SENTENZA N. 378
ANNO 2004
Commenti alla decisione di
I. Antonio Ruggeri, Gli
statuti regionali alla Consulta e la vittoria di Pirro (per gentile
concessione del Forum
di Quaderni costituzionali)
II. Maurizio Pedetta, La
Corte Costituzionale salva gli enunciati degli Statuti regionali sulla tutela
delle "forme di convivenza” mettendoli nel limbo (per gentile
concessione del Forum
di Quaderni costituzionali)
III. Paolo Caretti, La
disciplina dei diritti fondamentali è materia riservata alla Costituzione
(per gentile concessione del Forum
di Quaderni costituzionali)
IV. Giorgio Pastori, Luci
e ombre dalla giurisprudenza costituzionale in tema di norme programmatiche degli
statuti regionali (per gentile concessione del Forum
di Quaderni costituzionali)
V. Adele Anzon, L’"inefficacia
giuridica” di norme "programmatiche”
(per gentile concessione della Rivista telematica Costituzionalismo.it)
VI. Andrea Cardone, Brevi
considerazioni su alcuni profili processuali della recente giurisprudenza
"statutaria” della Corte costituzionale (per gentile concessione del Forum
di Quaderni costituzionali)
VII. Renzo
Dickmann,
Le sentenze della Corte sull'inefficacia giuridica delle disposizioni
''programmatiche'' degli Statuti ordinari (per gentile concessione della Rivista telematica federalismi.it)
VIII. Sergio Bartole, Norme
programmatiche e Statuti regionali (per gentile concessione del Forum
di Quaderni costituzionali)
IX. Marco Cammelli, Norme
programmatiche e statuti regionali: questione chiusa e problema aperto (per gentile concessione del Forum
di Quaderni costituzionali)
X. Roberto Bin, Perché
le Regioni dovrebbero essere contente di questa decisione (per gentile
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di Quaderni costituzionali)
XI. Franco Pizzetti, Il
gioco non valeva la candela: il prezzo pagato è troppo alto (per gentile
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di Quaderni costituzionali)
XII. Giandomenico
Falcon, Alcune questioni a valle delle decisioni della
Corte (per gentile concessione del Forum
di Quaderni costituzionali)
XIII. Giovanni Tarli Barbieri, Le
fonti del diritto regionale nella giurisprudenza costituzionale sugli statuti
regionali (per gentile concessione del Forum
di Quaderni costituzionali)
XIV. Giulio Enea Vigevani, Autonomia
statutaria, voto consiliare sul programma e forma di governo "standard” (per gentile concessione del Forum
di Quaderni costituzionali)
XV. Giuseppe Severini, Cosa
ha detto la Corte costituzionale sullo Statuto umbro (per gentile
concessione della Rivista telematica federalismi.it)
XVI. Alberto Maria Benedetti, Ordinamento
civile e sindacato di legittimità costituzionale:
è possibile una sentenza interpretativa di rigetto? (per gentile
concessione della Rivista telematica federalismi.it)
XVII. Michele Belletti, La definizione dell’incompatibilità tra la
carica di assessore e quella di consigliere compete alla legge regionale,
(per gentile concessione del sito dell’AIC – Associazione
Italiana dei Costituzionalisti)
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai
signori:
- Valerio ONIDA Presidente
- Carlo MEZZANOTTE Giudice
- Guido NEPPI
MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI
"
- Annibale
MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco
AMIRANTE "
- Ugo DE
SIERVO "
- Romano VACCARELLA
"
- Paolo MADDALENA
"
- Alfio FINOCCHIARO
"
- Alfonso QUARANTA
"
- Franco GALLO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale degli articoli 9, comma 2; 39, comma 2; 40; 66, comma 1 e 2 e 82
della deliberazione statutaria della Regione Umbria e dell’intera deliberazione
statutaria approvata in prima deliberazione il 2 aprile 2004 ed in seconda
deliberazione il 29 luglio 2004, e pubblicata nel B.U.R. n. 33 dell’11 agosto 2004,
promossi con ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri e di Carlo Ripa
di Meana, consigliere regionale di minoranza della Regione Umbria, notificati
il 9 e l’11 settembre 2004, depositati in cancelleria il 15 e il 20 successivi
ed iscritti ai nn. 88 e 90 del registro ricorsi 2004.
Visti gli atti di costituzione della Regione Umbria nonché l’atto
di intervento, relativamente al ricorso n. 88 del 2004, di Carlo Ripa di Meana
consigliere regionale di minoranza della Regione Umbria;
udito nell’udienza pubblica del 16
novembre 2004 il Giudice relatore Ugo De Siervo;
uditi l’avvocato dello Stato Giorgio
D’Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati
Giandomenico Falcon per la Regione Umbria e Urbano
Barelli per il consigliere regionale Carlo Ripa di Meana.
Ritenuto in fatto
1. – Il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, con ricorso notificato il 9 settembre 2004, depositato in data 15
settembre 2004 e iscritto al n. 88 nel registro ricorsi del 2004, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 123, secondo comma
della Costituzione nei confronti della delibera statutaria della Regione Umbria
approvata dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile del 2004
ed in seconda deliberazione il 29 luglio 2004. In particolare, di detta
delibera statutaria vengono censurati: l’art. 9, comma 2; l’art. 39, comma 2;
l’art. 40; l’art. 66 commi 1 e 2; l’art. 82.
Premette la difesa erariale
che la potestà statutaria delle Regioni, configurata dalle riforme
costituzionali del 1999 e del 2001 come una speciale fonte normativa regionale
collocata in una posizione privilegiata nella gerarchia delle fonti, è stata al
tempo stesso però delimitata rigorosamente, al fine di assicurare il rispetto
del principio di legalità costituzionale. La Regione Umbria avrebbe "ecceduto
dalla propria potestà statutaria in violazione della normativa costituzionale”.
2. – In primo luogo
l’Avvocatura censura l’art. 9, comma 2, della delibera statutaria il quale, nel
disporre che la Regione tutela "forme di convivenza” ulteriori rispetto a
quella costituita dalla famiglia, detterebbe una disciplina ambigua e di
indiscriminata estensione. Essa nella misura in cui consente l’adozione di
"eventuali future previsioni normative regionali” concernenti i rapporti
patrimoniali e personali tra conviventi, nonché il loro status, violerebbe
l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.
Ove poi la norma intendesse
esprimere qualcosa di diverso rispetto al rilievo sociale e alla dignità
giuridica, nei limiti previsti dalla legge dello Stato, della convivenza
familiare, ovvero intendesse "affermare siffatti valori” anche per le unioni
libere e le relazioni tra soggetti dello stesso sesso, violando i principî
sanciti dagli artt. 29 e 2 della Costituzione, essa contrasterebbe con l’art.
