. 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), «consentono di concludere che le Regioni siano autorizzate a disciplinare gli ambiti la cui disciplina era delegata a tale atto dall’art. 8-quater, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992, avendo come unico limite i criteri dettati dal successivo comma 4».

Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, la Regione ha dedotto la «infondatezza delle censure di violazione dell’art. 117 della Costituzione», soffermandosi su quelli che – a suo dire – sarebbero i (veri) «principî “desumibili” dalla legislazione statale in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera» (ed in particolare in ordine al ruolo ed alle modalità di finanziamento delle aziende sanitarie locali e delle altre strutture che erogano prestazioni a carico del Servizio sanitario nazionale), giacché il rimettente, a suo dire, sarebbe incorso in un «equivoco di fondo» nella individuazione di tali principî.

«L’errore interpretativo del giudice a quo», si sostiene, consisterebbe «nel considerare come poste sullo stesso piano, in generale, tutte le strutture pubbliche e quelle private, anziché le strutture accreditate, pubbliche e private», e ciò nella pretesa di estendere tale approccio interpretativo (viceversa errato) «a tutte le disposizioni del d.lgs. n. 502 del 1992», ricavando dalle stesse quei «principî fondamentali che, a suo parere, l’art. 30, comma 4, della legge reg. n. 4 del 2003 violerebbe».

Tali principî, invece, «sono chiaramente individuabili e non coincidono con quelli estratti dal giudice a quo», giacché il citato d.lgs. n. 502 del 1992 «ha inteso porre sullo stesso piano le strutture “accreditate” con le quali le ASL stipulano appositi accordi/contratti e non in generale tutte le strutture pubbliche e quelle private». Gli stessi principî, quindi, della libera scelta del luogo di cura e della efficace competizione tra strutture troverebbero applicazione «esclusivamente tra i soggetti “accreditati con i quali siano definiti appositi accordi contrattuali”», ex artt. 8-bis, comma 2, e 8-quater, comma 3, lettera b), del citato d.lgs. n. 502 del 1992.

Né «sembra, infine, che dagli articoli 8-bis, comma 1, e 8-sexies, comma 1, possa desumersi un principio di equiordinazione tra tutte le strutture pubbliche e quelle private», giacché il primo «si limita ad elencare soggetti erogatori dei livelli essenziali di assistenza senza, tuttavia, nulla disporre in ordine al reciproco rapporto tra di essi», mentre il secondo «detta la disciplina delle modalità di finanziamento delle strutture che erogano assistenza a carico del Servizio sanitario nazionale e che stipulano con le ASL appositi accordi», ma «non invece la disciplina del finanziamento delle ASL e, conseguentemente, dei presidî dalle stesse gestiti».

Sulla scorta, pertanto, di tali considerazioni la Regione ha concluso nel senso che i «principî affermati dal giudice a quo (…) non esistono nel d.lgs. n. 502 del 2002», e che gli stessi sono «frutto di una interpretazione distorta della legislazione statale», con conseguente infondatezza della censura relativa al contrasto con l’art. 117 Cost., giacché basata proprio sulla supposta violazione dei principî suddetti.

3.3.¾ La Regione inoltre – in aggiunta ai rilievi di cui innanzi – ha dedotto la «inammissibilità della questione di legittimità costituzionale», in ragione della «errata individuazione da parte del giudice a quo delle disposizioni regionali da sottoporre al giudizio della Corte», cioè a dire per «aberratio ictus».

3.4.¾ Infine, è stata dedotta la «infondatezza delle censure di violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione».

4.¾ Si è costituita in giudizio anche l’Azienda unità sanitaria locale Lecce 1 (parte resistente nei primi due giudizi a quibus), con atto depositato presso la cancelleria della Corte il 24 febbraio 2004.

Preliminarmente, è stata eccepita «l’inammissibilità della sollevata questione di legittimità costituzionale per irrilevanza ai fini della decisione del giudizio pendente dinnanzi al TAR», e ciò sotto un triplice profilo.

