Sentenza n. 125 del 1979
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SENTENZA N. 125

ANNO 1979

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Avv. Leonetto AMADEI , Presidente

Prof. Edoardo VOLTERRA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 125 e 128 del codice di procedura penale promossi con le seguenti ordinanze:

1. - ordinanza emessa il 24 novembre 1978 dal tribunale di Cuneo nel procedimento penale a carico di Vulicevic Bozidar, iscritta al n. 682 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 66 del 7 marzo 1979;

2. - ordinanza emessa il 23 novembre 1978 dal pretore di Torino nel procedimento penale a carico di Bertolazzi Pietro ed altro, iscritta al n. 57 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 87 del 28 marzo 1979.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 27 giugno 1979 il Giudice relatore Alberto Malagugini;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - In un procedimento penale avanti al pretore di Torino, l'imputato Bertolazzi Pietro ha reso ai sensi dell'art. 80 cod. proc. pen., in vista dell'udienza dibattimentale, la seguente dichiarazione: "Dichiaro di rinunziare a presenziare avanti la controscritta udienza, in quanto non ho nulla da difendermi e da rispondere ai rappresentanti della classe nemica, la borghesia. Per questo stesso motivo revoco la nomina dei difensori di fiducia Arnaldi del foro di Genova e Spazzali del foro di Milano e rifiuto qualsiasi imposizione di avvocati di regime".

Il pretore, con ordinanza in data 23 novembre 1978, accogliendo un'eccezione della difesa, ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 2 e 24 Cost., degli artt. 125 e 128 cod. proc.pen., nella parte in cui impongono la nomina di un difensore d'ufficio anche all'imputato che (come nella specie il Bertolazzi) rifiuti qualsiasi assistenza.

Il giudice a quo premette che é irrilevante, rispetto al rapporto processuale, il convincimento politico-ideologico che determina gli imputati a scegliere una linea difensiva piuttosto che un'altra. Il rapporto processuale sorge, si svolge e si esaurisce indipendentemente e anche contro la volontà dell'imputato. Una volta instauratosi il rapporto assume tuttavia rilevanza, per il suo rituale e valido svolgimento, la dichiarazione che l'imputato faccia di non volersi difendere e di non accettare l'imposizione del difensore d'ufficio. L'art. 24 della Costituzione, tutelando la difesa come diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, avrebbe inteso ricomprendere ogni possibile esplicazione tanto della difesa sostanziale dell'imputato quanto della difesa tecnica del difensore. Rispetto ai precedenti orientamenti, anche della Corte costituzionale, in punto di difesa tecnica e di sua compatibilità con l'autodifesa dell'imputato, la questione sollevata dalla dichiarazione del Bertolazzi appare nuova, e richiede una diversa impostazione.

L'imputato, invero, non chiede di autodifendersi per difendersi, ma perché sceglie di non difendersi. La sua richiesta si identifica nella affermazione del diritto di scelta di non difendersi e di non essere difeso. La questione prospettata non é dunque più sul punto se il difensore tecnico accresca o limiti le possibilità di difesa dell'imputato, ma se sia consentito all'imputato di non difendersi, e conseguentemente l'imposizione di un difensore d'ufficio, che istituzionalmente deve svolgere attività difensiva, non appaia violazione di un diritto costituzionalmente garantito.

Le ragioni comunemente addotte, per negare all'imputato la facoltà di rifiutare la difesa, non appaiono al giudice a quo convincenti. Non l'argomento della irrinunciabilità del diritto di difesa, posto che la sua tutela costituzionale copre ugualmente tutti i diversi modi in cui esso sia liberamente esercitato; ed uno fra questi é costituito proprio dalla scelta che l'imputato faccia di non difendersi, una scelta che costituisce anch'essa esercizio e non rinuncia al proprio diritto, in quanto operata dall'imputato in considerazione di ciò che egli ritenga a lui più conveniente in un dato momento storico e politico.

