Sentenza n. 448 del 1995

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SENTENZA N. 448

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO, Presidente

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 34 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 6 aprile 1995 dalla Corte d'appello di Venezia nel procedimento penale a carico di Franco Battaggia, iscritta al n. 352 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di costituzione di Franco Battaggia; udito nell'udienza pubblica del 3 ottobre 1995 il Giudice relatore Cesare Mirabelli;

udito l'avvocato Elio Zaffaloni per Franco Battaggia.

Ritenuto in fatto

1. -Con ordinanza emessa il 6 aprile 1995 nel corso di un processo penale nei confronti di Franco Battaggia, la Corte d'appello di Venezia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 76 della Costituzione (quest'ultimo in relazione all'art. 2 della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81), questione di legittimità costituzionale dell'art. 34 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice il quale ha disatteso la richiesta di pena congiuntamente proposta, in base all'art. 599, comma 4, del codice di procedura penale, dall'imputato e dal pubblico ministero non possa partecipare alla successiva decisione di merito sull'impugnazione. L'ordinanza di rimessione ricorda che, all'esito di un giudizio abbreviato, l'imputato era stato condannato alla pena di diciotto anni di reclusione per omicidio volontario ed altri reati, essendo stata riconosciuta l'attenuante del risarcimento del danno equivalente rispetto alla contestata aggravante. L'imputato aveva proposto appello, chiedendo, tra l'altro, la dichiarazione di prevalenza dell'attenuante e di conseguenza una riduzione della pena. Il difensore dell'imputato ed il procuratore generale avevano dichiarato di concordare sull'accoglimento di questo motivo di appello e sulla misura della pena da irrogare (12 anni di reclusione), con rinuncia dell'imputato agli altri motivi di gravame. La Corte d'assise d'appello aveva ritenuto di non poter accogliere, allo stato, la concorde richiesta delle parti. Il difensore dell'imputato aveva, quindi, proposto la ricusazione del giudice sul rilievo che questi, non accogliendo la richiesta delle parti, si sarebbe già pronunciato sul merito; aveva inoltre eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 34 del codice di procedura penale, nel caso in cui si ritenesse non prevista questa incompatibilità.

La Corte d'appello, giudicando sulla ricusazione, ritiene che l'istanza dovrebbe essere respinta, perchè l'art. 34 del codice di procedura penale non prevede, tra le situazioni di incompatibilità, quella derivante dal rigetto della richiesta di "patteggiamento" in appello.

Nè sarebbe possibile un'interpretazione estensiva o analogica, essendo i casi di incompatibilità tassativi.

La questione di legittimità costituzionale è ritenuta rilevante per il giudizio principale perchè, se fondata, consentirebbe di accogliere la richiesta di ricusazione. La Corte d'appello sottolinea che il regime delle incompatibilità del giudice, previsto dalla delega legislativa al Governo per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale (legge 16 febbraio 1987, n. 81), risponde all'esigenza di evitare che la valutazione di merito possa essere, o possa ritenersi che sia, condizionata dallo svolgimento di determinate attività nelle precedenti fasi del procedimento. L'accoglimento o meno, in tutto o in parte, dei motivi d'appello su concorde richiesta delle parti, in base all'art. 599 del codice di procedura penale, implicherebbe appunto una valutazione di merito, necessaria per apprezzare la congruità della pena da irrogare in concreto, secondo i parametri indicati dall'art. 133 del codice penale.

La Corte d'appello ricorda anche che la giurisprudenza costituzionale ha già affermato (sentenze nn. 124, 186, 399 del 1992 e 439 del 1993) che il rigetto della richiesta di applicazione della pena su richiesta delle parti, in base all'art. 444 cod. proc. pen., comporta una valutazione di merito e determina l'incompatibilità del giudice per il giudizio. In base allo stesso principio si dovrebbe ritenere che l'omessa previsione di analoga incompatibilità per il giudice che non aderisce alla richiesta delle parti che hanno concordato sull'accoglimento dei motivi d'appello ed hanno indicato la misura della pena (art. 599 cod. proc. pen.) sia costituzionalmente illegittima. Difatti sarebbe violato il principio di parità tra cittadini (art. 3 della Costituzione), posto che la situazione considerata corrisponde logicamente e giuridicamente a quella disciplinata dall'art. 444 cod. proc. pen. Inoltre sarebbero violati gli artt. 24 e 25 della Costituzione, per la lesione del diritto di difesa e del principio del giudice naturale precostituito per legge, che comprenderebbe il sistema delle incompatibilità. Infine, in contrasto con l'art. 76 della Costituzione, in riferimento all'art. 2 della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (più precisamente, alla direttiva n. 67 di tale disposizione), sarebbero violati i principi ed i criteri direttivi della legge delega, con riguardo all'applicazione del principio di terzietà del giudice.