123 della Costituzione. Come affermato anche dalla giurisprudenza
costituzionale, lo statuto regionale, infatti, non solo dovrebbe essere
conforme alle singole previsioni della Costituzione, ma non dovrebbe neppure
eluderne lo spirito. Il generico e indiscriminato riferimento alle forme di
convivenza, specie se letto in relazione all’art. 5 dello statuto, che afferma
che la Regione concorre a rimuovere le discriminazioni fondate
sull’orientamento sessuale, comporterebbe "una incongrua e inammissibile
dilatazione dell’area delimitata dai valori fondanti dell’art. 2 Cost.”.
A monte, la norma impugnata
contrasterebbe con l’art. 123 della Costituzione anche perché sarebbe estranea
ai contenuti necessari ed eccederebbe i limiti in cui altri contenuti sarebbero
ammissibili, in quanto non esprimerebbe alcun interesse proprio della comunità
regionale, e comunque non potrebbe affermare valori e principî diversi da
quelli già espressi nella prima parte della Costituzione, contrastando
altrimenti con l’art. 5 della Costituzione e il principio di unitarietà della
Repubblica ivi affermato, creando altresì un’ingiustificata disparità di
trattamento dei singoli.
3. – La difesa erariale
censura poi l’art. 39, comma 2, e l’art. 40 della delibera statutaria, per
violazione degli art. 121, secondo comma, e 117, terzo comma, della
Costituzione.
Le suddette norme – che
prevedono rispettivamente la possibilità per la Giunta regionale, previa
autorizzazione con legge regionale, di adottare regolamenti di delegificazione
e di presentare al Consiglio progetti di testo unico di disposizioni di legge –
contrasterebbero con il principio della separazione dei poteri tra organo legislativo
ed organo esecutivo. In mancanza di norme costituzionali derogatorie, non
sarebbero infatti ammissibili regolamenti di delegificazione, né deleghe
legislative, e neppure sarebbe possibile un’estensione analogica delle deroghe
previste per la legislazione statale.
Nel ricorso si osserva anche
che la possibilità riconosciuta dalla Corte con la sentenza n. 2 del
2004 di conferire al Consiglio regionale la potestà regolamentare, non
autorizzerebbe pure la previsione inversa del conferimento alla Giunta della
potestà legislativa.
Inoltre, la fonte
regolamentare sarebbe "incongruente” con le materie di competenza concorrente,
dal momento che inciderebbe sui principî stabiliti dalle leggi statali, ex art.
117, terzo comma, della Costituzione.
L’art. 40 della delibera
statutaria violerebbe il principio della separazione tra organo legislativo e
organo esecutivo anche in considerazione della circostanza che consentirebbe
alla Giunta di disciplinare materie di competenza legislativa senza che tale
vizio possa ritenersi sanato dalla previsione della approvazione finale del
testo unico da parte del Consiglio, trattandosi di approvazione meramente
formale, senza potere di modifica del testo.
4. – Ancora, l’Avvocatura
censura l’art. 66, commi 1 e 2, della delibera statutaria nella parte in cui
stabiliscono l’incompatibilità della carica di componente della Giunta con
quella di consigliere regionale. La norma, secondo il ricorrente, contrasterebbe
con l’art. 122, primo comma, della Costituzione, che – ed al riguardo viene
invocata la sentenza
n. 2 del 2004 di questa Corte – riserverebbe alla legge regionale, nei
limiti dei principî sanciti dalla legge statale, la individuazione dei casi di
incompatibilità.
5. – Infine, la difesa
erariale impugna l’art. 82, il quale attribuisce alla Commissione di garanzia
la funzione di esprimere pareri sulla conformità allo statuto delle leggi e dei
regolamenti regionali.
Ove la norma, il cui tenore
letterale – si osserva nel ricorso – non sarebbe chiaro, dovesse intendersi nel
senso che tale parere segua il compimento dell’attività normativa, conferirebbe
ad un organo amministrativo un inammissibile potere di sindacare le leggi e i
regolamenti già adottati dai competenti organi regionali, in violazione degli
artt. 121 e 134 della Costituzione.
6. – Si è costituita in
giudizio la Regione Umbria, la quale ha chiesto che il ricorso proposto dal
Presidente del Consiglio dei ministri sia dichiarato inammissibile e infondato,
riservandosi di illustrare in una successiva memoria le argomentazioni a
sostegno delle proprie difese.
7. – Il consigliere regionale
della Regione Umbria, Carlo Ripa di Meana, ha spiegato atto di intervento nel
giudizio chiedendo che, ove "preliminarmente si accerti l’esistenza giuridica
dello statuto”, ne sia dichiarata l’illegittimità costituzionale.
In ordine alla legittimazione
ad intervenire, si afferma che essa sarebbe implicita nel sistema
costituzionale, dovendosi considerare il consigliere regionale dissenziente un
soggetto costituzionalmente qualificato a tal fine, in quanto dotato di una
diversa ed autonoma posizione derivante dall’eccezionale carattere preventivo
della impugnazione dello statuto rispetto alla sua promulgazione, e dal fatto
che, dovendo la decisione della Corte essere recepita dal Consiglio regionale,
essa condizionerebbe la promulgazione stessa dello statuto. Fintanto che lo
statuto non sia promulgato, la fattispecie non potrebbe dirsi "perfetta” e lo
statuto non sarebbe imputabile alla Regione, ma solo alla maggioranza
consiliare. Proprio questo elemento evidenzierebbe la differente posizione del
consigliere regionale di minoranza e giustificherebbe la sua legittimazione ad
intervenire nel giudizio avanti alla Corte costituzionale.
Inoltre, poiché per il
principio maggioritario la volontà della maggioranza è imputata all’intero
collegio, il componente dissenziente avrebbe un interesse particolare al
rispetto delle norme procedimentali che conducono a tale imputazione e che nel
caso della approvazione dello statuto consisterebbero in primo luogo nella
necessaria conformità delle due deliberazioni. La legittimazione del
consigliere interveniente, nel caso di specie, deriverebbe anche dalla
circostanza secondo la quale con tale intervento si intende far valere proprio
una presunta violazione di questa regola.
Tale violazione, peraltro,
sarebbe comunque rilevabile d’ufficio dalla stessa Corte, in quanto impedirebbe
il perfezionamento della fattispecie procedimentale di cui all’art. 123 della
Costituzione e dunque l’imputazione dello statuto al Consiglio regionale e alla
Regione.
Infine, il mancato
riconoscimento della legittimazione del consigliere di minoranza significherebbe
rimettere soltanto al Governo e al Presidente della Giunta regionale, ed alle
loro valutazioni di opportunità politica, la tutela "dell’interesse al rispetto
della legalità costituzionale”. Inoltre, l’esclusione dal contraddittorio del
consigliere dissenziente, "titolato all’intervento proprio dal principio
rappresentativo” costituirebbe un’inammissibile lesione della doverosa armonia
con la Costituzione di cui all’art. 123 della Costituzione.
8. – Nel merito il consigliere
interveniente sostiene che nell’adozione dello statuto della Regione Umbria
sarebbe stato violato il procedimento di cui all’art. 123, secondo comma, della
Costituzione, dal momento che la seconda deliberazione con la quale è stato
approvato lo statuto in data 29 luglio 2004, non sarebbe eguale a quella
precedente del 2 aprile 2004.