Contraddittoria sarebbe anche la tesi che la necessità di una difesa, svolta e garantita da un difensore tecnico, sarebbe collegata al concorso degli interessi dell'imputato con il superiore interesse dello Stato all'accertamento della verità. Se é vero infatti che la cosiddetta pretesa punitiva statuale tende all'obiettivo accertamento della verità, certamente non é vero che a tale fine debba collaborare la difesa, che anzi necessariamente vi si contrappone. Di ciò sarebbe espressione normativa l'art. 193 cod.pen., secondo cui l'imputato può togliere effetto all'impugnazione proposta dal difensore: disposizione, questa, che non avrebbe ragion d'essere se la difesa partecipasse al superiore interesse statuale di accertamento della verità, attraverso i vari stati e gradi del procedimento.

In realtà, la volontà difensiva dell'imputato, che può manifestarsi anche nel rifiuto della difesa stessa, viene sempre ad essere privilegiata, ad eccezione che nel dibattimento di primo grado, nel quale, allo stato, l'imputato non può assolutamente far nulla perché venga tutelata e rispettata la sua volontà di non difendersi e di non essere difeso. Di qui la non manifesta infondatezza della prospettata eccezione di incostituzionalità.

2. - L'identica questione di costituzionalità é stata sollevata dal tribunale di Cuneo, in un procedimento in cui l'imputato, nell'udienza pubblica, aveva dichiarato: "io non ho bisogno di difendermi perché la mia linea consiste nel non difendermi perché non ho niente da cui difendermi, se c'é qualcuno in questa aula che si deve difendere siete voi, egregie eccellenze. Ripeto che non ho bisogno di nessun avvocato né di fiducia, né della cosiddetta fattispecie di avvocato di ufficio".

Il tribunale ha ritenuto che il non difendersi é una modalità di esercizio del diritto di difesa come tale rientrante nella tutela costituzionale, e che sarebbe una contraddizione in termini riconoscere all'imputato il diritto a non difendersi, salvo poi imporgli un difensore d'ufficio che in ogni caso alla fine del dibattimento qualche difesa dovrà pur mettere in atto.

Le ordinanze sono state ritualmente notificate, comunicate e pubblicate.

3. - Nel procedimento avanti la Corte costituzionale é intervenuta l'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate dai giudici di Torino e di Cuneo siano dichiarate infondate.

Il problema dell'autodifesa esclusiva dell'imputato, oggetto di ampi dibattiti in dottrina, é stato discusso anche in sede di attuazione della legge delega per il nuovo codice di procedura penale. In mancanza di indicazioni del legislatore delegante per eventuali modifiche della disciplina attuale, la soluzione é stata demandata agli organi politicamente responsabili. Il che avrebbe valore sistematico, in quanto presuppone la ritenuta non incostituzionalità della disciplina vigente.

Per l'Avvocatura dello Stato, il Costituente, nel garantire l'inviolabilità del diritto di difesa, si é dato carico della esigenza di assicurare a tutti il diritto di difendersi nei modi ritenuti più validi: é perciò che ha fatto ricorso alla difesa tecnica. Non ha inteso, invece, darsi carico della non difesa come forma di una valida difesa. Se anche si ritenga che si possa porre in essere una propria difesa contestando il sistema attraverso la non difesa, nulla vieta che tanto sia chiaramente conclamato, ma non impedendo, peraltro, che altre esigenze della collettività, così come giuridicamente organizzata, siano, attraverso la difesa tecnica attiva, parimenti soddisfatte.

Considerato in diritto

1. - Le due ordinanze del pretore di Torino e del tribunale di Cuneo sollevano identica questione di legittimità costituzionale degli artt. 125 e 128 cod.proc.pen., in relazione agli artt. 2 e 24, secondo comma, Cost., e prospettano, con diversa ampiezza, argomentazioni analoghe.

I due giudizi vanno, quindi, riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - I giudici a quibus muovono dal rilievo, di fatto e normativo, che l'imputato ben può rifiutare di difendersi personalmente al dibattimento, astenendosi anche, per sua libera determinazione, dal presenziarvi.