Si osserva, difatti, che «a carico del ricorso a quo sono state sollevate diverse eccezioni di inammissibilità ed improcedibilità, preliminari rispetto ad ogni decisione sul merito», sulle quali, tuttavia, il rimettente «ha ritenuto di non pronunciarsi»; si osserva, inoltre, che – stando a quanto affermato dallo stesso Tribunale amministrativo regionale pugliese – «nel 1998 (data cui la norma sospettata di illegittimità costituzionale si riferisce) la capacità produttiva delle strutture private si è potuta esplicare senza limiti (per la tardività degli atti adottati di determinazione del tetto di spesa assegnato ad ogni struttura)», sicché, «in concreto», «non vi sarebbe alcuna lesione derivante dall’applicazione» della norma impugnata, atteso che la stessa prende a riferimento, appunto, tale annualità; rileva, infine, che i provvedimenti impugnati non si fondano, comunque, sulla norma censurata.

Nel merito, invece, è stata dedotta «la manifesta infondatezza della questione sollevata, avendo il TAR per la Puglia operato una ricostruzione solo parziale dei principî che regolano il funzionamento del Servizio sanitario nazionale, come disciplinato dal d.lgs. n. 502 del 1992», giacché dagli stessi si evince che le strutture private possono erogare prestazioni sanitarie per conto e a carico del Servizio sanitario nazionale «solo se istituzionalmente accreditate e solo nei limiti degli accordi contrattuali», operando, così, il principio della equiordinazione limitatamente alle strutture “accreditate”, e non in termini assoluti.

5.¾ Si è, infine, costituito in giudizio – con atto depositato presso la cancelleria della Corte il 4 maggio 2004 – anche il Laboratorio di analisi “Madonna della Neve” (parte ricorrente nel secondo dei tre giudizi a quibus), limitandosi ad insistere «per la declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 30, comma 4, della legge della Regione Puglia n. 4 del 2003, per contrasto con gli artt. 3, 97 e 117 della Costituzione».

6.¾ Con memoria depositata il 25 gennaio 2005, l’Azienda unità sanitaria locale Lecce 1 ha ribadito le proprie argomentazioni, contestando, in via preliminare, l’affermazione del giudice rimettente secondo cui la questione sollevata «rientrerebbe nella materia della “tutela della salute” e, quindi, nella potestà legislativa concorrente in cui spetta alla legislazione statale fissare i principî fondamentali», affermando – alla luce di quanto statuito nella richiamata sentenza n. 380 del 2004 della Corte – che «non tutto ciò che ha una generica attinenza con la salute (o meglio con il sistema Sanità) rientra nella potestà legislativa concorrente prevista per la “tutela della salute”».

Si osserva, inoltre, che, quand’anche questa Corte dovesse ritenere «la materia della ripartizione delle risorse finanziarie relative alla Sanità» rientrante «nella potestà legislativa concorrente riguardante la “tutela della salute” di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.», ciò non escluderebbe, comunque, la necessità di rigettare la questione sollevata, «atteso che “in tale quadro le Regioni possono esercitare le attribuzioni, di cui ritengono di essere titolari, approvando – fatto naturalmente salvo il potere governativo di ricorso previsto dall’art. 127 della Costituzione – una propria disciplina legislativa anche sostitutiva di quella statale”» (è citata la sentenza n. 510 del 2002).

6.1.¾ Ciò premesso, l’Azienda unità sanitaria locale Lecce 1 – nel ripercorrere le censure prospettate dal Tribunale amministrativo rimettente, rilevando come sia lo stesso giudice a quo, non solo a negare alla disposizione impugnata carattere innovativo (essendo la stessa «già contenuta» nell’art. 25, comma 4, della legge regionale n. 28 del 2000), ma anche a porre in evidenza la «conformità di tale disciplina ai principî sanciti dalla legislazione nazionale» – sottolinea come sia ardua «l’individuazione dei motivi per cui la norma regionale sarebbe sospetta di incostituzionalità e, soprattutto, la sollevata questione sarebbe rilevante ai fini del decidere».