La diversità riguarderebbe
l’art. 9 della delibera statutaria di cui sarebbe stata sostituita la rubrica
(da "Comunità familiare” a "Famiglia. Forme di convivenza”), modificato il
testo ed inoltre scomposto l’originario unico comma in due commi. Il risultato
di tali modificazioni – introdotte come "correzioni formali” – avrebbe avuto
effetti sostanziali, comportando la separazione della tutela delle forme di
convivenza, previste nel secondo comma della norma, dal riconoscimento dei
diritti della famiglia, oggetto del primo comma, e la "attribuzione di
carattere aggiuntivo alla tutela della convivenza”, espressa mediante
l’avverbio "altresì”, introdotto nel comma 2. In tal modo, come risulterebbe dal
dibattito svoltosi in Consiglio regionale, si sarebbe voluto venire incontro
alle proteste di quanti affermavano esservi una equiparazione della convivenza
alla famiglia legittima in violazione dell’art. 29 Cost. Inoltre, attraverso la
soppressione del riferimento alla "varietà” delle forme di convivenza prevista
nel testo approvato in prima deliberazione, si sarebbe tenuto conto delle
"proteste di quanti ravvisavano nella previsione una tutela anche delle
convivenze omosessuali”. Poiché dunque le correzioni avrebbero modificato la
sostanza della previsione originaria, con la seconda deliberazione vi sarebbe
stato "un diverso volere legislativo” e non si sarebbe realizzato l’atto
complesso previsto dall’art.123 della Costituzione, con conseguente e diretta
violazione della norma costituzionale, di talché mancherebbe l’oggetto del
processo, e la Corte non potrebbe giudicare della legittimità di un atto che
non esiste.
Peraltro, osserva ancora
l’interveniente, ove tale nodo non venisse sciolto adesso, esso si
ripresenterebbe al momento della promulgazione dello statuto, non potendo
questa avvenire in mancanza del riscontro di regolarità del procedimento e
dell’esistenza della legge che, nel caso in esame, non sussisterebbe.
9. – In via subordinata,
l’interveniente afferma di condividere i rilievi di costituzionalità sollevati
nel ricorso del Governo, dei quali si ribadisce ampiamente la fondatezza.
10. – In prossimità
dell’udienza pubblica, la Regione Umbria ha depositato una memoria nella quale
contesta le censure formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso
la delibera statutaria impugnata.
Infondati sarebbero
innanzitutto i rilievi mossi nei confronti dell’art. 9, comma 2, concernente la
tutela di forme di convivenza. Tale norma avrebbe infatti natura meramente
programmatica e legittimamente potrebbe essere inserita nello statuto, accanto
ai contenuti necessari dello stesso, in quanto essa non fonderebbe alcun potere
ulteriore della Regione, rispetto a quelli ad essa conferiti dalla Costituzione.
La previsione dell’art. 9,
comma 2, costituirebbe infatti esercizio dell’autonomia politica, pacificamente
riconosciuta alle Regioni, le quali ben potrebbero seguire indirizzi diversi da
quelli dello Stato, pur nel rispetto dei limiti costituzionali imposti ai
poteri regionali, senza perciò violare l’art. 5 Cost. Anche la Corte
costituzionale avrebbe riconosciuto alle Regioni il ruolo di enti esponenziali
delle comunità a ciascuna di esse facenti capo: tale ruolo legittimerebbe la
possibilità di partecipare a tutte le questioni di interesse della comunità
regionale, anche se queste sorgono in settori estranei alle materie attribuite
dall’art. 117 alla competenza regionale e si proiettino oltre i confini
territoriali della Regione (al riguardo la difesa regionale richiama la
sentenza di questa Corte n. 829 del 1988).
La censura in questione
sarebbe pertanto inammissibile, poiché l’art. 9, comma 2, della delibera
statutaria, così interpretata, non avrebbe un effettivo contenuto normativo e
quindi non avrebbe alcuna idoneità lesiva.
Errata sarebbe poi
l’affermazione secondo cui essa non esprimerebbe alcun interesse proprio della
comunità regionale, dal momento che la norma tutelerebbe forme di convivenza di
persone che vivono nella Regione.
Quanto ai motivi di
impugnazione concernenti la violazione dell’art. 29 Cost.,
la Regione osserva che il particolare valore riconosciuto da tale norma alla
famiglia fondata sul matrimonio, non implicherebbe necessariamente che forme di
convivenza diverse non possano comunque essere tutelate. D’altra parte, il
diverso valore riconosciuto a tali forme di convivenza risulterebbe evidente
dalla diversa formulazione dei due commi dell’art. 9.
La norma statutaria, dunque,
porrebbe un obiettivo legittimo che potrebbe essere attuato in modo conforme
all’ordinamento e con riferimento a forme di convivenza diverse da quelle tra
persone dello stesso sesso, su cui invece si incentrano le censure del ricorso
statale. Semmai un problema di legittimità potrebbe porsi con riguardo a leggi
regionali che in concreto dovessero intervenire a tutela di tale tipo di
convivenza.
11. – Anche la censura
concernente l’art. 39 dello statuto sarebbe infondata.
Non sarebbe pertinente lamentare
la violazione del principio di separazione dei poteri in quanto l’abrogazione
delle norme legislative sarebbe comunque disposta non dal regolamento di
delegificazione, ma dalla legge. Inoltre l’ammissibilità dei regolamenti di
delegificazione a livello regionale sarebbe ormai pacificamente ammessa dalla
dottrina. Sotto altro profilo, poi, disposizione analoga a quella censurata
sarebbe contenuta nell’art 43 dello statuto della Regione Calabria,
disposizione quest’ultima non impugnata dal Governo.
12 – Analogamente sarebbe da
respingere la censura avverso l’art. 40 della delibera statutaria, dal momento
che esso non prevederebbe alcuna delega legislativa e
che l’approvazione finale da parte del Consiglio con le sole dichiarazioni di
voto non contrasterebbe con l’art. 121 della Costituzione che, a differenza
dell’art. 72 della Costituzione, non prevede l’esame in commissione e
l’approvazione articolo per articolo. D’altra parte, la previsione di una
procedura spedita di approvazione del testo unico ben si giustificherebbe per
il carattere non innovativo dell’atto legislativo in questione. Infine la
difesa regionale evidenzia ancora come analoga norma contenuta nello statuto
della Regione Calabria (art. 44) non sia stata impugnata dal Governo.
13. – La Regione Umbria
sostiene che anche la censura mossa avverso l’art. 66 sarebbe infondata, dal
momento che la incompatibilità della carica di componente della Giunta con
quella di componente del Consiglio non atterrebbe alla materia elettorale, bensì
alla disciplina della forma di governo regionale. Ad avviso della difesa
regionale, non tutte le cause di incompatibilità avrebbero la medesima ratio:
mentre le incompatibilità "esterne”, quale, ad esempio, quella tra appartenenza
al Consiglio o alla Giunta regionale e appartenenza al Parlamento, avrebbero la
funzione di garantire l’effettività e l’imparzialità dello svolgimento della
funzione, le incompatibilità "interne”, quale appunto quella prevista dalla
norma censurata, atterrebbero al modo di conformare i rapporti tra gli organi
fondamentali della Regione.