In questo comportamento dell'imputato i giudici ravvisano non già una rinuncia all'inviolabile diritto di difesa, ma piuttosto un modo - se pure negativo - di esercitarlo e dubitano che la "imposizione" di un difensore di ufficio, il quale "istituzionalmente ed obbligatoriamente deve svolgere attività difensiva" (secondo il pretore di Torino), ovvero deve "in ogni caso alla fine del dibattimento qualche difesa pur mettere in atto, non fosse altro che (con) il rimettersi al tribunale" (secondo il tribunale di Cuneo) offenda, appunto, il diritto di difesa.

Il dubbio di costituzionalità investe, dunque, gli artt. 125 e 128 del codice di procedura penale nella parte in cui prescrivono che nel giudizio (di primo grado) anche l'imputato che abbia dichiarato di non volersi difendere e di non volere essere difeso, debba, a pena di nullità, essere assistito dal difensore nominato d'ufficio.

La questione non é fondata.

3. - Dei parametri costituzionali indicati nelle ordinanze di rimessione occorre considerare, in primo luogo, quello di cui all'art. 24, secondo comma, Cost.

É del tutto pacifico che tale disposto contiene una norma di carattere generale, intesa a garantire indefettibilmente l'esercizio della difesa in ogni stato e grado di qualunque procedimento giurisdizionale.

Il generale ambito di applicabilità di questa norma ben venne chiarito nella discussione avanti l'Assemblea Costituente (seduta del 15 aprile 1947) allorquando l'on. Tupini, presidente della I sottocommissione, affermò che "tenuto conto degli abusi, delle incertezze e delle deficienze che hanno vulnerato nel passato l'istituto della difesa, specie per quanto attiene alla sua esclusione dai vari stati e gradi del processo giurisdizionale" si volle "con una norma chiara, assoluta, garantirne la presenza e l'esperimento attivo in tutti gli stati del giudizio e davanti a qualunque magistratura".

Il testo complessivo dell'art. 24 Cost., nella successione dei vari commi, esclude qualsiasi perplessità in proposito e porta a concludere che essenziale finalità delle norme in esame é quella di garantire a tutti la possibilità di tutelare in giudizio le proprie ragioni (sent. n. 108 del 1963).

4. - All'affermazione categorica del diritto inviolabile di difesa, proprio anche per la portata generale della norma che la contiene, non si accompagna, nel testo costituzionale, l'indicazione, dotata di pari forza cogente, del o dei modi di esercizio di quel medesimo diritto.

Con la conseguenza che é consentito al legislatore, valutando la diversa struttura dei procedimenti, i diritti e gli interessi in gioco, le peculiari finalità dei vari stati e gradi della procedura, dettare specifiche modalità per l'esercizio del diritto di difesa, alla tassativa condizione, però, che esso venga, nelle differenti situazioni processuali, effettivamente garantito a tutti su un piano di uguaglianza.

Per il nostro ordinamento positivo, il diritto di difesa nei procedimenti giurisdizionali si esercita, di regola, mediante l'attività o con l'assistenza del difensore, dotato di specifica qualificazione professionale, essendo limitata a controversie ritenute di minore importanza ovvero a procedimenti penali per reati cosiddetti bagatellari la possibilità che la difesa venga esercitata esclusivamente dalla parte.

In particolare, nel processo penale e nella fase del giudizio (salvo che si tratti di contravvenzioni punibili con l'ammenda non superiore a lire tremila o con l'arresto non superiore ad un mese, anche se comminati congiuntamente) il diritto di difesa si esercita dall'imputato personalmente con l'assistenza del difensore, la cui presenza é prescritta a pena di nullità.

5. - In questo quadro normativo, entrata in vigore la Costituzione e fino ad un passato assai prossimo, i problemi dell'"istituto della difesa" nel processo penale - per restare a questo specifico aspetto della più ampia tematica del diritto di difesa nei procedimenti giurisdizionali - sono stati percepiti ed affrontati nella pratica giudiziaria, dalla dottrina e dalla giurisprudenza e sono stati prospettati a questa Corte ed al Parlamento in termini di diffusione e rafforzamento in ogni stato e grado del procedimento del diritto di difesa quale concretamente esercitabile secondo le modalità previste dalle leggi processuali e, quindi, anche e soprattutto mediante l'opera del difensore (tecnico). La linea di tendenza é stata quella di garantire all'imputato, del quale sono in gioco beni ed interessi fondamentali ed irrisarcibili, che attengono alla sua stessa personalità, il massimo di assistenza tecnica, in tutto il corso del procedimento.