Quanto, invece, al merito della questione, l’azienda sanitaria leccese si riporta, sostanzialmente, a quanto già sostenuto in occasione della costituzione in giudizio.

7.¾ Ha depositato memoria, il 26 gennaio 2005, anche il Laboratorio di analisi “Madonna della Neve”, integrando così le scarne considerazioni svolte nel precedente atto di costituzione.

7.1.¾ Sul presupposto che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal rimettente sia «certamente rilevante ed ammissibile», la parte privata suddetta osserva – quale «premessa indispensabile all’esame della vicenda» – che, nel caso di specie, «non è in contestazione la possibilità di subire un c.d. “tetto di spesa”» nella remunerazione delle prestazioni sanitarie, quanto piuttosto la scelta della disposizione impugnata di distribuire «le risorse finanziarie secondo criteri iniqui ed apodittici».

Infatti, il principio della equiordinazione tra strutture pubbliche e private, enunciato dalla legislazione statale, sarebbe stato disatteso dal legislatore regionale, come avrebbe posto in evidenza lo stesso giudice rimettente.

Questi, invero, ha sottolineato – richiamando il combinato disposto della legge regionale 30 dicembre 1994, n. 38 (Norme sull’assetto programmatico, contabile, gestionale e di controllo delle Unità sanitarie locali in attuazione del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 «Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421», così come modificato dal decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517) e della legge regionale 15 dicembre 2001, n. 32 (Assestamento e variazioni al bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2001) – come la legge regionale n. 4 del 2003 abbia escluso dalla «fissazione di tetti massimi di remunerazione» le Aziende sanitarie locali «che amministrano tutti i restanti presidî ospedalieri non eretti in aziende autonome», giacché il loro finanziamento «avviene con il diverso “sistema” per quote capitarie». Su tali basi, pertanto, il Tribunale amministrativo rimettente sarebbe «giunto all’unica conclusione possibile: il criterio della regressione quale sistema di pagamento delle prestazioni erogate al di là del c.d. “tetto di spesa” non può legittimamente operare, perché funzionante solo nei confronti delle strutture private, delle aziende ospedaliere autonome», e non pure «nei confronti delle ASL e dei presidî ospedalieri».

La norma regionale impugnata sarebbe, dunque, contraria – secondo il Laboratorio “Madonna delle Neve” – «a numerosi principî costituzionali».

Con particolare riferimento all’art. 3 della Costituzione, prosegue la parte privata suddetta, deve osservarsi che tale parametro «è stato invocato e ritenuto violato dal giudice rimettente» in quanto la disposizione impugnata nel prendere «le mosse da un precetto contenuto nella legge statale (…) “tenta” di fare proprio il principio di equiordinazione tra strutture pubbliche e private», il quale però «viene relegato solo a un profilo formale, ma disatteso nella sostanza».

Quanto, invece, «al riferimento ai principî del giusto procedimento, buon andamento e buona amministrazione, ex art. 97 Cost.», le osservazioni appena svolte confermerebbero «la realizzazione di una vera e propria ipotesi di sviamento» della norma dallo scopo per cui era stata prevista, come evidenzierebbe anche l’analisi della giurisprudenza della Corte sul punto, secondo la quale «il riferimento all’art. 97 Cost. “implica necessariamente lo svolgimento di un giudizio di ragionevolezza sulla legge censurata”» (si richiama la sentenza n. 63 del 1995).

Infine, in merito alla dedotta violazione dell’art. 117 della Costituzione, si osserva che «il legislatore ha esuberato anche nell’apprezzamento dei confini entro cui sarebbe stato legittimo il suo intervento regolativo della materia», avendo esso «operato un incauto scollamento con la disciplina statale».

