Sentenza n. 212

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SENTENZA N. 212

 

ANNO 1997

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

 

- Prof.    Giuliano VASSALLI

 

- Prof.    Francesco GUIZZI               

 

- Prof.    Cesare MIRABELLI            

 

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO

 

- Avv.    Massimo VARI                                

 

- Dott.   Cesare RUPERTO                

 

- Dott.   Riccardo CHIEPPA             

 

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

 

- Prof.    Valerio ONIDA                    

 

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

 

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI             

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 18, legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso con ordinanza emessa il 23 marzo 1996 dal Magistrato di sorveglianza di Brescia sul ricorso proposto da Beltrami Gianluigi, iscritta al n. 527 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell'anno 1996.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 9 aprile 1997 il Giudice relatore Valerio Onida.

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Chiamato a provvedere sul reclamo avanzato, ai sensi dell'art. 35 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), da un detenuto ristretto in carcere in forza dell'ordine di esecuzione di una condanna definitiva, a cui non era stato consentito dall'amministrazione carceraria un colloquio con il difensore, il Magistrato di sorveglianza di Brescia, con ordinanza del 23 marzo 1996, pervenuta a questa Corte il 13 maggio 1996, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, dell'art. 18 della legge citata - che disciplina "colloqui, corrispondenza e informazione" dei detenuti - "nella parte in cui non prevede il diritto del difensore del condannato definitivo detenuto, regolarmente nominato, a fruire di colloqui con le stesse modalità e nella stessa misura prevista, per gli imputati detenuti, dagli artt. 96 e seguenti cod. proc. pen. (ed in particolare dall'art. 104 dello stesso codice)", nonchè "nella parte in cui il difensore viene considerato come terzo abilitato al colloquio, su discrezionale decisione del direttore dell'istituto, esclusivamente nel caso di pendenza di 'procedimenti giurisdizionali' in relazione ai quali sia stato regolarmente nominato".

 

Il remittente premette che il reclamo é ammissibile, trattandosi dell'unico rimedio che l'ordinamento concede al condannato in tema di colloqui, e ancorchè nessuna norma del vigente ordinamento penitenziario preveda speciali regole per i colloqui fra il condannato definitivo ed il suo difensore; e che egualmente é ammissibile in sede di reclamo la proposizione di incidente di costituzionalità, trattandosi pur sempre di un procedimento che ha luogo davanti al magistrato di sorveglianza, che é da considerare autorità giurisdizionale.

 

Nel merito, il giudice a quo osserva preliminarmente che la legge delega per il nuovo codice di procedura penale ha voluto che il codice offrisse garanzie di giurisdizionalità nella fase della esecuzione, con riferimento ai procedimenti concernenti le pene e le misure di sicurezza, e sancisse l'obbligo di notificare o comunicare al difensore, a pena di nullità, i provvedimenti relativi (art. 2, numero 96, della legge 16 febbraio 1987, n. 81); e che ormai la fase dell'esecuzione, che inizia con l'emissione dell'ordine di esecuzione da parte del pubblico ministero, notificato al difensore del condannato (art. 656, comma 4, cod. proc. pen.), costituisce autonoma fase giurisdizionale, come conferma l'art. 655, comma 5, cod. proc. pen., che impone, a pena di nullità, la notifica al difensore all'uopo nominato (e non al difensore della fase precedente, prorogato), entro trenta giorni dalla loro emissione, dei provvedimenti del pubblico ministero (attinenti all'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali) dei quali é prescritta la notificazione al difensore: onde si aprirebbe un procedimento giurisdizionale, indipendentemente dal fatto che sia instaurato uno specifico procedimento di esecuzione davanti al giudice dell'esecuzione medesima, a norma dell'art. 666 cod. proc. pen.

 

Con queste premesse contrasta, ad avviso del remittente, la tesi dell'amministrazione penitenziaria, avallata anche da pareri resi dall'ufficio legislativo del Ministero di grazia e giustizia, secondo cui i colloqui col difensore possono bensì essere autorizzati dal direttore dell'istituto, ai sensi dell'art. 18 dell'ordinamento penitenziario e dell'art. 35 del regolamento di esecuzione, per ragioni di giustizia, ma a condizione che penda un procedimento davanti al giudice dell'esecuzione o alla magistratura di sorveglianza, non trovando applicazione, nei confronti del condannato in via definitiva, l'art. 104 del codice di procedura penale, che sancisce il diritto dell'imputato in stato di custodia cautelare di conferire con il difensore fin dall'inizio dell'esecuzione della misura.