Nell'implicito presupposto che il sistema della difesa giudiziaria penale, imperniato sul concorso dell'attività dell'imputato con quella del difensore tecnico, fosse immune da censure di costituzionalità, si é voluta la presenza del difensore sin dal primo contatto dell'imputato con l'autorità inquirente, anche non giudiziaria; presenza del difensore destinata ad assicurare all'imputato, cui deve essere fatta espressa menzione della facoltà, che gli compete, di non rispondere, la maggiore possibile libertà di scelta difensiva e, insieme, la più sicura garanzia di osservanza della legalità, formale e sostanziale, nel processo che lo coinvolge.

Complessivamente si può dire che la produzione normativa del Parlamento e la giurisprudenza di questa Corte, nel decorso ventennio, hanno perseguito il fine di rendere vivo e operante in ogni stato e grado del processo penale, il precetto dell'art. 24, secondo comma, Cost., secondo le modalità previste dalla legge. Questa attività si é svolta in un quadro sociale, culturale e politico (il cui approdo é costituito dalla legge delega per la riforma del codice di procedura penale e dagli elaborati cui essa ha dato luogo) sempre più insofferente del preminente carattere inquisitorio del processo penale modellato dal codice del 1930, per la marcata prevalenza delle acquisizioni istruttorie (quando non delle indagini di polizia giudiziaria), raccolte senza effettiva partecipazione della difesa dell'imputato, rispetto alla verifica, spesso meramente confermativa, del dibattimento.

6. - La moltiplicazione, nella fase istruttoria, nonché in quelle delle indagini preliminari e dell'esecuzione, delle occasioni in cui alla difesa dell'imputato, come attualmente strutturata, é garantito diritto di presenza per l'esercizio delle facoltà che le sono proprie, risponde alla aspirazione a fondare l'intero processo penale sopra un effettivo contraddittorio tra accusa e difesa; contraddittorio la cui costituzione ed il cui funzionamento rappresentano la condizione ritenuta universalmente ottimale per il più efficace esercizio della stessa funzione giurisdizionale. E poiché l'equilibrio del contraddittorio (che ne misura, appunto, l'efficacia) riposa sulla tendenziale parità tra accusa e difesa, nessuno ha mai dubitato o dubita che alla specifica capacità professionale del pubblico ministero fosse e sia ragionevole contrapporre quella di un soggetto di pari qualificazione che affianchi ed assista l'imputato.

Certo é che la legge se può creare, disciplinandoli in modo cogente, i presupposti affinché, sulla base del rapporto processuale, si possa sviluppare il contraddittorio, nulla può, invece, per costringere l'imputato a parteciparvi personalmente, almeno da quando l'ordinamento ha rinunciato ad usare la coercizione fisica nei suoi confronti per questo fine. E nemmeno la legge pretende di sindacare il modo e l'intensità con cui viene concretamente esercitato il diritto di difesa, dall'imputato personalmente e/o dal suo difensore, sul presupposto, di regola valido, di una convergenza di intenti tra questi due soggetti.

Di fatto, l'esercizio della facoltà di intervento riconosciuta all'imputato in tutto il corso del dibattimento ed a conclusione di esso (artt. 443 e 468, terzo comma c.p.p.) incontra soltanto limiti negativi; quello specifico della pertinenza delle sue dichiarazioni rispetto all'oggetto del giudizio e quelli generali costituzionalmente posti alla libertà di manifestazione del pensiero, estendendosi, peraltro, anche a lui l'esimente di cui all'articolo 598 c.p.

Quanto ai difensori, la legge, oltre ad indicare modi e tempi di intervento, si preoccupa dei loro possibili abusi a contrastare i quali prevede gli interventi autoritativi del giudice, di cui all'art. 470 c.p.p.