7.2.¾ In conclusione, il Laboratorio “Madonna della Neve” ritiene che la disposizione impugnata costituisca «un esempio di vivido contrasto con altre norme costituzionali», pure da esso richiamate nel ricorso proposto innanzi al Tribunale amministrativo rimettente, ma sulle quali quest’ultimo «ha ritenuto di non soffermarsi».

Tali norme (identificate negli articoli 24, 32, 41, 72, 81 e 113 della Costituzione) risulterebbero «tutte ampiamente e cumulativamente violate», per i motivi che la parte suddetta illustra nell’ultima parte della propria memoria.

8.¾ In data 26 gennaio 2005 anche la Regione Puglia ha depositato ulteriore memoria, con la quale ha insistito nel riproporre le conclusioni già rassegnate nei precedenti scritti difensivi, riassumendo – per il resto – sinteticamente le considerazioni ivi svolte.

9.¾ Ha depositato, infine, una memoria fuori termine il Centro diagnostico salentino.

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, ha sollevato, con tre distinti provvedimenti, questione di legittimità costituzionale – per violazione degli articoli 3, 97 e 117 della Costituzione – dell’art. 30, comma 4, della legge della Regione Puglia 7 marzo 2003, n. 4 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2003 e bilancio pluriennale 2003-2005 della Regione Puglia), il quale stabilisce che «a norma dell’art. 8-quinquies, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 502 del 1992, ove le strutture pubbliche e private abbiano erogato volumi di prestazioni eccedenti il programma preventivo concordato, fissato in misura corrispondente a quelli erogati nel 1998, e il relativo limite di spesa a carico del Servizio sanitario regionale, detti volumi sono remunerati con le regressioni tariffarie fissate dalla Giunta regionale».

1.1.— Premessa un’analitica (ma in più punti disorganica) ricostruzione del quadro normativo statale e regionale, concernente la materia della spesa sanitaria per le prestazioni rese da strutture pubbliche e private, il giudice a quo ha espresso dubbi sulla conformità a Costituzione della disposizione suddetta, sia sotto il profilo della sua intrinseca irragionevolezza, con riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, sia sotto quello della violazione dei principî fondamentali fissati in materia dal decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), in relazione all’art. 117 della Carta fondamentale.

Il rimettente, sostanzialmente, dubita della legittimità costituzionale della disposizione censurata, in quanto la stessa – sia pure nei limiti delle risorse economiche necessariamente ristrette, destinate al finanziamento della spesa sanitaria regionale – non avrebbe seguito, fino in fondo, quel criterio della remunerazione delle prestazioni sanitarie – rese dalle strutture pubbliche e da quelle private accreditate – che assume a riferimento esclusivo (previa una valutazione comparativa tra le stesse) le quantità e qualità delle prestazioni erogate da entrambe.

La norma censurata, pertanto, si porrebbe in contrasto con quel principio di equiordinazione tra i due tipi di strutture, che costituisce il cardine fondamentale della legislazione statale in materia.

Come corollario di tale impostazione, il giudice a quo, sia pure confusamente, dubita anche della legittimità costituzionale della disposizione censurata «nella parte relativa alla determinazione del tetto cosiddetto “montante”, fino al quale la remunerazione è erogata in misura pari al 100 per cento delle tariffe previste», in quanto, fissando il tetto della spesa globale in misura corrispondente al valore attuale delle prestazioni erogate nel 1998, non terrebbe conto, irragionevolmente, dell’andamento della domanda negli anni successivi al 1998; andamento che dimostrerebbe, invece, «il divario esistente tra la domanda di prestazioni specialistiche rivolta alle strutture private e l’assegnazione di somme per l’acquisto da parte del Servizio sanitario regionale di tali prestazioni».