 

Secondo il giudice a quo, invece, pur mancando una norma ad hoc che legittimi pienamente la posizione del difensore nella fase esecutiva, tale fase nella sua interezza deve essere assistita dalla garanzia di difesa; e del resto il diritto costituzionale alla difesa si collega ai diritti inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 della Costituzione, e si applica, come ha affermato questa Corte nelle sentenze n. 53 del 1968 e n. 76 del 1970, a qualunque procedimento che, indipendentemente dalla sua qualificazione giurisdizionale, possa sfociare un una misura limitativa della libertà personale.

 

Richiamata ulteriore giurisprudenza di questa Corte in tema di diritto di difesa, il remittente sottolinea che, sebbene non vi siano termini di decadenza perchè il condannato in via definitiva possa adire la magistratura, anche ad esso, come all'imputato destinatario del decreto di citazione a giudizio, deve essere assicurata la possibilità di conoscere i suoi diritti e di operare al più presto e in modo adeguatamente assistito le proprie scelte difensive, basate sulla conoscenza di tutte le soluzioni che l'ordinamento gli offre: e da questo punto di vista la notifica dell'ordine di esecuzione ha la stessa funzione della notifica del decreto di citazione a giudizio.

 

2.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile, e in subordine infondata.

 

L'inammissibilità deriverebbe, secondo l'Avvocatura erariale, dalla mancanza, nella specie, di un "giudizio", in quanto il reclamo al magistrato di sorveglianza in materia di colloqui dà luogo ad un contenzioso di carattere amministrativo.

 

Nel merito, la difesa del Presidente del Consiglio sostiene che la questione é infondata, anzitutto, perchè, mirando a parificare, in ordine al diritto al colloquio con il difensore, la posizione del condannato definitivo a quella dell'imputato, indicata come tertium comparationis, prospetta in realtà una violazione del principio di eguaglianza, e non solo del diritto di difesa: ma la differenziazione fra le due discipline sarebbe pienamente ragionevole, data la diversità delle situazioni messe a confronto.

 

Per quanto attiene al diritto di difesa, esso sarebbe vulnerato solo se venisse sacrificato o reso estremamente difficoltoso nel suo esercizio, ed inoltre dovrebbe essere contemperato con altri valori costituzionali. Ora, secondo l'Avvocatura erariale, la necessità dell'autorizzazione del direttore per il colloquio, autorizzazione che secondo la prassi deve essere concessa, salvo che non sussistano specifici motivi che lo sconsigliano, nella misura necessaria a soddisfare le esigenze di giustizia, non é tale da rendere estremamente difficoltoso l'esercizio del diritto di difesa del condannato; ed é destinata a contemperare l'interesse del condannato con quello, anch'esso costituzionalmente protetto, quanto meno sotto il profilo dell'art. 97, primo comma, della Costituzione, dell'ordine e della sicurezza degli istituti di pena.

 

Considerato in diritto

 

1.- La questione sollevata investe il mancato riconoscimento del diritto del detenuto condannato in via definitiva di conferire - alla stessa stregua di quanto é previsto dall'art. 104 cod. proc. pen. per l'imputato in stato di custodia cautelare - con il proprio difensore, nominato ai sensi dell'art. 655, comma 5, a cui viene notificato l'ordine di esecuzione della condanna a pena detentiva, come previsto dall'art. 656, comma 4, indipendentemente dalla pendenza di uno specifico procedimento giurisdizionale davanti al giudice dell'esecuzione o alla magistratura di sorveglianza: mancato riconoscimento che si assume essere in contrasto con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione.

 

2.- L'eccezione, sollevata dall'Avvocatura erariale, di inammissibilità della questione per carenza di legittimazione del giudice a quo, non può essere accolta.