14. – "Radicalmente infondata”
sarebbe infine la censura mossa nei confronti dell’art. 82 della delibera
statutaria che disciplina la Commissione di garanzia. Il potere conferito a
tale organo sarebbe meramente consultivo e facoltativo; inoltre l’unica
conseguenza di un suo parere negativo sarebbe solo il dovere per l’organo
competente di riesaminare l’atto per la sua riapprovazione, peraltro senza
maggioranze qualificate (d’altra parte, la previsione della necessità di una
riapprovazione della legge o del regolamento rientra sicuramente nella
competenza statutaria). La Commissione di garanzia, dunque, assicurerebbe solo
un controllo interno per meglio garantire la legittimità delle fonti regionali.
Sarebbe comunque sempre rispettata la competenza legislativa del Consiglio e il
potere di sindacato della Corte costituzionale.
15. – Con ricorso notificato
in data 11 settembre 2004, depositato il 20 settembre 2004, e iscritto al n. 90
del registro ricorsi del 2004, il consigliere regionale Carlo Ripa di Meana ha
chiesto che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale, ovvero la nullità o
l’inesistenza della delibera statutaria della Regione Umbria.
Sostiene preliminarmente il
ricorrente che tale delibera statutaria sarebbe stata approvata in violazione
del procedimento previsto dall’art. 123 Cost., in
quanto mancherebbe la doppia delibera conforme e che ciò sarebbe avvenuto con
la contrarietà espressa dello stesso ricorrente.
Il consigliere afferma di aver
denunciato tale vizio alla Presidenza del Consiglio dei ministri, la quale, asseritamente per ragioni politiche, non avrebbe incluso
tra i motivi del ricorso presentato avverso la delibera statutaria della
Regione Umbria anche il vizio procedimentale suddetto.
16. – In ordine alla
legittimazione di un consigliere regionale di minoranza a ricorrere alla Corte
costituzionale, il ricorrente osserva che essa sarebbe implicita nel sistema
costituzionale per una pluralità di ragioni.
Al riguardo – oltre ad alcune
argomentazioni già riportate a proposito del menzionato atto di intervento nel
giudizio instaurato dal ricorso del Governo – si evidenzia come l’ammissibilità
del ricorso deriverebbe anche dalla circostanza che nella forma di governo
regionale mancherebbe un potere neutro quale quello del Presidente della
Repubblica, che possa rinviare al Parlamento le leggi sospette di
incostituzionalità. Proprio l’attribuzione al massimo esponente della
maggioranza politica, cioè al Presidente della Giunta, del potere di
promulgazione delle leggi, renderebbe necessario riconoscere il potere di
ricorrere alla Corte ai soggetti portatori dell’interesse concreto al rispetto
delle norme costituzionali.
In senso inverso, del resto,
non potrebbe essere invocata la previsione del referendum confermativo, data la
sua natura di strumento politico e non di riesame giuridico.
In definitiva, se non si
riconoscesse al consigliere il potere di ricorrere avverso lo statuto, in via
surrogatoria, suppletiva e successiva, l’interesse al rispetto della legalità
costituzionale non sarebbe pienamente tutelato, ma rimesso ad una valutazione
di mera opportunità politica del Governo.
Infine, il ricorrente chiede
che la Corte, "ove occorra”, dichiari d’ufficio, ex art. 27 della legge 11 marzo
1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 31 della stessa legge,
come modificato dalla legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per
l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18
ottobre 2001, n.3), nella parte in cui non riconosce la legittimazione a
ricorrere del consigliere regionale che non ha votato per l’approvazione dello
statuto.
17. – Quanto alle specifiche
censure, il ricorrente lamenta innanzitutto la violazione dell’art.123 della
Costituzione e del procedimento ivi previsto, dal momento che la seconda
deliberazione con cui è stato approvato lo statuto in data 29 luglio 2004, non
sarebbe conforme a quella precedente del 2 aprile 2004, secondo motivazioni
identiche a quelle esposte nell’atto di intervento relativo al ricorso del
Governo e sintetizzate al precedente punto 7.
18. – Il ricorrente censura
inoltre l’art. 66 della delibera statutaria nella parte in cui dispone che la
carica di componente della Giunta è incompatibile con quella di consigliere regionale
e che al consigliere nominato membro della Giunta subentra il primo dei
candidati non eletti nella stessa lista, nonché nella parte in cui prevede che
il subentrante dura in carica per il periodo in cui il consigliere mantiene la
carica di assessore.
Innanzitutto la norma
violerebbe l’art. 122, primo comma, della Costituzione in quanto introdurrebbe
la figura del consigliere regionale supplente o subentrante non prevista dalla
norma costituzionale, la quale affida alla legge statale il compito di stabilire
i principî fondamentali circa le incompatibilità dei consiglieri regionali.
Risulterebbero violati, inoltre, l’art. 67 della Costituzione, in quanto la
previsione in esame contraddirebbe il divieto di mandato imperativo, nonché
l’art. 3 Cost., dal momento che il consigliere
"reggente” avrebbe uno status differenziato, con minori garanzie, rispetto al
titolare. Egli, infatti, non godendo della inamovibilità, potrebbe essere
sempre sostituito ove il supplito tornasse alla sua originaria funzione di consigliere.
In tal modo, però, la revoca del consigliere supplente sarebbe operata non dal
corpo elettorale e alla fine del mandato – come imporrebbe il principio sancito
dall’art. 67 Cost. – ma dall’esecutivo regionale cioè dall’organo sottoposto al
controllo politico del Consiglio, così che "il controllato potrebbe rimuovere a
piacimento (…) il controllore”. Per di più, il mandato del consigliere
supplente sarebbe interrotto, così "spezzando lo stesso rapporto di
rappresentanza politica”.
19. – Da ultimo, il ricorrente
censura l’art. 9 della delibera statutaria per violazione dell’articolo 29
della Costituzione, il quale non ammetterebbe "forme di tutela della famiglia
se non è basata sul matrimonio, religioso o civile”, nonché degli artt. 30 e 31
della Costituzione. La previsione della tutela delle forme di convivenza non si
limiterebbe a riconoscere una libertà, ma impegnerebbe la Regione ad agire
attivamente a protezione della convivenza di fatto "con l’effetto di una
parificazione alla famiglia di diritto”.
La norma inoltre "usurperebbe”
le competenze statali, trattandosi di questione inerente alla materia
dell’ordinamento civile, di esclusiva spettanza legislativa dello Stato,
secondo quanto previsto dall’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.
20. – Si è costituita in
giudizio la Regione Umbria, la quale ha chiesto che il ricorso proposto dal
consigliere Ripa di Meana sia dichiarato inammissibile e infondato,
riservandosi di illustrare in una successiva memoria le argomentazioni a sostegno
delle proprie difese.