Ciò integrerebbe, in particolare, la violazione del parametro costituzionale dell’art. 117 della Costituzione, dando luogo ad un evidente contrasto tra la norma regionale censurata e taluni principî fondamentali – oltre quello, già menzionato, della equiordinazione delle strutture pubbliche e private – desumibili dalla legislazione statale, quali, in sintesi, quelli della «libertà di scelta dell’utente tra strutture equiordinate», della «efficace competizione tra le strutture accreditate» e della necessità che l’acquisto delle prestazioni avvenga «a seguito di valutazioni comparative della qualità e dei costi».

2.— Deve, innanzi tutto, essere disposta la riunione dei giudizi, attesa l’identità delle questioni sollevate.

3.¾ In via preliminare devono essere rigettate le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla Regione Puglia e dalla Azienda unità sanitaria locale Lecce 1 sotto i profili della carenza di motivazione in ordine alla rilevanza della questione, nonché della insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza.

Dall’esame complessivo dei provvedimenti del rimettente, emerge, in effetti, con sufficiente approssimazione (tale, comunque, da consentire il vaglio di questa Corte), l’oggetto del giudizio quale sopra si è individuato. Del pari emerge, sia pure con qualche difficoltà ricostruttiva, l’iter argomentativo seguito dal giudice a quo, che appare sufficientemente idoneo a rivelare, da un lato, gli aspetti di rilevanza della questione e, dall’altro, il sostanziale profilo della ritenuta sua non manifesta infondatezza.

In sostanza, dai provvedimenti di rimessione si ricava che il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale della norma censurata sotto due distinti profili.

Il primo attiene alla ingiustificata disparità di trattamento che la norma regionale impugnata avrebbe creato tra le strutture accreditate di sanità privata e quelle di sanità pubblica, quale si desumerebbe, in particolare, dal differente modo in cui le une e le altre sono finanziate. Il secondo concerne, specificamente, il riferimento all’anno 1998 ai fini della quantificazione, per l’anno 2003 (nel corso del quale le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale sono state erogate), del c.d. “tetto montante”, ignorando così l’effettivo andamento della domanda di prestazioni sanitarie proveniente dall’utenza nel periodo intercorso tra le due annualità indicate.

4.¾ Orbene, i due profili sopra evidenziati devono essere esaminati partitamente.

5.¾ Con riferimento al primo di essi, deve ritenersi la questione inammissibile.

5.1.¾ Appare ictu oculi evidente l’errore di fondo in cui è incorso il giudice a quo, il quale ha dato all’art. 30, comma 4, della legge regionale n. 4 del 2003 un significato che oggettivamente non ha, in quanto nello stesso non si rinviene affatto l’affermazione secondo cui il sistema di remunerazione delle prestazioni rese dalle strutture sanitarie pubbliche sarebbe diverso da quello relativo alle strutture private accreditate.

La disposizione censurata, in realtà, si limita a stabilire, richiamando l’art. 8-quinquies, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 502 del 1992, che nel caso in cui le strutture pubbliche e quelle private, unitariamente considerate, abbiano erogato volumi di prestazioni eccedenti il programma preventivo concordato (fissato a sua volta in misura corrispondente ai volumi dell’anno 1998), e quindi il relativo limite di spesa a carico del Servizio sanitario regionale, detti volumi “in eccesso” siano remunerati con le regressioni tariffarie fissate dalla Giunta regionale.

Orbene, la disposizione de qua, atteso il suo contestuale e specifico riferimento, appunto unitario e indistinto, sia al settore pubblico che a quello privato, non opera alcuna discriminazione tra gli stessi, sicché la disposizione, di per sé considerata, non risulta in contrasto con gli invocati parametri costituzionali degli artt. 3, 97 e 117 della Costituzione.