2. -Nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituito Franco Battaggia, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia accolta.

In prossimità dell'udienza la parte privata ha depositato una memoria per sostenere che le ragioni per le quali vi è incompatibilità a giudicare per il magistrato che ha respinto l'applicazione della pena richiesta dalle parti in base all'art. 444 cod. proc. pen. valgono egualmente per la richiesta concordata dalle parti sull'accoglimento dei motivi d'appello, in base all'art. 599, comma 4, cod. proc. pen. Non sarebbe condivisibile l'orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione, secondo cui la valutazione della concorde richiesta delle parti in appello in base a quest'ultima norma non costituirebbe anticipazione di giudizio ai fini della ricusazione, non riguardando la dichiarazione di responsabilità ma la congruità della pena. Anche in quest'ultimo caso, secondo la difesa della parte privata, si darebbe comunque un giudizio di merito idoneo a costituire un "pre-giudizio".

Considerato in diritto

1. -La questione di legittimità costituzionale concerne il regime, disciplinato dall'art. 34 del codice di procedura penale, delle cause di incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento. La Corte d'appello di Venezia ritiene che questa disposizione, nella parte in cui non comprende tra le cause di incompatibilità la posizione del giudice d'appello che non ha aderito alla richiesta delle parti che hanno concordato sull'accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi d'appello ed hanno indicato la misura della pena (secondo quanto previsto dall'art. 599, comma 4, cod. proc. pen.), sia in contrasto: con l'art. 3 della Costituzione, per violazione del principio di parità di trattamento rispetto ad analoghi casi di decisione sull'accordo delle parti, per i quali invece l'incompatibilità sussiste; con gli artt. 24 e 25 della Costituzione, per violazione del diritto di difesa e del giudice naturale, precostituito per legge, anche in relazione al sistema delle incompatibilità; con l'art. 76 della Costituzione, per violazione della direttiva della legge delega in relazione al principio di terzietà del giudice che decide sul merito (art. 2, numero 67, della legge 16 febbraio 1987, n. 81).

2. -La disciplina legislativa dell'incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento penale risponde ad una generale esigenza di garanzia nel giudizio, che si deve formare in base al libero e razionale apprezzamento delle prove legittimamente raccolte, idonee a costituire il fondamento del motivato convincimento del giudice. Ciò implica e presuppone la sostanziale ed evidente imparzialità del giudice, che non deve essere, nè deve apparire, condizionato da precedenti attività svolte quale parte, sia pure pubblica, del processo o da giudizi espressi, in uno stadio anteriore del procedimento, sul merito della stessa controversia. Esaminando il regime delle incompatibilità del giudice nella nuova disciplina del processo penale, la Corte ha affermato, sin dalla sentenza n. 496 del 1990, la necessità di evitare che la valutazione di merito del giudice possa essere condizionata dallo svolgimento di determinate attività nelle precedenti fasi del procedimento o dalla previa conoscenza dei relativi atti processuali, così come emerge dalle enunciazioni espresse nella delega legislativa al Governo per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale (art. 2, numero 67, della legge n. 81 del 1987). La direttiva della delega, se pure non copre tutte le attività svolte in precedenza nel medesimo procedimento, richiede, per il suo sostanziale rispetto, di verificare se ricorrano, anche in casi non esplicitamente previsti, le ragioni che hanno ispirato i principi della stessa.