Non é, invece, causa di nullità del dibattimento (e più in generale dell'intero procedimento penale) l'inadeguato e financo il mancato esercizio della facoltà e dei poteri spettanti alla difesa, il che suona conferma che l'ordinamento, mentre garantisce le condizioni per l'esperimento attivo del diritto di difesa, non ha preteso (e non poteva pretendere) di trasformare tale diritto in un dovere, la cui incoercibilità rappresenta, oltre che un dato di fatto, l'immediato risvolto di una inviolabilità che comprende sicuramente anche la piena libertà di scelte difensive.

7. - Muovendo, con esclusivo riferimento alla fase dibattimentale, dalla constatazione che l'imputato ben può rifiutare ogni apporto personale alla propria difesa, i giudici a quibus sollevano il dubbio di legittimità costituzionale degli artt. 125 e 128 c.p.p. nei termini più sopra richiamati.

A tale fine, essi presuppongono entrambi che la volontà di non difendersi e di non essere difeso manifestata dall'imputato costituisca non già una rinunzia al diritto di difesa, ma una modalità di esercizio del diritto stesso, "meritevole di rispetto e tutela".

Alla prospettazione comune del pretore di Torino e del tribunale di Cuneo, questa Corte ritiene di attenersi, non potendo formare oggetto di un giudizio di legittimità costituzionale il rifiuto non già di esercitare attivamente il diritto di difesa, ma della stessa funzione giurisdizionale e più in generale di ogni potere statuale e, quindi, anche il rifiuto del ruolo di imputato, che attraverso l'astensione da ogni attività difensiva, si vorrebbe manifestare.

Si deve, allora, affermare che speculare alla inviolabilità del diritto di difesa, é la irrinunciabilità di esso, quali che ne siano le concrete modalità di esercizio. Il diritto di difesa, infatti, nel processo penale, é preordinato a tutelare beni e valori fondamentali dell'uomo, dei quali in quel procedimento si discute e decide, nonché a maggiormente garantire, anche nell'interesse dell'imputato, l'osservanza di principi dell'ordinamento costituzionale, che attengono specificamente alla disciplina del processo penale medesimo.

L'imputato non può rinunziare ai diritti inviolabili dei quali é titolare, né può disporre delle garanzie che gli derivano dalle norme costituzionali suaccennate (artt. 25, 26, 27, 101, 102, 103 ultimo comma, 109, 111, 112).

Egli può, certamente, astenersi dal compiere concrete e contingenti attività difensive intese a far valere quei diritti, senza che, peraltro, da questo suo atteggiamento possa dedursi una rinunzia ad essi, alla possibilità cioé di farli valere in un momento successivo del procedimento o, comunque, anche dopo la conclusione di esso, nei modi e salve le preclusioni che fossero stabilite dalla legge processuale in termini costituzionalmente corretti.

Per fare gli esempi più elementari, non potrebbe certo negarsi all'imputato che abbia rifiutato di difendersi, personalmente e a mezzo del suo difensore, il diritto di impugnare la sentenza di condanna emessa nel giudizio di primo grado, ovvero di ricorrere per cassazione contro una sentenza ritenuta da lui ingiusta emessa a definizione del giudizio di appello.

Ad uguale conclusione si dovrebbe pacificamente pervenire in punto di ammissibilità della domanda di revisione di una sentenza di condanna divenuta irrevocabile avanzata dal condannato che avesse rifiutato di difendersi e di essere difeso in quel giudizio.

Si deve dunque concludere che il diritto di difesa nel giudizio penale - per restare al thema decidendum - é non soltanto inviolabile, ma é altresì irrinunciabile, con la conseguenza che il rifiuto di compiere o di consentire al compimento di determinate attività difensive non può costituire di per sé preclusione assoluta allo svolgimento di altre ulteriori.

8. - Se cosi é, la obbligatoria presenza al dibattimento del difensore, perché presti la propria assistenza all'imputato, prevista a pena di nullità dall'art. 125 c.p.p., non contrasta certamente con l'art. 24, secondo comma, Cost.

Dal disposto della legge processuale penale, qui considerato, non discende infatti quell'obbligatorio esperimento di concrete attività difensive cui i giudici a quibus fanno generico riferimento per dedurne l'esistenza di una contraddizione in termini rispetto al rifiuto di difendersi manifestato dall'imputato.