5.2.¾ Il giudice a quo, sostanzialmente, ritiene che la Regione, malgrado la formale affermazione della equiordinazione tra i due tipi di strutture, pubbliche e private, operi una ingiustificata discriminazione – anche per effetto di norme diverse da quella censurata e di atti amministrativi applicativi di tale diversa normativa regionale – tra le situazioni riconducibili all’uno ed all’altro tipo di strutture, privilegiando quelle pubbliche a danno di quelle private. In tal modo, però, il rimettente, da un lato, coinvolge nelle sue doglianze norme che non formano oggetto di rimessione a questa Corte, e dall’altro, rileva come in sede attuativa di principî, pure enunciati dalle disposizioni suddette, la Regione abbia adottato determinazioni amministrative non coerenti con il disegno normativo desumibile dalla legislazione statale e regionale.

Più in particolare, il rimettente sembra dedurre l’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata dal contenuto di altre norme che egli stesso rinviene, in particolare, nella legge della Regione Puglia 5 dicembre 2001, n. 32, recante “Assestamento e variazioni al bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2001” (artt. 7 e 12), nonché nella legge della stessa Regione 30 dicembre 1994, n. 38, recante “Norme sull’assetto programmatico, contabile, gestionale e di controllo delle Unità sanitarie locali in attuazione del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 «Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421», così come modificato dal decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517” (artt. 7 e 8). Tali norme vengono “criticate” nella parte in cui disciplinano la formazione del bilancio consolidato delle Aziende sanitarie locali (relativamente ai dati delle varie gestioni), articolato nella iscrizione, tra i ricavi, delle assegnazioni della Giunta regionale. Il Tribunale amministrativo, segnatamente, censura tale disciplina in relazione alla mancata previsione, per i vari presidî ospedalieri, della formazione di un autonomo bilancio che iscriva, invece, tra i ricavi, il valore delle prestazioni rese, e che sia finanziato in tal modo.

Il rimettente, però, non ha sollevato, come sarebbe stato invece necessario, questione di legittimità costituzionale delle predette disposizioni in luogo di (o in aggiunta a) quella relativa all’art. 30, comma 4, della legge regionale n. 4 del 2003.

Questa Corte, per contro, ha avuto modo di precisare che «non possono costituire motivo di illegittimità di una norma non solo gli effetti distorsivi che possono derivare da applicazione non corretta (…), ma anche gli effetti riflessi che costituiscono conseguenza indiretta di altre precedenti norme non denunciate» (sentenza n. 451 del 2000; nello stesso senso sentenza n. 63 del 1998).

Né sembra, infine, senza significato – sempre nella medesima prospettiva della declaratoria di inammissibilità della presente questione di legittimità, in relazione al profilo della (supposta) violazione del principio della “equiordinazione” delle strutture pubbliche e private – la circostanza che il principio de quo non opera in rapporto alle fonti di finanziamento complessivo delle strutture del settore sanitario, bensì ai criteri e alle modalità di remunerazione a tariffa delle sole prestazioni rese sulla base di appositi accordi contrattuali.

Ciò comporta che tale equiordinazione, al di fuori del campo della remunerazione delle prestazioni, non possa coinvolgere il finanziamento delle aziende pubbliche costituenti presidî ospedalieri a diretta gestione delle AUSL di appartenenza. A questo riguardo è sufficiente osservare che i predetti presidî, in relazione alla loro struttura ed alle funzioni loro assegnate, svolgono compiti, ed hanno correlative esigenze finanziarie, ben diversi dai compiti e dalle esigenze delle strutture private.

6.¾ Quanto, poi, al secondo profilo in cui si articola la denuncia di illegittimità costituzionale avanzata dal giudice a quo, deve escludersene la fondatezza.

6.1.¾ Come si è innanzi chiarito, il Tribunale rimettente, in buona sostanza, ritiene che il riferimento contenuto nella norma oggetto di denuncia ai volumi di prestazioni sanitarie erogate nel 1998 (ed al limite derivante dalla relativa spesa complessiva, sostenuta nello stesso anno), determini una inammissibile sfasatura temporale tra tali elementi e gli effettivi volumi di prestazione (nonché la spesa corrispondente) relativi all’anno 2003.