 

Già in altra non recente occasione questa Corte, chiamata a pronunciarsi su una questione sollevata dal giudice di sorveglianza (previsto dall'ordinamento allora in vigore) in tema di diritto alla difesa nel procedimento di applicazione di una misura di sicurezza detentiva, ebbe a superare i dubbi sulla ammissibilità della questione, in rapporto all'alternativa tra carattere amministrativo e carattere giurisdizionale del procedimento, osservando che "il termine 'giudizio' é da interpretare nel senso più lato di ogni procedimento davanti a un giudice", e affermando, nel merito, che la questione relativa al diritto di difesa poteva e doveva "essere impostata su un piano diverso e più alto, che non é quello formale dell'appartenenza del procedimento all'una o all'altra categoria [dei procedimenti amministrativi o giurisdizionali], bensì quello dell'interesse umano oggetto del procedimento, vale a dire quello supremo della libertà personale"; ritenendo dunque che, "amministrativo o giurisdizionale che sia il procedimento nel quale un tale interesse viene in questione davanti a un giudice, spetti sempre al soggetto il diritto ad una integrale difesa: e ciò in riguardo a tutte le misure che incidano sulla libertà personale" (sentenza n. 53 del 1968).

 

E' ben vero che, in quell'occasione, ciò di cui si discuteva era proprio il diritto di difesa nello stesso procedimento, nel cui ambito la questione era stata sollevata; mentre nel caso presente si discute della ammissibilità di una questione sollevata nell'ambito di un procedimento di reclamo, volto a far valere il diritto di difesa che si assume violato nella fase di esecuzione, genericamente intesa, della condanna a pena detentiva. Tuttavia é indubitabile, come sottolinea il remittente, che il reclamo al magistrato di sorveglianza, a norma dell'art. 35 dell'ordinamento penitenziario, costituisce l'unico rimedio apprestato dall'ordinamento in vigore al condannato detenuto, che intenda far valere una violazione del proprio diritto di difesa, sotto specie del diritto ad avere colloqui con il proprio difensore, diritto che si assume illegittimamente negato dall'autorità amministrativa penitenziaria.

 

Ora, poichè nell'ordinamento, secondo il principio di assolutezza, inviolabilità e universalità del diritto alla tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 Cost.), non v'é posizione giuridica tutelata di diritto sostanziale, senza che vi sia un giudice davanti al quale essa possa essere fatta valere, é inevitabile riconoscere carattere giurisdizionale al reclamo al magistrato di sorveglianza, che l'ordinamento appresta a tale scopo.

 

L'unica alternativa sarebbe, in astratto, quella di ritenere la materia rimessa al giudice amministrativo in sede di giurisdizione generale di legittimità. Ma, nella specie, ciò che il reclamante lamenta non é il cattivo esercizio di un potere discrezionale dell'amministrazione penitenziaria, bensì il mancato riconoscimento - in forza della lacuna normativa denunciata - di un diritto fondamentale, com'é il diritto inviolabile alla difesa, sub specie di diritto al colloquio con il proprio difensore.

 

Il detenuto, infatti, pur trovandosi in situazione di privazione della libertà personale in forza della sentenza di condanna, é pur sempre titolare di diritti incomprimibili, il cui esercizio non é rimesso alla semplice discrezionalità dell'autorità amministrativa preposta all'esecuzione della pena detentiva, e la cui tutela pertanto non sfugge al giudice dei diritti (cfr. sentenza n. 410 del 1993).

 

D'altra parte, sebbene l'ordinamento penitenziario non abbia esplicitamente e compiutamente risolto il problema dei rimedi giurisdizionali idonei ad assicurare la tutela di tali diritti (tanto che questa Corte ha dovuto talora intervenire in materia affermando in via interpretativa l'estensione di rimedi esplicitamente previsti: sentenza n. 410 del 1993), sta di fatto che, nel configurare (nei capi II e II-bis del titolo secondo) l'organizzazione dei "giudici di sorveglianza" (magistrati e tribunale di sorveglianza), esso ha dato vita ad un assetto chiaramente ispirato al criterio per cui la funzione di tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti é posta in capo a tali uffici della magistratura ordinaria. Alla luce di tale criterio assume rilievo anche la generale competenza attribuita al magistrato di sorveglianza per la verifica di eventuali elementi, contenuti nel programma di trattamento, "che costituiscono violazione dei diritti del condannato o dell'internato", e per l'adozione delle disposizioni "dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati" (art. 69, comma 5, ordinamento penitenziario).