21. – Il ricorrente Carlo Ripa
di Meana in prossimità dell’udienza ha depositato una memoria nella quale ha
eccepito il difetto di legittimazione processuale del Presidente della Regione
Umbria a costituirsi nel giudizio. La sua costituzione sarebbe avvenuta infatti
sine titulo, in quanto non sarebbe stata preceduta da
una delibera del Consiglio regionale, unico soggetto legittimato, a parere del
ricorrente, a decidere se resistere o meno al ricorso.
Le ragioni di tale esclusiva legittimazione
sarebbero individuabili nel fatto che il giudizio costituzionale ex articolo
123 della Costituzione, pur avendo le forme del giudizio in via principale, si
discosterebbe da questo, in quanto avrebbe una valenza infraprocedimentale
e preventiva: in tale fase la delibera statutaria sarebbe imputabile solo al
Consiglio regionale e pertanto la valutazione circa la costituzione in giudizio
del Presidente della Giunta non potrebbe sostituire quella del Consiglio.
22. – Anche la Regione Umbria
ha depositato una memoria, nella quale sostiene in primo luogo la totale
inammissibilità del ricorso proposto dal consigliere Ripa di Meana per difetto
assoluto di legittimazione. L’art. 137 della Costituzione, infatti, porrebbe
una riserva di legge costituzionale per la individuazione dei soggetti
legittimati ad instaurare un giudizio di legittimità costituzionale, con la
conseguenza che sarebbe esclusa ogni possibilità di impugnazione da parte di
soggetti non espressamente contemplati. Lo Stato sarebbe l’unico legittimato a
ricorrere in via diretta contro lo statuto e le leggi regionali, come
risulterebbe confermato anche dalla giurisprudenza costituzionale che ha
affermato la tassatività delle norme costituzionale in materia ed ha anche
escluso nei giudizi in via principale l’intervento di soggetti terzi. D’altra
parte, se lo statuto, come afferma il ricorrente, fosse nullo, qualunque
giudice potrebbe disapplicarlo, senza bisogno di ricorrere alla Corte.
23. – Quanto alla difformità
tra le due delibere lamentata dal ricorrente, essa sarebbe inesistente,
trattandosi di diversità meramente formali. Mentre nessuna rilevanza
assumerebbe l’intenzione dei redattori, le modifiche della rubrica dell’art. 9
avrebbe valore meramente esplicativo del contenuto della disposizione; la
scomposizione della norma in due commi non avrebbe implicazioni sostanziali;
l’aggiunta della parola "altresì” sarebbe semplice conseguenza della
scomposizione e la soppressione delle parole "le varie”, riferito a "forme di
convivenza”, non avrebbe valore sostanziale poiché l’espressione usata sarebbe
comunque generica e non escluderebbe alcun tipo di convivenza. In subordine,
osserva la difesa regionale, la difformità riguarderebbe comunque solo l’art. 9
e non l’intero statuto.
24 – Infondata sarebbe anche
la censura secondo la quale l’art. 66 della delibera statutaria avrebbe
introdotto una ipotesi di incompatibilità non prevista ai sensi dell’art. 122
della Costituzione. Infatti la legge 2 luglio 2004, n. 165 (Disposizioni di
attuazione dell’art. 122, primo comma, della Costituzione), prevede
espressamente la eventuale sussistenza di una causa di incompatibilità tra
assessore e consigliere regionale. La difesa regionale inoltre ribadisce la
diversità di tale ipotesi di incompatibilità rispetto alle altre, e sostiene
che quella censurata atterrebbe alla disciplina della "forma di governo”
pienamente rientrante nella competenza statutaria.
Quanto alla lamentata
violazione dell’art. 67 della Costituzione, si nega che l’impugnato art. 66,
comma 2, configuri una sorta di potere di revoca del consigliere subentrante a
quello nominato assessore. Il consigliere subentrante sarebbe consigliere
regionale a tutti gli effetti e senza limitazioni, seppure con la possibilità
che il suo mandato venga a cessare in conseguenza del rientro dell’assessore:
peraltro la cessazione dalla carica di componente della Giunta non potrebbe
trasformarsi in una sorta di strumentale revoca da parte del Presidente della
Giunta, al solo fine di estromettere il consigliere subentrato e divenuto
sgradito, poiché verrebbe fatta valere la responsabilità politica del
Presidente.
25. – Quanto, infine, alle
censure mosse avverso l’art. 9 della delibera statutaria, la difesa regionale,
dopo aver rilevato che lo stesso consigliere avrebbe presentato in commissione
un emendamento volto ad inserire nella norma l’espressione "e promuove il
riconoscimento delle diverse forme di convivenza”, osserva che la critica mossa
dal ricorrente sarebbe ancor più radicale di quella del Governo. Si contesterebbe,
infatti, la legittimità della tutela di qualsiasi forma di convivenza non
fondata sul matrimonio, e dunque anche di quelle more uxorio, che oramai
rilevano per l’ordinamento statale. Il ricorso inoltre si fonderebbe
sull’equivoco di ritenere che la norma equipari la famiglia fondata sul
matrimonio alle altre forme di convivenza, mentre così non sarebbe.
Infine, la difesa regionale
ripropone le medesime argomentazioni svolte con riguardo a tale norma nella
memoria depositata nel giudizio promosso dallo Stato (sintetizzate al
precedente punto 10).
Considerato in diritto
1. – Il Governo ha sollevato
questione di legittimità costituzionale, ai sensi dell’articolo 123, secondo
comma, della Costituzione, degli artt. 9, comma 2; 39, comma 2; 40; 66, commi 1
e 2; 82 dello statuto della Regione Umbria, approvato dal Consiglio regionale
in prima deliberazione il 2 aprile del 2004 ed in seconda deliberazione il 29
luglio 2004, in riferimento agli artt. 2; 5; 29; 117, secondo comma, lettera
l); 117, terzo comma; 121; 122, primo comma; 123; 134, della Costituzione
nonché al principio della separazione dei poteri.
L’art. 9, comma 2, viene
impugnato nella parte in cui, avendo il primo comma dell’art. 9 riconosciuto i
diritti della famiglia e previsto l’adozione di ogni misura idonea a favorire
l’adempimento dei compiti che la Costituzione le affida, dispone che la Regione
tutela forme di convivenza, in quanto consentirebbe l’adozione di "eventuali
future previsioni normative regionali” concernenti i rapporti patrimoniali e
personali tra i conviventi. Ciò in violazione dell’esclusivo potere statale
riconosciuto dall’articolo 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione,
nella materia dell’ "ordinamento civile”.
Al tempo stesso, ove la norma
intendesse affermare la rilevanza giuridica delle forme di convivenza estranee
alla famiglia al di là di quanto disciplinato dalla legislazione statale,
violerebbe gli articoli 29, 2 e 5 della Costituzione, nonché lo stesso articolo
123 della Costituzione, in quanto questa disciplina eccederebbe i contenuti
ammissibili degli statuti regionali.