Si tratterebbe, dunque, di una previsione irragionevole, in quanto il legislatore regionale non avrebbe tenuto in alcun conto l’andamento della domanda registrato nel quinquennio intercorso tra il 1998 ed il 2003, e ciò con evidente danno delle strutture sanitarie private.

6.2.¾ Orbene, in ordine a tale doglianza occorre innanzitutto premettere che la norma censurata deve essere interpretata nel senso che, ai fini della remunerazione per intero a valori attuali (riferiti cioè all’anno in cui effettivamente le prestazioni siano state rese), i volumi delle prestazioni medesime, vale a dire la loro quantità e, correlativamente, la spesa complessiva, non possono essere superiori a quelli del 1998.

Ciò premesso, il riferimento – contenuto nella norma de qua – ai predetti volumi e limiti di spesa si presenta come il frutto, da parte del legislatore regionale, di una scelta discrezionale di politica sanitaria e di contenimento della spesa, la quale, tenuto conto della ristrettezza delle risorse finanziarie dirette a soddisfare le esigenze del settore, non risulta viziata da intrinseca irragionevolezza. Non ricorre, dunque, quella evenienza che, sola, può giustificare l’intervento sulla norma da parte di questa Corte, in applicazione del parametro di cui all’art. 3 della Costituzione.

Non appare dubbio, infatti, che nel sistema di assistenza sanitaria – delineato dal legislatore nazionale fin dalla emanazione della legge di riforma sanitaria, 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del Servizio sanitario nazionale) – l’esigenza di assicurare la universalità e la completezza del sistema assistenziale nel nostro Paese si è scontrata, e si scontra ancora attualmente, con la limitatezza delle disponibilità finanziarie che annualmente è possibile destinare, nel quadro di una programmazione generale degli interventi di carattere assistenziale e sociale, al settore sanitario. Di qui la necessità di individuare strumenti che, pur nel rispetto di esigenze minime, di carattere primario e fondamentale, del settore sanitario, coinvolgenti il «nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito individuale della dignità umana» (sentenza n. 509 del 2000), operino come limite alla pienezza della tutela sanitaria degli utenti del servizio. In tale contesto, inoltre, non è senza significato che la disposizione censurata – a conferma di quella che appare essere la sua specifica finalità (commisurare l’attuazione del diritto alla salute alle effettive disponibilità finanziarie dell’ente territoriale) – sia stata inserita nelle norme attinenti alla formazione del bilancio di previsione 2003 e del bilancio pluriennale 2003-2005 della Regione.

Ed è anche significativo – come, d’altronde, riconosciuto dallo stesso giudice a quo – che il riferimento, nella impugnata disposizione della legge regionale di bilancio, all’anno 1998, con particolare riguardo ai volumi quantitativi delle prestazioni sanitarie erogate e alla complessiva spesa sostenuta, trovi la sua motivazione nella considerazione che per le prestazioni di specialistica ambulatoriale in tale anno «la capacità produttiva delle strutture private (…) si è potuta esplicare senza limiti».

È, infatti, proprio il Tribunale rimettente ad affermare testualmente che, nell’interpretazione della disposizione impugnata, «si deve tener conto che per il 1998, se la delibera della Giunta regionale n. 1800 del 1998 e le successive integrazioni hanno previsto un tetto di spesa globale per le prestazioni di specialistica ambulatoriale e la delibera di Giunta regionale n. 74 del 1999 ha previsto una limitazione delle remunerazioni per i mesi di ottobre e novembre, nessuna limitazione ha in concreto operato», e ciò «per la tardività degli atti adottati» in esecuzione delle delibere suddette.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

a) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 4, della legge della Regione Puglia 7 marzo 2003, n. 4 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2003 e bilancio pluriennale 2003-2005 della Regione Puglia), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, con le ordinanze indicate in epigrafe;

b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 30, comma 4, della legge della Regione Puglia n. 4 del 2003 sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2005.

Fernanda CONTRI, Presidente

Alfonso QUARANTA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 18 marzo 2005.