Infatti, come già si é osservato, la difesa dell'imputato nel giudizio può essere esercitata attraverso l'attività dell'imputato stesso e/o del suo difensore.

Il codice di rito non disciplina rigidamente il rapporto tra questi due soggetti, e l'ampiezza del disposto dell'art. 443 c.p.p. non consente di individuare limitazione alcuna in ordine agli argomenti sui quali l'imputato ha facoltà di fare dichiarazioni, dopo aver conferito, se lo ritiene, con il proprio difensore.

Del pari, il diritto dell'imputato e del suo difensore, ad avere per ultimi la parola, sottolinea ulteriormente la concorrenza dei loro apporti difensivi nella fase del giudizio.

Vero é che la prassi giudiziaria questi ruoli ha indubbiamente distinto, nel senso di affidare il peso prevalente della difesa al difensore tecnico, ma questa situazione di fatto non vale a modificare un impianto normativo improntato al massimo di elasticità, che consente radicali spostamenti nell'equilibrio delle attività difensive consentite all'imputato e al suo difensore.

Tanto basta ai fini della presente decisione, una volta accertato che il difensore deve presenziare al dibattimento per ivi "assistere" l'imputato e cioé per garantire la possibilità di un contraddittorio effettivo (e perciò equilibrato) alla cui realizzazione, per il più sicuro adempimento delle funzioni giurisdizionali, é preordinata tutta una serie di disposizioni processuali (artt. 76, 421, 428, 438, 441, 442, 443, 447, 468 c.p.p.).

La nomina del difensore di ufficio, disciplinata dall'articolo 128 c.p.p., conferisce concretezza all'obbligo della assistenza difensiva di cui all'art. 125 c.p.p. e consente inoltre, o dovrebbe normalmente consentire, nei casi di assenza dell'imputato, uno svolgimento non monologico del giudizio stesso.

Nelle fattispecie, quali quelle prospettate dai giudici a quibus, di assenza volontaria dal dibattimento dell'imputato, motivata dal suo rifiuto di difendersi e di essere difeso, la presenza obbligatoria del difensore di ufficio, nei limiti desumibili dai soli artt. 125 e 128 c.p.p., assicura la regolarità del dibattimento stesso e la possibilità del concreto ed efficace esperimento attivo dell'irrinunciabile diritto di difesa, contemperando così l'esercizio di tale diritto e quello della funzione giurisdizionale, in modo da evitare che le facoltà connesse al primo possano essere usate in modo perverso per intralciare e paralizzare il secondo.

Ai fini della decisione é, dunque, sufficiente ribadire che le norme denunziate, nelle quali non si esprime una scelta legislativa costituzionalmente obbligatoria, sono meramente strumentali a modi di esercizio del diritto di difesa, nel giudizio penale, immuni da censure sul piano costituzionale.

9. - Per le medesime considerazioni sin qui svolte, i disposti di legge in esame neppure contrastano con l'art. 2 Cost., in relazione al quale nessuna autonoma censura risulta peraltro sviluppata nelle ordinanze di rimessione.

Infatti l'invocato art. 2 Cost. nella costante interpretazione della Corte "nel riconoscere i diritti inviolabili dell'uomo, che costituiscono il patrimonio irretrattabile della sua personalità, si ricollega alle altre norme costituzionali concernenti singoli diritti e garanzie, quanto meno nel senso che non esistono altri diritti fondamentali inviolabili che non siano necessariamente connessi a quelli costituzionalmente previsti" (sent. n. 98 del 1979).

Escluso che le norme denunziate violino l'art. 24, secondo comma, Cost., non é, allora, fondatamente prospettabile un loro contrasto con l'art. 2 Cost., che al diritto di difesa si ricollega, ma si deve invece riconoscere che nessuna lesione della personalità dell'imputato, nessuna alterazione della sua identità può derivare dall'obbligo in sé dell'assistenza del difensore nel giudizio penale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 125 e 128 codice di procedura penale sollevata con le ordinanze in epigrafe in riferimento agli artt. 2 e 24 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 ottobre 1979.

Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI.

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 10 ottobre 1979.