L’art. 39, comma 2, il quale
prevede che la Giunta regionale possa, previa autorizzazione da parte di
apposita legge regionale, adottare regolamenti di delegificazione, violerebbe
l’articolo 121, secondo comma, della Costituzione ed il principio di
separazione dei poteri tra organo legislativo ed organo esecutivo della
regione, che non consentirebbero l’adozione di regolamenti di delegificazione;
sarebbe violato, inoltre, l’art. 117 della Costituzione, in quanto la fonte
regolamentare sarebbe incongruente rispetto alle materie legislative di tipo
concorrente, nelle quali i principî fondamentali fissati dal legislatore
statale dovrebbero essere attuati in via legislativa.
L’art. 40, invece, prevedendo
che la Giunta regionale, previa legge regionale di autorizzazione, presenti al
Consiglio regionale progetti di testo unico di disposizioni legislative,
soggetti solo alla approvazione finale del Consiglio, violerebbe l’art. 121
Cost., nonché il principio di separazione dei poteri tra organo legislativo ed
organo esecutivo della regione, che non consentirebbero deleghe legislative, né
rinunce sostanziali all’esercizio del potere legislativo da parte del Consiglio
regionale.
L’art. 66, commi 1 e 2, è
censurato nella parte in cui stabilisce l’incompatibilità della carica di
componente della Giunta con quella di consigliere regionale, per violazione
dell’articolo 122, primo comma, della Costituzione, che riserva alla legge
regionale l’individuazione dei casi di incompatibilità, nei limiti dei principî
sanciti dalla legge statale.
L’art. 82, il quale
attribuisce alla Commissione di garanzia la funzione di esprimere pareri sulla
conformità allo statuto delle leggi e dei regolamenti regionali, violerebbe gli
articoli 121 e 134 della Costituzione, in quanto, ove la disposizione impugnata
dovesse intendersi nel senso che tale parere segua il compimento dell’attività
normativa, conferirebbe ad un organo amministrativo il potere di sindacare le
leggi ed i regolamenti adottati dai competenti organi regionali.
2. – Il consigliere regionale
Carlo Ripa di Meana ha sollevato questione di legittimità costituzionale della
delibera statutaria nella sua interezza, in quanto sarebbe stata violata la
procedura determinata dall’articolo 123 della Costituzione per l’approvazione
dello statuto. Lo stesso consigliere ha impugnato singolarmente gli articoli 9
e 66 della delibera statutaria, in riferimento agli artt. 3; 29; 30; 31; 67;
117, secondo comma, lettera l); 121; 122; 123 della Costituzione.
La richiesta di dichiarare
l’illegittimità costituzionale dell’intera delibera statutaria o quanto meno
del suo art. 9 è motivata in ragione delle modifiche che sarebbero state
apportate a questo articolo prima della votazione finale, giustificate dagli
organi del Consiglio regionale sulla base di esigenze di coordinamento formale,
e che avrebbero invece introdotto innovazioni sostanziali, che avrebbero pesato
sullo stesso voto finale; da ciò la violazione dell’articolo 123 della Costituzione
che, ai fini dell’approvazione dello statuto regionale, richiede l’adozione di
due delibere successive tra loro identiche.
Nel merito l’art. 9 violerebbe
gli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione, in quanto impegnerebbe la Regione ad
agire attivamente a protezione delle convivenze di fatto, in contrasto con la
norma costituzionale che non ammette forme di tutela della famiglia se non è
basata sul matrimonio, religioso o civile. Inoltre questa disposizione
violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione, in quanto
"usurperebbe” le competenze statali in materia di ordinamento civile.
L’art. 66, primo comma, è
censurato nella parte in cui prevede che la carica di componente della Giunta
sia incompatibile con quella di consigliere regionale, in quanto violerebbe
l’art. 122, primo comma della Costituzione, il quale affida alla legge statale
il compito di stabilire i principî fondamentali in materia di incompatibilità
dei consiglieri regionali.
L’art. 66, secondo comma,
disponendo che al consigliere regionale nominato membro della Giunta subentra
il primo dei candidati non eletti nella stessa lista e che il subentrante dura
in carica per tutto il periodo in cui il consigliere mantiene la carica di
assessore, violerebbe l’articolo 67 della Costituzione ed il principio del
divieto di mandato imperativo, in quanto il consigliere supplente sarebbe
soggetto a revoca ad opera del supplito e dunque dell’organo esecutivo
regionale, e durante il corso della legislatura. Questa norma, prevedendo minori
garanzie per il consigliere supplente rispetto a quello ordinario, violerebbe
anche l’art. 3; sarebbero pure violati gli artt. 121, 122 e 123 della
Costituzione in quanto la disposizione impugnata determinerebbe l’esistenza di
categorie diverse di consiglieri regionali; inoltre si introdurrebbe un
meccanismo attraverso il quale potrebbero entrare nel Consiglio diversi
candidati non eletti dal corpo elettorale.
3. – In via preliminare va
dichiarato inammissibile il ricorso avverso la delibera statutaria presentato
dal consigliere regionale Carlo Ripa di Meana.
L’impugnativa in via
principale per motivi di costituzionalità delle leggi e degli statuti regionali
è determinato da fonti costituzionali, secondo quanto reso palese dagli
articoli 123 e 127 della Costituzione, nonché dall’articolo 2 della legge
costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità
costituzionale e sulle garanzie di indipendenza della Corte costituzionale),
che individuano soltanto nel Governo e nelle Giunte regionali gli organi che
possono ricorrere in via principale alla Corte costituzionale; ciò è confermato
dal primo comma dell’articolo 137 della Costituzione, secondo il quale "una
legge costituzionale stabilisce le condizioni, le forme, i termini di proponibilità
dei giudizi di legittimità costituzionale (…)”. Né le caratteristiche del nuovo
procedimento di approvazione dello statuto regionale – quale risulta in seguito
alle modifiche introdotte dalla legge costituzionale n. 1 del 1999 – possono
fondare alcun potere dei consiglieri regionali di impugnativa della delibera
statutaria.
Ulteriore argomento in tal
senso è individuabile nella circostanza secondo la quale nel periodo di
applicazione dell’articolo 127 nella formulazione precedentemente vigente, con
cui l’attuale articolo 123 della Costituzione condivide la caratteristica di un
giudizio in via principale su un testo legislativo non ancora promulgato, era
pacificamente esclusa la possibilità di partecipare al giudizio per soggetti
diversi dalle parti esplicitamente individuate dalle disposizioni di rango
costituzionale e dal titolare della potestà legislativa il cui esercizio fosse
oggetto di contestazione
In base a tali argomentazioni
non potrebbe che essere dichiarata manifestamente infondata (ove il ricorso
fosse – come non è – ammissibile) la questione di legittimità costituzionale
posta dal consigliere ricorrente in relazione all’articolo 31 della legge 11
marzo 1953, n. 87, quale modificato dall’articolo 9 della legge 5 giugno 2003,
n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), nella parte in cui non riconosce
la legittimazione a ricorrere del consigliere regionale che non abbia votato
per l’approvazione dello statuto regionale, dal momento che questa norma non fa
che esplicitare quanto già chiaramente previsto nel secondo comma dell’articolo
123 della Costituzione.