 

Sicchè si può concludere che il procedimento instaurato attraverso l'esercizio del generico "diritto di reclamo" del detenuto, che può rivolgersi sia ad autorità amministrative o ad autorità politiche o comunque estranee all'organizzazione penitenziaria (assumendo volta a volta carattere di reclamo amministrativo o di semplice istanza o esposto o petizione), sia all'organo giudiziario specificamente preposto al sistema penitenziario, vale a dire al magistrato di sorveglianza, può assumere, anche in quest'ultimo caso, veste e carattere diversi a seconda dell'oggetto del reclamo e del contenuto della domanda. Mentre in alcune ipotesi le determinazioni che il magistrato di sorveglianza é chiamato ad adottare non fuoriescono verosimilmente dall'ambito amministrativo, altre volte, come nella specie, quando é posta in discussione la concreta tutela di un diritto del detenuto, che solo in quella sede possa essere fatto valere, potrà e dovrà riconoscersi al relativo procedimento natura di "giudizio", nel corso del quale può essere sollevata una questione di costituzionalità.

 

Per le stesse ragioni, non vi é contraddizione fra il riconoscimento, in queste ipotesi, della legittimazione del magistrato di sorveglianza, e la sua negazione in casi, come quelli talvolta esaminati da questa Corte, in cui lo stesso magistrato di sorveglianza esplica una funzione meramente consultiva e non decisoria (cfr. sentenza n. 8 del 1979, ordinanza n. 382 del 1991), ovvero comunque é sprovvisto di potere decisorio in ordine alla applicazione della norma, della cui costituzionalità egli dubiti (cfr. sentenza n. 109 del 1983), o interviene in funzione solo istruttoria o servente rispetto ad un giudizio attribuito ad altro giudice (ordinanze n. 207 e n. 290 del 1990).

 

3. - Nel merito, la questione é fondata.

 

Il diritto di difesa é diritto inviolabile, che si esercita nell'ambito di qualsiasi procedimento giurisdizionale ove sia in questione una posizione giuridica sostanziale tutelata dall'ordinamento (cfr. sentenze n. 18 del 1982, n. 53 del 1968), e che deve essere garantito nella sua effettività (cfr. sentenze n. 220 del 1994, n. 144 del 1992). Esso comprende il diritto alla difesa tecnica (cfr. sentenze n. 125 del 1979, n. 80 del 1984), e dunque anche il diritto - ad esso strumentale - di poter conferire con il difensore (cfr. sentenza n. 216 del 1996), allo scopo di predisporre le difese e decidere le strategie difensive, ed ancor prima allo scopo di poter conoscere i propri diritti e le possibilità offerte dall'ordinamento per tutelarli e per evitare o attenuare le conseguenze pregiudizievoli cui si é esposti. Deve quindi potersi esplicare non solo in relazione ad un procedimento già instaurato, ma altresì in relazione a qualsiasi possibile procedimento contenzioso suscettibile di essere instaurato per la tutela delle posizioni garantite, e dunque anche in relazione alla necessità di preventiva conoscenza e valutazione - tecnicamente assistita - degli istituti e rimedi apprestati allo scopo dall'ordinamento.

 

Il diritto di conferire con il proprio difensore non può essere compresso o condizionato dallo stato di detenzione, se non nei limiti eventualmente disposti dalla legge a tutela di altri interessi costituzionalmente garantiti (ad esempio attraverso temporanee, limitate sospensioni dell'esercizio del diritto, come quella prevista dall'art. 104, comma 3, cod. proc. pen.: cfr. sentenza n. 216 del 1996), e salva evidentemente la disciplina delle modalità di esercizio del diritto, disposte in funzione delle altre esigenze connesse allo stato di detenzione medesimo: modalità che, peraltro, non possono in alcun caso trasformare il diritto in una situazione rimessa all'apprezzamento dell'autorità amministrativa, e quindi soggetta ad una vera e propria autorizzazione discrezionale.