Le medesime necessità poste a base del regime delle incompatibilità, ancorato al principio di imparzialità del giudice rispetto alla decisione sul merito oggetto del giudizio, si sono manifestate in tutti i casi nei quali vi sia già stata da parte dello stesso giudice, sulla base dei risultati delle indagini preliminari, una valutazione contenutistica dell'ipotesi accusatoria (sentenze nn. 401 e 502 del 1991). È stata così dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l'incompatibilità a partecipare all'udienza dibattimentale del giudice per le indagini preliminari e del giudice del dibattimento che hanno respinto la richiesta di applicazione di pena concordata in limine litis, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (sentenze nn. 124, 186, 399 del 1992 e 439 del 1993). Si è ritenuto necessario evitare il rischio che la valutazione del giudice sia, o possa apparire, condizionata dalla sua propensione a confermare una propria precedente decisione, basata sugli elementi probatori raccolti nelle indagini preliminari, con la possibilità quindi di incidere sulla garanzia di un giudizio che deve essere basato sugli elementi di valutazione e di prova assunti in contraddittorio nel dibattimento. Da ultimo la Corte ha ritenuto che l'incompatibilità del giudice si estenda anche a decisioni che non riguardano immediatamente il merito del giudizio, quando lo stesso giudice abbia adottato decisioni cautelari sulla libertà personale che implichino una valutazione non formale, ma di contenuto, sulla probabile fondatezza dell'accusa ed esprimano un giudizio di alta probabilità dell'esistenza del reato e della sua attribuibilità all'indagato (sentenza n. 432 del 1995).

3. -La questione ora sottoposta all'esame della Corte riguarda la compatibilità a giudicare il merito dell'impugnazione da parte del giudice che non ha accolto la richiesta dell'imputato e del pubblico ministero, i quali, concordando sull'accoglimento di uno o più motivi d'appello, con rinuncia agli altri motivi eventualmente proposti, hanno indicato la pena da applicare. Questa figura di accordo fra le parti, disciplinata dall'art. 599 cod. proc. pen., implica una valutazione di merito da parte del giudice ai fini del giudizio di congruità della pena concordata. Tuttavia la valutazione contenutistica del giudice non è idonea a configurare una situazione per la quale valgano le ragioni dell'incompatibilità per il giudizio di merito, giacchè il "patteggiamento" in appello presenta peculiarità che lo differenziano dal patteggiamento in senso proprio che si svolge in primo grado, prima dell'apertura del dibattimento (artt. 444 e ss. cod. proc. pen.). Nel caso dell'appello si tratta, difatti, del giudice già investito, nella sede propria, del merito, il quale valuta la congruità della pena in base agli stessi elementi sui quali dovrà fondare la propria decisione al termine del giudizio di impugnazione.

La decisione sulla richiesta delle parti (che, in caso di rigetto, è riproponibile sino alla chiusura del dibattimento) costituisce un giudizio eventuale ed anticipato, formulato in base alle prove sulle quali il giudice, investito del giudizio di merito, dovrà fondare il proprio convincimento. Non si è quindi in presenza, come nel caso dell'accordo delle parti sulla pena in primo grado, di un'anticipazione di giudizio, effettuata sulla base della consultazione e della valutazione degli atti del fascicolo del pubblico ministero.

Le valutazioni del giudice nel patteggiamento in appello si esprimono dunque in situazioni diverse da quelle del patteggiamento in primo grado. Questo è sufficiente per escludere la lesione del principio di parità di trattamento nelle due diverse situazioni. Le stesse considerazioni consentono di ritenere che non sono neppure contraddette le esigenze sostanziali poste a base delle enunciazioni espresse dalla legge di delega e dirette ad evitare che le valutazioni di merito del giudice possano essere condizionate dal precedente svolgimento di determinate attività nello stesso procedimento. L'adesione o meno alla richiesta concorde di accoglimento di motivi di appello, con determinazione della pena in conformità alle indicazioni delle parti, costituisce sempre una valutazione propria espressa dal giudice, già investito del merito del giudizio di impugnazione e che deve pronunciarsi sulla stessa al termine del dibattimento o, se in conformità della richiesta delle parti, anticipatamente.

La questione di legittimità costituzionale non è, pertanto, fondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 34 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 76 della Costituzione (quest'ultimo in relazione all'art. 2, numero 67, della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81), dalla Corte d'appello di Venezia con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 ottobre 1995.

Vincenzo CAIANIELLO, Presidente

Cesare MIRABELLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 24 ottobre 1995.