4. – Va altresì dichiarato
inammissibile l’intervento del consigliere regionale Carlo Ripa di Meana nel
giudizio in via principale relativo alla delibera statutaria della Regione
Umbria promosso dal Governo.
Infatti, analogamente a quanto
affermato per il giudizio sulle leggi in via principale – e cioè che devono
ritenersi legittimati ad esser parti solo i soggetti titolari delle
attribuzioni legislative in contestazione – anche nel giudizio sulla speciale
legge regionale disciplinata dall’articolo 123 della Costituzione, gli unici
soggetti che possono essere parti sono la Regione, in quanto titolare della
potestà normativa in contestazione, e lo Stato, indicato dalla Costituzione
come unico possibile ricorrente. Restano fermi, naturalmente, per i soggetti
privi di tali potestà i mezzi di tutela delle loro posizioni soggettive dinanzi
ad altre istanze giurisdizionali ed anche dinanzi a questa Corte nell’ambito
del giudizio in via incidentale (cfr. ex plurimis sentenze n. 166 del
2004, n. 338,
n. 315, n. 307 e n. 49 del 2003,
nonché l’ordinanza allegata alla sentenza n. 196 del 2004).
5. – Venendo alle censure di
illegittimità costituzionale sollevate nel ricorso governativo, in via
preliminare occorre dichiarare la inammissibilità delle censure relative
all’art. 9, comma 2.
Va ricordato che negli statuti
regionali entrati in vigore nel 1971 – ivi compreso quello della Regione Umbria
– si rinvengono assai spesso indicazioni di obiettivi prioritari dell’attività
regionale ed anche in quel tempo si posero problemi di costituzionalità di tali
indicazioni, sotto il profilo della competenza della fonte statutaria ad
incidere su materie anche eccedenti la sfera di attribuzione regionale. Al
riguardo, dopo aver riconosciuto la possibilità di distinguere tra un contenuto
"necessario” ed un contenuto "eventuale” dello statuto (cfr. sentenza n. 40 del
1972), si è ritenuto che la formulazione di proposizioni statutarie del
tipo predetto avesse principalmente la funzione di legittimare la Regione come
ente esponenziale della collettività regionale e del complesso dei relativi
interessi ed aspettative. Tali interessi possono essere adeguatamente
perseguiti non soltanto attraverso l’esercizio della competenza legislativa ed
amministrativa, ma anche avvalendosi dei vari poteri, conferiti alla Regione
stessa dalla Costituzione e da leggi statali, di iniziativa, di partecipazione,
di consultazione, di proposta, e così via, esercitabili, in via formale ed
informale, al fine di ottenere il migliore soddisfacimento delle esigenze della
collettività stessa. In questo senso si è espressa questa Corte, affermando che
l’adempimento di una serie di compiti fondamentali «legittima, dunque, una
presenza politica della regione, in rapporto allo Stato o anche ad altre
regioni, riguardo a tutte le questioni di interesse della comunità regionale,
anche se queste sorgono in settori estranei alle singole materie indicate
nell’articolo 117 Cost. e si proiettano al di là dei
confini territoriali della regione medesima» (sentenza n. 829
del 1988).
Il ruolo delle Regioni di rappresentanza generale degli interessi
delle rispettive collettività, riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale
e dalla prevalente dottrina, è dunque rilevante, anche nel momento presente, ai
fini «dell’esistenza, accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali,
di altri possibili contenuti, sia che risultino ricognitivi delle funzioni e
dei compiti della Regione, sia che indichino aree di prioritario intervento
politico o legislativo» (sentenza n. 2 del
2004); contenuti che talora si esprimono attraverso proclamazioni di
finalità da perseguire. Ma la sentenza ha rilevato come sia opinabile la
"misura dell’efficacia giuridica” di tali proclamazioni; tale dubbio va sciolto
considerando che alle enunciazioni in esame, anche se materialmente inserite in
un atto-fonte, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica,
collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle
diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione
dello statuto.
D’altra parte, tali proclamazioni di obiettivi e di impegni non
possono certo essere assimilate alle c.d. norme programmatiche della
Costituzione, alle quali, per il loro valore di principio, sono stati
generalmente riconosciuti non solo un valore programmatico nei confronti delle
futura disciplina legislativa, ma sopratutto una funzione di integrazione e di
interpretazione delle norme vigenti. Qui però non siamo in presenza di Carte
costituzionali, ma solo di fonti regionali "a competenza riservata e
specializzata”, cioè di statuti di autonomia, i quali, anche se
costituzionalmente garantiti, debbono comunque «essere in armonia con i
precetti ed i principi tutti ricavabili dalla Costituzione» (sentenza n. 196 del
2003).
Dalle premesse appena
formulate sul carattere non prescrittivo e non vincolante delle enunciazioni
statutarie di questo tipo, deriva che esse esplicano una funzione, per così
dire, di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa. Nel caso in
esame, una enunciazione siffatta si rinviene proprio nell’art. 9, comma 2,
della delibera statutaria impugnata, là dove si afferma che la Regione "tutela
altresì forme di convivenza”; tale disposizione non comporta né alcuna
violazione, né alcuna rivendicazione di competenze costituzionalmente
attribuite allo Stato, né fonda esercizio di poteri regionali. Va così
dichiarata inammissibile, per inidoneità lesiva della disposizione impugnata,
la censura avverso la denunciata proposizione della deliberazione statutaria.
6. – Le censure di
illegittimità costituzionale relative all’art. 39, comma 2, sono infondate.
Le argomentazioni del ricorso,
infatti, muovono da una errata lettura della disposizione, che non prevede
affatto il "conferimento alla Giunta di una potestà legislativa”, come afferma
l’Avvocatura, con la conseguente alterazione dei rapporti fra potere esecutivo
e legislativo a livello regionale. La norma in oggetto, invece, si limita a
riprodurre il modello vigente a livello statale dei cosiddetti regolamenti
delegati, che è disciplinato dal comma 2 dell’art. 17 della legge 23 agosto
1988, n.400 (Disciplina dell’attività di governo e ordinamento della Presidenza
del Consiglio dei Ministri). In questo modello di delegificazione, come ben
noto largamente utilizzato a livello nazionale e ormai anche in varie Regioni
pur in assenza di disposizioni statutarie in tal senso, è alla legge che
autorizza l’adozione del regolamento che deve essere imputato l’effetto
abrogativo, mentre il regolamento determina semplicemente il termine iniziale
di questa abrogazione.
La stessa preoccupazione che
l’adozione di regolamenti del genere possa alterare nelle materie di competenza
concorrente il rapporto fra normativa statale di principio e legislazione
regionale, dal momento che potrebbe invece risultare necessario che la
normazione regionale sia adottata in tutto o in parte mediante legge, può
essere fugata dal fatto che lo stesso art. 39, comma 2, che è stato impugnato,
dispone che la legge di autorizzazione all’adozione del regolamento deve
comunque contenere "le norme generali regolatrici della materia”, nonché la
clausola abrogativa delle disposizioni vigenti. Sarà dunque in relazione a tale
legge che potrà essere verificato il rispetto di riserve di legge regionale
esistenti nei differenziati settori, con anche la possibilità, in caso di
elusione di questo vincolo, di promuovere la relativa questione di legittimità
costituzionale.