 

4.- Non é necessario, ai fini del giudizio che deve rendere questa Corte, dirimere gli interrogativi circa la configurabilità o meno, secondo l'impostazione data al problema dal giudice a quo, di un procedimento giurisdizionale comprendente tutta la fase esecutiva, a prescindere dalla instaurazione di taluno degli specifici procedimenti che la legge prevede possano essere avviati davanti al giudice dell'esecuzione o davanti alla magistratura di sorveglianza. E' sufficiente infatti osservare che, come si é detto, il diritto a conferire col difensore deve essere comunque garantito in quanto strumentale rispetto all'esercizio del diritto di difesa, anche in vista di procedimenti instaurandi anzichè di procedimenti già instaurati.

 

Di questa esigenza si é dimostrato consapevole il legislatore allorquando ha imposto di notificare entro un termine perentorio, a pena di nullità, l'ordine di esecuzione, emesso dal pubblico ministero, al difensore, all'uopo nominato, del condannato (artt. 655, comma 5, e 656, comma 4, ultimo periodo, cod. proc. pen.). Tuttavia non ha tratto le necessarie conseguenze per quanto attiene al diritto del condannato detenuto di conferire col difensore: così che la materia dei colloqui é rimasta affidata alla disciplina dell'art. 18 dell'ordinamento penitenziario, e dell'art. 35 del relativo regolamento, in termini inidonei e insufficienti a garantire il vero e proprio diritto al colloquio col difensore di cui il detenuto deve essere riconosciuto titolare, come l'imputato in stato di custodia cautelare, nei cui riguardi viceversa il codice ha espressamente sancito il diritto medesimo.

 

5.- L'art. 18 dell'ordinamento penitenziario contempla i colloqui, anche con persone diverse dai congiunti, nell'ambito delle "modalità di trattamento" del detenuto di cui si occupa il capo III del titolo I della legge, in una prospettiva informata all'esigenza di assicurare al detenuto, in una certa misura, il mantenimento di relazioni familiari e sociali, e anche di consentirgli il compimento di "atti giuridici" (art. 18, primo comma, ordinamento penitenziario), ma sempre astraendo dallo specifico interesse protetto al colloquio col difensore (nominato solo dall'art. 35, sesto comma, del regolamento, per prevedere appositi locali destinati ai colloqui dei detenuti con i loro difensori), come strumento di esercizio del diritto di difesa. E infatti la disciplina dei colloqui é ispirata al criterio di affidare all'autorità carceraria - dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e dunque in ogni caso per il condannato "definitivo" - il compito di ammettere discrezionalmente i detenuti ai colloqui con persone diverse dai congiunti e dai conviventi, in base all'apprezzamento di "ragionevoli motivi" (art. 35, primo comma, regolamento penitenziario).

 

Ma l'esercizio del diritto di conferire col difensore, in quanto strumentale al diritto di difesa, non può, per ciò che si é detto, essere rimesso a valutazioni discrezionali dell'amministrazione. In assenza di ogni altra norma che riconosca tale diritto - posto che la previsione dell'art. 104 del codice di procedura penale é univocamente limitata all'imputato in stato di custodia cautelare -, l'art. 18 dell'ordinamento penitenziario, unica disposizione legislativa vigente in tema di colloqui del condannato "definitivo", deve essere dunque dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il condannato in via definitiva ha diritto di conferire con il difensore fin dall'inizio dell'esecuzione della condanna. Resta ferma ovviamente - come del resto nei confronti degli imputati in stato di custodia cautelare - la competenza dell'autorità carceraria a disporre le modalità pratiche di svolgimento dei colloqui col difensore, senza peraltro che possa essere esercitato alcun potere di apprezzamento discrezionale sulla necessità e sui motivi dei colloqui medesimi.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come sostituito dall'art. 2 della legge 12 gennaio 1977, n. 1 (Modificazioni alla legge 26 luglio 1975, n. 354, sull'ordinamento penitenziario, e all'art. 385 del codice penale), e modificato dall'art. 4 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà personale), nella parte in cui non prevede che il detenuto condannato in via definitiva ha diritto di conferire con il difensore fin dall'inizio dell'esecuzione della pena.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 giugno 1997

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Valerio ONIDA

Depositata in cancelleria il 3 luglio 1997.