7. – Le censure di illegittimità
costituzionale dell’art. 40 non sono fondate.
Anche in questo caso, infatti
appare errata l’interpretazione della disposizione in oggetto come attributiva
di "deleghe legislative” da parte del Consiglio alla Giunta regionale, poiché
invece l’articolo in contestazione prevede soltanto che il Consiglio conferisca
alla Giunta un semplice incarico di presentare allo stesso organo legislativo
regionale, entro termini perentori, un "progetto di testo unico delle
disposizioni di legge” già esistenti in "uno o più settori omogenei”, progetto
che poi il Consiglio dovrà approvare con apposita votazione, seppure dopo un
dibattito molto semplificato.
Ben può uno statuto regionale
prevedere uno speciale procedimento legislativo diretto soltanto ad operare
sulla legislazione regionale vigente, a meri fini "di riordino e di
semplificazione”. La stessa previsione di cui al terzo comma dell’art. 40,
relativa al fatto che eventuali proposte di revisione sostanziale delle leggi
oggetto del procedimento per la formazione del testo unico, che siano
presentate nel periodo previsto per l’espletamento dell’incarico dato alla
Giunta, debbano necessariamente tradursi in apposita modifica della legge di
autorizzazione alla redazione del testo unico, sta a confermare che ogni modifica
sostanziale della legislazione da riunificare spetta alla legge regionale e che
quindi la Giunta nella sua opera di predisposizione del testo unico non può
andare oltre al mero riordino e alla semplificazione di quanto deliberato in
sede legislativa dal Consiglio regionale.
8. – Le censure di
illegittimità costituzionale relative all’art. 66, commi 1 e 2, sono fondate.
L’art. 122 Cost. riserva
espressamente alla legge regionale, "nei limiti dei principî fondamentali
stabiliti con legge della Repubblica”, la determinazione delle norme relative
al "sistema di elezione” e ai "casi di ineleggibilità e di incompatibilità del
Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri
regionali”, senza che si possa distinguere (come invece ipotizza la difesa
regionale) fra ipotesi di incompatibilità "esterne” ed "interne”
all’organizzazione istituzionale della Regione.
E’ vero che le scelte in tema
di incompatibilità fra incarico di componente della Giunta regionale e di
consigliere regionale possono essere originate da opzioni statutarie in tema di
forma di governo della Regione, ma – come questa Corte ha già affermato in
relazione ad altra delibera statutaria regionale nella sentenza n. 2 del
2004 – occorre rilevare che il
riconoscimento nell’articolo 123 della Costituzione del potere statutario in
tema di forma di governo regionale è accompagnato dalla previsione
dell’articolo 122 della Costituzione, e che quindi la disciplina dei
particolari oggetti cui si riferisce l’articolo 122 sfugge alle determinazioni
lasciate all’autonomia statutaria.
Né la formulazione del primo
comma dell’art. 66 può essere interpretata come espressiva di un mero principio
direttivo per il legislatore regionale, nell’ambito della sua discrezionalità
legislativa in materia.
La dichiarazione di
illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 66 si estende
logicamente anche al secondo comma della medesima disposizione, che ne
disciplina le conseguenze sul piano della composizione del Consiglio regionale.
Inoltre, ai sensi dell’art. 27
della legge 11 marzo 1953, n. 87, la dichiarazione di illegittimità
costituzionale deve essere estesa anche al terzo comma dell’art. 66 della
delibera statutaria, che prevede un ulteriore svolgimento di quanto
disciplinato nel secondo comma, ben potendo la dichiarazione di illegittimità
costituzionale consequenziale applicarsi non soltanto ai giudizi in via
principale (cfr. sentenze
n. 4 del 2004, n. 20 del 2000,
n. 441 del 1994
e n. 34 del
1961), ma anche al particolare giudizio di cui all’art. 123 Cost. (cfr. sentenza n. 2 del 2004).
9. – Le censure di
illegittimità costituzionale relative all’art. 82 non sono fondate.
La disciplina della
Commissione di garanzia statutaria negli artt. 81 ed 82 della delibera
statutaria configura solo nelle linee generali questo organo e le sue funzioni,
essendo prevista nell’art. 81 una apposita legge regionale, da approvare a
maggioranza assoluta, per definirne – tra l’altro – "le condizioni, le forme ed
i termini per lo svolgimento delle sue funzioni”: sarà evidentemente questa
legge a disciplinare analiticamente i poteri di questo organo nelle diverse
fasi nelle quali potrà essere chiamato ad esprimere pareri giuridici.
In ogni caso, la disposizione
impugnata fa espresso riferimento ad un potere consultivo della Commissione, da
esplicarsi attraverso semplici pareri, che, se negativi sul piano della
conformità statutaria, determinano come conseguenza il solo obbligo di riesame,
senza che siano previste maggioranze qualificate ed anche senza vincolo in
ordine ad alcuna modifica delle disposizioni normative interessate.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE
COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile il
ricorso, iscritto al n. 90 del registro ricorsi del 2004, presentato dal
consigliere regionale della Regione Umbria Carlo Ripa di Meana nei confronti
della delibera statutaria della Regione Umbria approvata dal Consiglio
regionale in prima deliberazione il 2 aprile del 2004 ed in seconda
deliberazione il 29 luglio 2004;
2) dichiara inammissibile
l’intervento spiegato dal consigliere regionale della Regione Umbria Carlo Ripa
di Meana, nel giudizio iscritto al n. 88 del registro ricorsi del 2004,
relativo alla predetta delibera statutaria della Regione Umbria;
3) dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 66, commi 1 e 2, della predetta delibera statutaria
della Regione Umbria;
4) dichiara, ai sensi
dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale
dell’art. 66, comma 3, della predetta delibera statutaria della Regione Umbria;
5) dichiara inammissibili le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della predetta delibera
statutaria della Regione Umbria, per violazione degli artt. 2, 5, 29, 117,
secondo comma, lettera l), e 123 Cost., proposte con
il ricorso n. 88 del 2004;
6) dichiara non fondate le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 39, comma 2, della predetta
delibera statutaria della Regione Umbria, per violazione degli artt. 121 e 117 Cost., proposte con il ricorso n. 88 del 2004;
7) dichiara non fondate le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40 della predetta delibera
statutaria della Regione Umbria, per violazione dell’art. 121 Cost. e del principio di separazione dei poteri, proposta con il
ricorso n. 88 del 2004;
8) dichiara non fondate le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 82 della predetta delibera
statutaria della Regione Umbria, per violazione degli artt. 121 e 134 Cost., proposte con il ricorso n. 88 del 2004.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il 29 novembre 2004.
F.to:
Valerio ONIDA, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Depositata in Cancelleria il 6
dicembre 2004.